Ognuno è parte di sé stesso.

 

questo breve libro è stato scritto dall'ultimo capitolo al primo - per essere letto ora ch'è finito dal primo capitolo all'ultimo - o rileggerlo come è stato pubblicato e letto passo passo dall'ultimo capitolo al primo.

Patrizio Marozzi

 

 

Il vuoto. Tutto quello che appare non a un momento senza spazio o tempo è tutto costantemente apparente e pieno - per questo nel mio essere non sto dove sto ma sono costantemente dove sono e quel che sovviene non è la storia ma il luogo in cui sono - e tutto questo è ogni cosa è ogni posto. Se tutto ciò è in ciò tutto è completamente comune eppur completamente pieno - e per questo completo ma mancante della mia possibile virtù.  Il vuoto in cui mi colloca la coscienza mi da del mondo come io sono del mondo - ma il vuoto che 'o nella coscienza io posso conoscerlo. Ora io Socrate se c'è la conoscenza è di certo nel vuoto che io decido di aprire al vuoto e per questo non 'o che la virtù per capire e dire di qui che Dio è dove sono perché non so cosa può dire in virtù della mia virtù, non come se potessi dire cosa può essere in virtù della sua eterna esistenza. Dio Socrate non vi appare per quel che si è ma in virtù di quel che è. Pertanto io Socrate non conosco il vuoto ma so che il vuoto è dov'è e se io ne sono parte apro le porte al mondo e lo riempio di sé stesso. Per questo lo accetto, ma in virtù della mia virtù esisto al di là del vuoto. Non so cosa è il potere se non in virtù della virtù.  Disse Socrate a questo punto. Eppure nessuno capì quel che accadde a Socrate. Socrate visse due volte come le cose piene e le cose vuote e soltanto la materia apparve ma lo spirito è restato nella virtù non nella storia. Ora il tempo ci dice che Socrate è vissuto. La sua persona si è amata.

 

 

Il giorno dopo, come un tempo fischiato e un suono abbandonato. Sembra quasi dirci che è stato sopravanzato. Sembra un gioco acchiapparlo e il tempo passeggia e trova un luogo e un volto. Può essere leggero tutto questo, questo ch’è soltanto una voce che grida – il giorno dopo qualcosa sembra impaurire il mondo. Se le cose avessero un luogo ciò sarebbe possibile, in realtà se possiamo parlare con questo tema non lo ànno. Esse più propriamente in tale definizione sono, esse sono nel modo più proprio come una pietra o un granello di sabbia primordiale. Esse sono e sono ovunque perché esse sono. Un grido nel deserto, una voce nel deserto. Uno sguardo poi su tutto. Il giorno dopo sono tra le cose, silenti e apparenti, solute e possibili, senza margini per la possibile bellezza. Il giorno dopo la voce à già abbandonato il deserto, e, le cose che sono mi sono tutte dinnanzi. Il dianzi lascia il pensiero e il suono alla pietra che vana trova aperto il pertugio. Il giorno dopo io sono già dove sarò, ma le cose le immense cose sono già dove sono sempre state, esse sono. E il mio fischio è aperto al suono come il respiro che c’è e io come, possibile, sono tra le cose. Fischio quel suono di quella voce che à abbandonato un suono. Leggero o aria io mi ritrovo tra le cose più piccole o inamovibilmente grandi, io sono qua dove c’è tutto e le cose. Non di là del grido nel deserto né del suono né della pietra, ma tutto questo non può dirmi dove sono cosa sono perché Io sono.

 

Oggi, potrebbe essere sempre! Ogni passo è un luogo, ogni luogo un tempo, ma oggi io sono in un passo. Sono in un deserto, un attimo dopo in mare e poi sopra una montagna. Osservo il silenzio nel deserto e, mi volto in mezzo alla folla in una città. Guardo una persona negli occhi mentre mi passa accanto e non sa nulla di me né chi io sia. Eppure io so perfettamente cosa sta facendo quella persona, questa persona che à un viso, un volto a me sconosciuti. Sconosciuti eppur sapienti, come nel tempo i tentativi si siano susseguiti, uno dopo l’altro, tanti o soltanto nel tentativo di un per sempre. Sembra che tutti in un modo e un altro si ricordino di me, come se continuassero a cercar di risolvere quel problema che non è stato risolto – se non sono stato libero ora il sapiente cerca la libertà non l’ò avuta è scritto nei libri che non sanno che io sono sopravvissuto a questo e all’impossibile che io Socrate avrei spiegato con la mia morte. Eppure io sono pur sempre chiuso nel tempo, ovvero io sono un corpo che à dato alla vita materiale il suo inizio e la sua fine. L’idea di una possibile bellezza e virtù è per questo mia di Socrate – e il grande dramma è appunto se io esisto in quanto possibile soluzione ai rapporti umani nella libertà di una virtù, in virtù di cosa gli esseri umani dovrebbero essere nella mia virtù. La polis ripete l’epilogo ovvero la possibilità di capire la virtù di Socrate – anche in ragione di questa persona che poco fa mi è passata accanto. Ma il dramma e la sua rappresentazione; sembra attraversi tutto l’evolversi sociale tra l’uomo e il mio attributo sociale relativo al tempo o al mondo che protende all’organizzazione. La virtù di Socrate la mia virtù non è più mia! O il modello sociale cerca di far vivere Socrate affinché si comprenda perché c’è un giudizio per Socrate, affinché per virtù la mia indipendenza sia equiparata a quella riconosciuta dalla polis e, ogni individuo in essa cerchi di essere libero in virtù del suo essere per esserci nel significato della rappresentazione virtuosa. Il deserto è ampio e l’aria è calda e io oggi sono qui tutto il tempo che è stato vissuto nella storia e nel suo dramma non può esservi che in “virtù” del suo tempo senza Socrate. Chi altri allora vi è stato se non Socrate l’enunciato potrebbe dire – non certo chi vi è stato. Io sono qui sono Socrate, e ora mi siedo e mangio il mio torsolo di mela.

 

 

Il cammino verso un lungo viaggio, potrebbe apparire in questo modo tutto quel tempo, ma difatti io l’ò già trascorso. E allora come si pone l’accordo e in essere, l’accordo. Io oggi mi guardo intorno e osservo questo mondo di idee che trova dimora tra i dialoghi, come se le cose da fare siano altre, rielaborate. Mi esprimo ma ciò che vuole dirsi mi sembra come diverso ma pur sempre instabile. Per questo la regola così spesso indeterminata come se fosse in discussione tutto fuorché perché si debba determinare la regola e la sua discussione. Come se le cose migliori da fare avessero un limite che non è possibile risolvere e per tale principio la discussione à bisogno di un punto di appoggio, con cui si cerca di reggere il principio, che cambia come cambia spesso il punto di appoggio. Ecco ora io passeggio e mi guardo intorno e questa origine delle idee mi sembra troppo apparente – che io quindi sia una di tali idee. Allora quando non è possibile risolvere e quando un’idea non è possibile stabilire? In determinati significati non c’è mai una ragione prioritaria, ma una ragione prioritaria è lì che deve essere assolta – altrimenti non potrebbe essere considerata come tale. Ecco il mondo delle idee non appare mai prioritario, come à ben riflettere così neanche il mondo empirico. Io, dunque non appartengo ad una ragione che supera tutte le altre perché quel che si determina non è un arbitrio, ma la possibilità che le idee e il mondo empirico trovino in sé sostegno. Mi appropinquo a mangiare la mia mela e qual che è pacifico è che mangio, quel che sto osservando spero lo sia.

 

 

Com’è che se ne va una persona, com’è che me ne vado. Con un sacco, con un passo. Dico che parto come questa storia mia che ad Atene non à più la conclusione conosciuta. Esco in un viaggio solitario e l’epigono e la storia restano lì dove sono. Ora mi guardo intorno chiedendomi quale sia il luogo dove voglio essere e dove più spesso mi fermo a pensare. Così e, allora lo sguardo mio diviene come possibile di quel che vivo interiormente – non ci sono dove mi credo, o soltanto lì – più esattamente qui. Lo spazio naturale ch’è come il respiro non conosce orizzonti, quindi io, qui ora sono – respiro e mi percepisco, guardo sentendo l’oltre che percepisco e una solitudine che non è mai silenzio ma parole vive dell’ascolto dell’anima. Il mondo della natura oltre l’orizzonte non trova il tempo né di ascoltare, né di parlare, ma di esservi. Il mondo che vedo dovrebbe apparirmi com’è. Ora cammino e mi siedo, contemplo per tornare a parlare, in questo sguardo o viaggio.

 

 

Se fossi giunto in un luogo e non sapessi dove sono, potrei forse dire, a me stesso, di essere da qualche parte – eppure giunto nel luogo dove altri dicono di essere, mi rendo conto di esservi perché io non so dove sono. Certo per questo sono in questa assurda o più che appariscente compagnia, qualora fosse il divenire del mio fatto un luogo estraneo a tutta codesta compagnia. Ora la migliore verosimiglianza è l’inverosimiglianza – ed è proprio dall’estraneità di tutto questo sìdetto che potrei dire soltanto dicendolo, io non so dove sono ma so di esservi e pertanto sto conoscendo dove sono e scoprendo questo tempo nel tempo. Se fossi nella compagnia della verosimiglianza potrei dire di essere in quel giudizio, dove io so di essere e gli ateniesi dicono di esservi, in ragione non del mio esserci, ma della verosimiglianza che è nel giudizio dato dagli ateniesi, che io scopro come inverosimile tanto da non sapere dove sono se non per mio attributo verosimile alla mia virtù. Ma appunto nella virtù di questa virtù la conoscenza dell’estraneità di tutto questo sìdetto. Ecco in questo luogo reale e concreto possiamo conoscerci e per ciò in più incontrarsi.

 

 

Io che sono qui giunto di là di quel misero dilemma costituzionale – quale possibile pensiero può nascere dall’interrogarsi, seppur a voce alte e in palese colloquio. Si corrompe l’animo e il pensiero costituito – come epoca profana del tempo così acquisito soverchiando il riflettere. L’epoca così è ridicola ma è palese, o meglio in tale modo è palesemente considerata – e quindi l’individuo appalesato non sa e non dubita ma concepisce, e, per questo sembra dire esisto di là di me stesso ma per questo il tutto esiste per questo mio appalesarmi. Allora l’eloquenza come la conoscenza ànno già una virtù che non può essere disconosciuta, ma riconosciuta di là del principio stesso del pensiero che conosce. E allora come si può concepire tale conoscenza apodittica se non si può colloquiare e riflettere con chi sa di dover essere apoditticamente riconoscente, e, perciò in virtù di tale attributo riconoscente della virtù divina del conoscente come conosciuto. In virtù di questo lo status à riconosciuto nel giudizio apoditticamente in Socrate la palese virtù di una conoscenza non conosciuta – ma per stessa eloquenza dell’assise ateniese giudicante non è attribuibile né all’attributo, né tantomeno all’attribuito. Perciò il conosciuto non può dirsi non conoscente della virtù del conosciuto se non in ragione del non conosciuto e per questo Socrate è conoscente della virtù che può venire da un atto conosciuto di Dio a cui riconoscente riconosce un suo atto conoscente e, in questo al suo IO Socrate che fa della conoscenza l’atto della sua virtù, di quel apoditticamente riconosciuto, come sua riconoscenza del conoscere. Per ciò io Socrate dico come atto espresso ma inverecondo di ciò che doveva essere la mia condanna non stata perché priva di virtù – l’atto della messa in scena è un atto così come è stato privo di conoscenza pertanto privo di virtù. L’attributo e l’apoditticamente ànno variegato un sostanziale astratto completamente privo della messa in scena come della virtù pratica dell’eloquenza e del pensiero, perché priva e chiusa nell’ingratitudine di non saper essere riconoscenti e non saper essere riconosciuti come tali e c’è l’ipocrisia della messa in scena. Dove si è rifugiato il giudizio nell’assenza presenza che fa dell’attribuibile lo status caratteriale come dell’atteggiamento del giudizio ideologico come astrazione dell’idea e dell’assenza presenza che così dice di sapere anche dove non conosce e giudica chi non vede anche se non è presente. Socrate compie un passo avanti ed esce dalla porta.

 

 

 

Io Socrate voglio dire in cosa si acquisisce un dramma – se io avessi detto di non pensare forse avrei potuto apparire apoditticamente deterministico e pertanto poco altruistico – e per questo come si può così ascoltare una menzogna e sperare di ascoltare la verità, ma nel frattempo si continua a pensare alla stessa menzogna. Se io dunque acquisisco un pensiero posso anche riflettere e dubitare e quindi se il dilemma appare dubitativo io stesso ò la facoltà anche del suo pensiero e dell’eloquenza che cerca di capire, in me quindi c’è il dramma e la virtù dell’eloquenza che cerca una soluzione e una risoluzione se possibile – nel dramma quindi di quel che sia il diritto che ò verso di me di dire e pensare e non il diritto di dire e pensare come dovrebbe un altro – insomma il dramma molteplice che si forma di dire che ò un diritto in questo verso di me ma non di dire a un altro cosa essere e pensare. Questo dramma infinito e moltiplicatore spesso di quel che è, che si fa sì apoditticamente deterministico, come si è svolto verso me nel giudizio filosofico di Mileto, che insinuava che un discendete potesse da me essere corrotto verso un tempo apodittico senza possibilità di pensiero – appunto perché per termine della categoria non potevano essere codesti miei ascoltatori discepoli in quanto apoditticamente determinati dalla cultura stessa di Mileto e, pertanto discendenti e non pensanti. E quindi se io per questo condussi all’eloquenza e non alla guerra spartana ma alla soluzione del pensiero risoluto come virtù individuale e pertanto partecipe e possibile come coscienza e non soltanto determinazione, nel concetto Miletiano è subentrato il dramma e la soluzione irrisoluta per la mia morte. Ditemi voi se ciò fosse avvenuto se ora l’uomo non avrebbe un’immaginazione emblematica tra la tragedia e il ridicolo e quindi il dramma irrisoluto della realtà deterministica, in un concetto portato alle estreme conseguenze del conflitto, tra l’uomo il pensiero e la libertà, esplicativamente contenuto, appunto, tra la causa effetto e l’effetto della causa tra cosa sia più importate e determinate se l’uovo o la gallina, per stabilire una priorità e una superiorità sopra ogni possibile conseguenza e realtà virtù del significato, come pensiero o azione.

 

 

 

 

il bisogno appare stanco, e, Socrate getta il torsolo di mela che ancora teneva in mano, mentre continua a pensare sopra il suo pensiero. Si disse esiste un metodo ma non è più praticabile da se stesso in quando chi ne riconosce i canoni non può rispettarne l'equilibrio e per ciò il suo significato - non per ciò, ciò è l'unico equilibrio che rispetta nel metodo il significato attribuitogli. il principio del tempo cambia l'atteggiamento e ancor più la posizione per la possibilità - il metodo non si equivale ed è annullato appunto in mancanza della sua virtù. il flusso stringe i significati, spostando gli attributi e per questo i significati. Dice Socrate nell'impossibilità di essere mela non si può dire di essere un melone ciò che si è mangiato e per questo sia la mela e sia il melone appunto in virtù della virtù e non solo di una sua parte - se il melone prendesse alla mela la sua buccia, la mela cosa direbbe? forse nulla, ma chi a tolto la mela non potrebbe certo dire che sia stato il melone a mangiarla. Forse con ciò chi ti dà, da mangiare non può avere un comparazione, tra cosa sia il frutto la fame e l'offerta - di là di questo crede ci sia la caducità del metodo e della sua problematica, in virtù possibile di quale sia la soluzione e la possibile comunicazione. Socrate raccoglie il torsolo della sua mela lo pulisce con dell'acqua e lo mangia.

 

 

Il punto giornaliero di un Socrate all’ultimo morso di mela dovrebbe apparire identico, se non fosse che il tempo sembra sempre il medesimo – ora forse superiamo il medesimo tempo, diamo un significato contemporaneo al rapporto intrinseco e di costrutto al senso tutto del potere e delle sue attribuzioni come insufficiente e mediocre. Ora aspettiamo un tempo globale, ma soltanto relativo a un aspetto, come quello economico – il tutto partecipe è relativizzato come presente e assente, manca il medesimo e quindi la soluzione. In definitiva su punto di albero di mela dico con Socrate – Non si dovrebbe dissolvere la differenza tra tutte le valute monetarie creando un'unica moneta su tutto il pianeta già monetizzato – togliere l’inflazione, abolire il credito, con soltanto il denaro e annullare ogni debito – finalizzando la realizzazione delle soluzioni alle possibili necessità umane liberando la realizzazione e la comunicazione a tal fine.

 

 

Ci sono giorni di certo imprevedibile, che se non fosse possibile essere in questo posto sicuramente ci troveremmo altrove. Qual è difatti il pensiero: è il giorno che diciamo che tutto questo è avvenuto. E appunto questo dilemma potrebbe apparirci irrisoluto, irrisolto, senza soluzione. E allora tutto ciò che appare può essere ritenuto eloquente, non soltanto per rapporto tra il significato e il suo argomento – ma essenzialmente per la stessa ragione di ogni enunciato che ascoltiamo in proposito.

E allora togliamo ogni punto e ripartiamo dal punto.

 Se qualcuno sta mangiando essenzialmente ci sono altre persone e perché non anche altri esseri biologicamente diversi dall’essere umano che mangiano – come dire se una soluzione appare come trasformante di quel che si trasforma, ogni qualcosa che si trasforma può essere estromessa dalla trasformazione. Sembra però impossibile non trasformare ciò che non c’è – essenzialmente si può trasformare quel che c’è e non quel che non c’è. È evidente che c’è un tutto intrasformate che supera ogni concetto di trasformazione che può infine escludere ogni determinazione di trasformazione.

Socrate credo abbia finito di magiare il suo frutto e per ciò appare inverosimile che non ci sia qualcosa che assecondi la trasformazione se Socrate volesse mangiare un altro frutto. Porre questo come argomento di un evento della corruzione, appare evidente in ragione del fatto che il frutto volesse non essere mangiato e pariteticamente a ciò come attributo che rivela una ragione prioritaria che dice che quel frutto non può essere mangiato. Ora porre la questione come volontà arbitraria, sembra impossibile se non in ragione di una trasformazione, ma se per tale questione appare arbitraria come può Socrate corrompere l’arbitrio e discernere la trasformazione dal pensiero e non poter offrire il suo pensiero al discernimento come all’esperienza, proprio in virtù del discernimento. Se tutto è incorruttibile per Socrate la corruzione è impraticabile, ma anche se tutto è corruttibile la corruzione è impraticabile. In ragione di ciò se Socrate mangia un frutto può benissimo offrirlo - in ragione di ciò come si può corrompere un trasformante se non temendo di non poter trasformare. Questo è stato il possibile esempio di come Corrompere Socrate e di come la trasformazione à avuto effetto su Socrate che ne à mangiato il frutto.

Ma Socrate ora è vivo e mangia un altro frutto, soltanto in questo modo il tentativo di corrompere per mezzo stesso della temporalità la corruzione attribuita a Socrate è divenuta incorruttibile e pertanto eloquente, non violenta e possibile. In virtù di ciò la corruzione dell’arbitrio attribuitagli appare ragione del ragionamento.

Socrate si mangia il suo frutto e non mette la questione di cosa sia concreto, ma di cosa è arbitrario e per questo attribuibile e proprio per questo riflessivo e possibile di libertà e pertanto di virtù.

 

 

Socrate compare in sostanza dinnanzi l’epoca definitiva come esserci naturale e per questo vivo e prospetticamente partecipe della vita. I connotati storici si rivelano in un mondo privo di sostanziale riflessione sul senso della virtù in relazione dell’essere naturale e come divenire stesso della libertà innata. Il paradigma irrisoluto è questo: La schiavitù seppur differenziata è conseguenza della sovrapposizione della critica sull’atto stesso dell’innata libertà e virtù naturale dello stare in relazione con il proprio pensiero con l’altruità irrisoluta ma risolta nella virtù come bontà dell’esistenza del pensiero che indaga e si contiene in una vita che si manifesta e trova nella manifestazione ciò che non manifestamente è come virtù che contiene nella bontà il pensiero critico irrisoluto – e – che contiene in questa virtù la virtù stessa dell’amore per la verità e il prossimo conoscibile.

Socrate ora guarda l’irrisoluto paradigma quello dell’essere che dice cosa deve fare l’altro essere per cosa essere in schiavitù o in virtù della schiavitù. In sostanza si pone dinanzi a Socrate la deittica, l’edittica tra la formazione sociale che fa sì che la divisione o il forzato stare insieme sia il modo virtuoso per concepire la libertà naturale come l’innata libertà dell’essere umano. In definitiva la guerra che Socrate cerca di scongiurare è proprio quella del pensiero umano in ragione della conoscenza e della virtù innata nella libertà di ogni essere umano. Socrate non forza il paradigma, ma il paradigma sociale è privo della sua essenza, ovvero l’innata ricerca della libertà, che non può esserci se non in virtù stessa della persona che riesce a vivere in virtù della pace stessa della sua ricerca. Socrate dice per questo al paradigma tu esisti in virtù della mia possibilità di accettare il significato come evidente mancanza del paradigma di accettare la completezza della virtù nell’incompletezza sociale di contenere la virtù stessa nell’essere umano, individualmente, se non per spartizione del comando o dell’editto dello stare insieme per contradizione del paradigma stesso.

Socrate guarda il mondo mangiando un frutto.

 

 

come si riprende il pensiero da ctonio che sopraggiunge nella psicologia di massa? Socrate per la sorte irriducibile à cercato in un atto estremo il significato sul senso stesso del non senso che si determinava per mezzo della sentenza di morte, in un significato riflessivo del suo pensiero. ma in ragione della caduta estrema della ctonia conseguenza dello spirito della psicologia di massa può dirsi esistente la ragione e il significato. se la condizione è così cogente, coercitiva lo spostamento del significato non determina sì una ragion d'essere come risolutiva e reale, ma crea lo sbandamento stesso delle persone che vi si collocavono. come si rispende il pensiero dagli spostati che sono sopraggiunti nell'affermazione della psicologia di massa come conseguenza della morte di Socrate? in definitiva c'è un modo dominante nel cretinismo e nella dipendenza dalla distruzione che si è straformata dall'affermazione su Socrate verso l'auto dominio dell'affermazione sulla distruzione. sembra un cretinismo senza soluzione - credo proprio che non ci sia soluzione se il cretino non cambia.  

 

 

il giorno prima qualcuno si accorse che uno strumento non sa di esistere. si dovrebbe riflettere come ciò sia possibile - e se per questo stesso motivo, qualcuno si accorge di esistere. allorconché ciò sia lo stilema dell'immaginazione, il tutto si risolve con un atto del poter esistere. e ciò è qualcosa su cui non si dovrebbe riflettere. più esattamente la misura del proprio rapporto con la vita non dovrebbe essere surrogata da un'immagine dell'intelligenza soggetta alla soluzione soltanto del problema economico - appunto, perché così si surroga la vita, per mezzo di un unico pensare. se il mondo del presente è soltanto in ciò, è, evidente che l'invadenza di questo pensiero, fa sì che ci si accorge che lo strumento non sa di esistere. per questo si dovrebbe essere più presenti e meno relativi. si dovrebbe sempre conoscersi nel rapporto tra una persona e l'altra, non per mezzo di un pensiero che si fa surrogato e per questo relativo, ma allorché c'è un motivo e un'intenzione per la rivelazione stessa di chi si è, come presente e significato - e intimamente vicini come rivelazione della propria anima e del corpo.

 

 

 

 

Socrate è vivo - bevuto il veleno che doveva portarlo alla morte, è, sopravvissuto. allora possiamo riprendere il pensiero - lasciare i Mileto e la società imbalsamata al suo attributo - gioiscano le persone libere e addio alla storia che ripete il suo attributo. anche i giovani e i vecchi possono pensare, perché chi vive soltanto del rappresentabile, smetta, il solo riconoscersi, viva il conoscersi. in principio e virtù del conoscere quale lo stesso Socrate à conosciuto. come mondo e anima, come qualcosa che non sa di esistere, ma che viene conosciuto. come persona che vive insieme ad un'altra, per rispondere alla propria virtù ch'è ascoltare. il balzo senza violenza è stato superato, perché in ragione di un mancato attributo vi è una vita, quella di Socrate.

Socrate è vivo.

 

 

 

 

 

Il giorno appresso non succede mai nulla è per questo che non si sa mai perché tutto sia accaduto.

il gioco macabro spesso è soltanto questo, stiamo a vedere che succede succederà, accadrà di più.

che cosa è accaduto? La violenza "scorda" presto ciò che è successo, crea una strana abitudine, dimenticando anche che può essere evitata.

Spesso con essa si fa finire un giorno in un altro momento.

E si ripete e accade.

La paura è vero è qualcosa che c'è - proprio questa è tanta e troppa, che fatica innaturale sopra la naturale paura.

Ecco dobbiamo soffermarci in ciò che è naturale nell'essere, nel quotidiano giorno, più che nello strumento di quel che conosciamo e riproduciamo.

Spesso nella caduta irreversibile dello strumento, si crea una differenza, che si traduce appunto in diversità. Invece naturalmente, non ci rende simili, né uguali, credo, ma universalmente appartenenti alla stessa caducità, o, come all'armonia.

 

Patrizio Marozzi

 



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