ATTO NOTORIO

 

Nel 1993 nel giorno del 23 Settembre si dava realizzazione all’atto notorio

Per la registrazione all’ufficio registri, in data 29 Settembre,

di un racconto di Patrizio Marozzi, intitolato: “La fine del…libro”, realizzato

nell’agosto dello stesso anno.

Ciò che mi spinse insieme a Patrizio Marozzi a realizzare questo atto, fu una

Sorta di non sapere che cosa si volesse per la libertà d’autore e l’ipotesi del

Suo diritto.

In effetti Patrizio Marozzi aveva dato al mio personaggio narrato nel libro

La connotazione di uno scrittore in crisi creativa. E stava per spedirmi a vari

Ipotesi editoriali.

In realtà, continuo d’autore il racconto del mio personaggio, avevo finito di

scrivere

“Faust” prima parte del libro “Letteratura Sperimentale” e non sapendo

esattamente

come indirizzarmi per la scelta della casa editrice, pensai di inviare per sondare

la situazione, questo racconto, quelle da cui avrei avuto risposta sarebbero state

da me prese in considerazione per la proposta del “Faust”. Per questa occasione

presi in considerazione quattro case editrici, tra cui la rivista leggere che faceva

un campionato per studenti e professori. Spedii il racconto anche in Francia

credo con un’ipotesi di pubblicazione presso qualche libreria italiana, non capii

esattamente l’intenzioni della persona a cui lo mandai. Fatto sta che nell’inviare

questo racconto, in attesa di spedire il “Faust”, decisi di farne questa registrazione

notarile. È bene qui anticipare che questo racconto è poi diventato, ampliato, con

l’aggiunta della partecipazione di un padre e una madre, e l’aggiunta di un luogo,

e situazione, parte di un punto della terza parte di “Letteratura Sperimentale”,

che nel seguito di qualche anno avrei completato. Ora tornando all’atto notarile

e al racconto suddetto, ebbi risposta ad esso, e cortesia nella restituzione da parte

della Feltrinelli editore, nella persona del direttore editorile Gabriella D’Ina e

dalla Sellerio editore di Elvira Sellerio Giorgianni.

Per quel che riguarda la poetica del racconto, ch’è quella dell’identità e dello

Scrittore; vorrei evidenziare l’aneddoto del fatto che nel registrare un’opera

Letteraria abbia dichiarato la mia professione di commerciante. Se in effetti

La prima è stata da sempre la mia identità, quella a cui ho dedicato il mio

Tempo, l’altra è servita indubbiamente alla pratica di questo tempo, con

L’aiuto di persone della mia famiglia, che non so fino a che punto si rendono

Conto del tempo che vi ho dedicato e della sua importanza e della libertà

Dalle convenzioni che vi è in essa/o.

Qui di seguito l’atto notarile e il racconto nella versione registrata.

 

 

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“La fine del… Libro”

 

Ho dipinto un quadro ed era cieco

— sordo come queste parole.

Nessuno                                       

 

Silenzio. Cerco senza voce un perché, tra ciò che mi sembra ri­masto, tra quello che non si può più dimenticare. È già patetico questo inizio, ma non mi resta altro. Tutto si spegne in un ri­chiamo verso quel buio anonimo e incomprensibile. In quello che non ho più da dire, cercare, tutto è perso nel passato,  non date credito a chi ve lo rammenta. Le emozioni sono finite e con esse gli attimi della nostra vita. È una fatica avere ancora parole, pen­sieri con cui non trovo più un senso. Sono pieno nella mia de­pressione e ogni gesto non è paragonabile a nessun vero eroismo.

Spesso mi trovo a pensare desideri inesistenti, mi stupisco di questi sogni ad occhi aperti, mi chiedo da dove provengano. Pensieri che agiscono su di me senza che io ne sia consapevole e guardo muovermi da quel vuoto così profondo, così sconosciuto, il senso della vita. Mi capisco profondamente ignorante del mio motivo d’esistere e compatisco con me ogni essere umano. La volgarità ha preso tutto ormai, non ha lasciato che le briciole della consapevolezza e non vi è studio, ricerca che non ne sia uccisa. La volgarità è la menzogna, questo assurdo vortice di paura in cui si è immersi. È un discorso incompiuto fatto di mezze frasi comple­tate solo dal silenzio, un nero vortice di sgomento.

Guardo lontano attraverso gli occhi di un ricordo, in un caldo pomeriggio tra i binari di una lontana ferrovia. Tra bambini nella vita, che scoprono, cercano comprendono la follia dell’ignoranza di non avere più voglia di capire. Marta Sandro e Io. Siamo lì tra i binari ad osservare come il calore della terra trasformi in ombre di luce le cose. Godiamo dell’aria calda dell’estate e del silenzio della natura. Poi tutto accade, come seguito da uno strano motivo. Marta mette un piede in un posto che non c'è, che non c’è in ciò che immaginiamo. È ferma tra i binari, bloccata da uno strano gioco di curiosità, e sorride. Io la guardo non capire, Sandro sor­ride e gioca con gli occhi di Marta; poi avviene, avviene. Il treno corre, i nostri gridi, io sono fermo e guardo stupito la mia incon­sapevolezza. Marta piange e Sandro la guarda, il treno ormai non è più solo un suono.

Sandro si volta, come a non voler vedere ciò che sta per acca­dere, io non so più cosa vedo. Sandro mi guarda, (il treno non ha più tempo per frenare) si volta vede il treno — guardo i tendini delle sue gambe esprimere: la voglia il desiderio di volare, saltare verso Marta. Il treno non c'è più io non ci sono più, solo lo sguar­do  tra di loro, tra Marta e Sandro così lontani da ciò che sta succe­dendo. Sandro spinge le sue mani su quel petto — sarà già donna — fino a trovarne il cuore e spingerla via dai binari. Poi le sue ali scompaiono, precipita sulla ferrovia; il treno lo maciulla, lo spap­pola lo frantuma, senza senso come una cosa.

Chissà ora dove sarà Sandro? Questo eroe compiuto in quell’at­timo, dove ha trovato la verità, la scelta etica  assoluta, libera e la misticità  di un santo. Ha vissuto l’eternità, l’amore nella purezza troppo grande per una vita fatta di giorni. In un attimo tutte le il­lusioni sono scomparse, ma solo in quell’attimo. Poi la paura torna a svilire l’esistenza a riempirla di tempo e tutto torna irrag­giungibile.

Ho attraversato i percorsi dell’arte, l’inesprimibile di ogni sua forma, ma ora ho dimenticato i suoni i colori, le forme, l’odore. Mi rimane solo la parola, questo limite supremo di ogni pensiero e il bisogno di riscrivere ogni parola, di scoprirla nuda, senza sicu­rezze. Errata o giusta, utile o inutile, ma soprattutto mancante si­lenziosa, persa. Sono in cammino per raggiungere Sandro e ho soltanto i mezzi di una vita. Una vita soltanto per guarire di un’umanità che nasce malata. Ho ancora l’arte da dimenticare, l’ultimo viaggio forse.

Mi ricordo giovane e angustiato dall’ignoranza  di chi non ha più niente di un mondo sociale. Di un paese fatto di arroganza. Quanto rumore, rumore. Quel vocio assordante e inutile, ‘incon­sapevolezza.’ Le sirene dei sistemi di sicurezza che assordano con la loro volgarità. Sistemi di sicurezza che non funzionano, guasti, Che non placano l’ansia la paura di morire. Allarmi, allarmi per chi vive nel terrore e nell'ignoranza di capire, di conoscere. La paura, la paura.

Siamo poi in grado di conoscere, sono in grado io di capire.

Perché quell’uomo ha aspettato trent’anni per morire. Perché ha negato a se stesso ciò che lui aveva sempre saputo e perché ha scelto di non morire.

«Salire queste scale è così diverso questa volta. Dentro di me un misto di angoscia, rabbia, di non volere o forse di un confuso vo­lere. Ancora pochi gradini, la porta si apre e dal buio delle scale en­tro nella luce del giorno, di un sole qualsiasi. La terrazza è si­len­ziosa e circondata dal vuoto, il mio prossimo vuoto. Mi avvi­cino alla ringhiera e mi getto via.»

Vedo quel corpo non poter volare, ma resistere per poco a ciò che ha già deciso. Attraversa l’aria, gli ultimi respiri poi la terra. Tutto si riempie di ansia di convulsa gente, tutto continua,  è mancato solo un protagonista. Una goccia di sangue esce dalla sua bocca e accarezza la terra.

Ora

Sono qui attraversato da me stesso da ciò che penso. In questo “profumo” che mi sveglia nel presente, che toglie da me la mia impossibilità — la mia paura terrore di scrivere. Di affrontare la parola nei suoi segni per sentirla inadeguata, sola insufficiente per la vita —  scoprirmi anch’io l’altro che sono: l’uomo. Scoprirmi reale, la fine di ogni respiro, l’inizio di tutti i pensieri la-mia-morte. Sembra esagerato ma è così. Quando scrivo mi sento vi­cino al mio limite, sento la paura di morire e mi sembra vana qualsiasi forma, qualsiasi tipo di scrittura. E più la forma è con­clamata, accettata riconosciuta, considerata acquisita come sicu­rezza… Quest’esperanto, illusione non esiste, questa parola non esiste. Non vi è più una forma acquisita — Verso il vuoto o verso tutto ci si muove alla scoperta di nuove sequenze e ogni parola è un grido lancinante di ciò che non posso pensare. Lì c'è tutto il mio terrore e non ho più la forza il coraggio di esserci, a stento riesco a tenerle nella testa — “le parole”.

(Per quanto io cerco

di sfuggire alla morte

la vita

non sfugge da me.)

Scrivevo libri, leggevo libri e nel farlo e rifarlo, nel cambiarmi dentro mi sono accorto che tante parole scomparivano. Leggevo una parola e questa rendeva un fantasma la parola successiva. Iniziai a cancellare dai libri le parole che non esistevano, erano tante molte, mai troppe. Quello che rimaneva era il suono la mu­sica, la vita. Tutte le parole rimaste avevano un unico equilibrio  esistevano, senza più né punti né virgole. La mia anima, la poesia mi chiedevo…

Un giorno. Un giorno pioveva e le gocce — limpide, chiare, diafane cadevano su un mare calmo quasi fermo, come un foglio di una pagina e come punti invisibili scomparivano nell’acqua.

La realtà è in ogni parola seguita da un punto un punto invisi­bile  Nessuna parola segue le altre Ho iniziato a scrivere libri di una sola parola, basta prenderne una per capire tutte le parole di un libro Ho scritto un libro di parole “sole”, ogni parola è sola come ogni uomo

Poi sono scomparse le parole e immensi fogli bianchi che si ri­petevano — sono la mia paura Non riesco più a finire il mio li­bro, sono fermo terrorizzato Tutto si è cercato ritrovato perso e sono così vicino a tutto quel che è il senso della mia vita, l’incapa­cità di esserlo

C’era un libro che diceva — Ho tutta la saggezza, ma per vedere tutta la saggezza devi attraversare la follia —

Non ho avuto il coraggio di leggere questa vita, ma ora sono qui a pensare a queste cose, sono qui a sperare di essere tutt’uno con la mia paura Di scoprire le ultime parole solitarie, l’ultima parola sola del mio libro

IERI

Io, era seduto sulla panchina, distratto per il tempo che passava. Pensava: «Oggi ho forse cinquant’anni, se avessi un luogo diverso una storia della vita fatta di altre immagini, forse festeggerei que­sto mio compleanno.»

Io era seduto su una panchina, situata ai bordi di una strada ghiaiosa. Osservava con occhio distratto gli esseri che vi passa­vano, con irregolarità improvvisa. Un uomo anziano che cam­minava al centro della strada e con la punta del suo bastone sco­stava le pietre un po’ più grandi. Gridi, nomi urlati; un gruppo di ragazzi che correvano con  le biciclette. Leggere nuvole di polvere si sollevavano dalle loro scie. Passarono davanti a Io e Io sorrise incrociando i loro visi sorridenti, si alzarono sui pedali aumen­tando la corsa, raggiunsero l’uomo, già  una ventina di metri oltre la panchina dove era seduto Io e passarono vicino, tanto vicino all’uomo anziano, sfiorandone il corpo, giunti oltre si voltarono gridandogli: «Nonno le pietre sono tutte uguali.» L’anziano sol­levò il bastone verso di loro, ormai già lontani, imprecando, chissà perché, contro il suo passato. Poi riprendendo la sua occu­pazione, cercando quelle pietre un po’ più grandi, disse, come ri­volto a qualcuno che lo ascoltasse: «Tutte uguali, tutte uguali, vede se avessero capito, immaginato ora non direbbero che le pie­tre…» Non finì la frase.

Io era seduto su una panchina verde, ai bordi di una strada fatta di ghiaia, che attraversava un bosco, un bosco di alberi secolari. Era assorto nei suoi pensieri e ascoltava quell’immenso suono, delle foglie agitate dal vento che insieme al canto degli uccelli erano la voce di quel bosco. Chiuse gli occhi per “sentire” meglio, restò così per qualche istante.

«Allora come sono andate?»

Nell’udire questa voce Io aprì gli occhi e vide due donne di non più di vent’anni, erano agitate nei movimenti e nel loro passo. stavano attraversando lo spazio dinanzi  la panchina dove era se­duto, una di fianco all’altra. Quella che Io poteva vedere meglio si voltò e lo guardò per un attimo. Io osservò attentamente la sua fi­gura. Aveva i capelli neri, lisci tirati indietro, lunghi appena sopra le spalle e il suo viso aveva un ovale quasi perfetto… ma questa piccola imperfezione lo rendeva più interessante: labbra regolari e morbide, il naso che ti faceva venir voglia di accarezzarne il pro­filo con un dito, due occhi immensamente scuri profondi, l’in­carnato bianco e delicato, come porcellana. Le spalle i seni i fian­chi, tutto perfettamente proporzionato. L’altra ragazza disse all’a­mica: «Vieni sediamoci e raccontami.»

 Si sedettero a due panchine di distanza da quella di Io. La donna dagli occhi neri chinò lo sguardo sulle sue ginocchia, disse qualcosa all’amica, ma Io non riuscì a capire tutta la frase,  captò solo l’ultima sillaba dell’ultima parola: “…va.”

«Sei sicura! sai almeno come è successo.» Questa frase fu detta per impotenza e sia Io, la donna dagli occhi neri e la sua amica che l’aveva pronunciata, ne percepirono il vuoto.

«Non c’è nulla che importi sapere: Sono sieropositi-va!» Questa volta Io udì perfettamente. «Ho bisogno di farmi, io vado; ci sentiamo.» La donna dagli occhi neri si alzò e percorse al con­trario la strada da dove era venuta. Passò nuovamente davanti a Io. L’altra la guardò allontanarsi, poi andò via dall’altra parte. Questa volta non si voltò, neanche per un attimo. Io la osservò al­lontanarsi, si alzò e la seguì.

La donna camminava decisa, sembrava certa di quel che vo­leva, aveva una sicurezza che nella vita le era sconosciuta. A Io sembrava quasi che avesse della fierezza. Accelerò il passo, cam­minava sui marciapiedi affollati e qualche volta urtava qualcuno, ma né lei né l’altra persona sembravano più farvi caso. La gente tutta si urtava, toccava, ma nulla ormai sembrava più scuoterli dall’indifferenza, quasi passiva rassegnazione. Non era magnifica tolleranza, come ad un occhio disattento” poteva sembrare. Attraversò d’improvviso la strada ed Io stava quasi per perderla. Poi la vide dall’altra parte mentre svoltava verso una via laterale e abbandonava i flussi della folla. Io le corse dietro attraversò la strada, sentì lo stridio delle gomme di un’auto che si fermava a pochi centimetri da lui, non vi badò, balzò sul marciapiede, si fece largo tra la folla, raggiunse la via dove aveva visto la donna girare e… Fece appena in tempo a fermarsi, lei era ad una decina di metri e stava parlando con una persona. Fortuna per lui nessuno dei due si era accorto con quale impeto era giunto in quella strada. Io, proseguì camminando con passo tranquillo, passò loro vicino su­perandoli e riuscì a sentire un frammento della loro discussione.

«…Soldi, bella!»

«Non li ho, ma…»

«Vattene!»

Io continuò a camminare, era ormai a una decina di metri da loro. La donna lasciò l’uomo, andò nella stessa direzione di Io. Io continuò a camminare cercando di sembrare tranquillo, sentiva la sua presenza dietro di sé, era sicuro di non perderla, non c’erano vie laterali poteva solo tornare indietro, solo in quel caso correva qualche rischio di lasciarsela scappare. C’era un’edicola poco avanti, Io la raggiunse, si fermò a comprare un giornale e osser­vandola con la coda dell’occhio “vide lei” che superava l’edicola. Aspettò qualche istante e tornò a seguirla. Dopo poco lei si fermò, si mise sul bordo della strada e con la mano iniziò a fare cenno alle ‘macchine’ di fermarsi. Io capì che non aveva molto tempo per riflettere sul quello che doveva fare e… «Mi scusi non sono di questa città e ho l’impressione di essermi perso, mi sa dire dove posso trovare un taxi?» «È qui vicino, basta che prosegue per la via, alla prima a sinistra gira e… lì riesce a vederli.» «Perché non mi accompagna? alloggio all’Etimo, così posso offrirle qualcosa… da bere.» (visi che si guardano) “Faccio solo bocchini, voglio cen­tomila e ho fretta.” “Andiamo.” Io aprì la porta del suo alloggio, entrarono dentro. Io accese la luce, lei osservò rapidamente il po­sto, disse che era bello (aggiunse) — È un’appartamento, quanto tempo è che sei qui?  — “Ci rimarrò ancora per poco.” Lei si avvi­cinò a Io, si inginocchiò e prese a scioglergli i pantaloni: «Calma.» «Dai che ho fretta.» Mentre lei gli apriva la cerniera, Io estrasse il portafogli e le offrì le centomila. L’allontanò con garbo: «Non oc­corre, prendi i soldi di cui hai bisogno e torna.» Lei lo guardò era sul punto di gridargli in faccia tutta la rabbia che aveva accumu­lato durante il giorno. Io capì di avere suscitato il disprezzo, verso se stessa, ma non aveva altro modo. Lei aprì la porta e uscì.

Tornò da Io altre volte. S’incontrarono nei loro racconti e forse odiarono dei propri fantasmi. Ma ciò che accadde non è dato a noi conoscere. Solo l’ultimo incontro è ricordato.

Lei uscì dalla doccia ed andò nella camera da letto. La stanza era nella penombra… solo la luce delle strade illuminate nella notte, vi penetrava, attraverso le finestre. Io disteso sul letto,  vestito, guardava il soffitto, ascoltava la radio e nella stanza c’era la Suite su rime di Michelangelo Buonarroti, op. 145a di Shostakovich. La vide, nuda in piedi in fondo al letto… la pelle chiara che con quella luce assumeva una perfezione sconosciuta, i capelli umidi i seni duri come i suoi occhi, la rotondità delle sue forme così armoni­che, il suo pelo, così come era sempre stato… Lei andò verso la fi­nestra, vi si fermò davanti, alzò la mano destra e la posò sul ve­tro, ebbe un leggero brivido quando il palmo della sua mano ne percepì il freddo e l’umidità… Io le chiese se stava bene… Lei si voltò, lo raggiunse sul letto… iniziò a baciarlo con ansia, con ansia e passione, forse… lo spogliò, baciò il suo torace il suo ventre… poi prese il suo pene tra le labbra… finché lo senti sussultare, riem­pirsi la bocca di sperma… continuò, ma lui la fermò… Lei con an­sia, fretta, deside­rio ne cercò la bocca… lo baciò con in bocca quel che le era rimasto, di ciò che lui le aveva dato.

Lei si sdraiò supina al suo fianco, distese il suo braccio con il palmo della mano in su e disse: «Fallo!» Io Si alzò dal letto, andò all’armadio, prese tutto il necessario e tornò da lei… Con calma sciolse la droga, preparò la siringa… Trovò la vena nel braccio di lei, la guardò, lei sorrise e disse nuovamente: «Fallo!» Bucò la pelle entrò nella vena, spinse lo stantuffo della siringa… sfilò l’ago dal braccio, aspettò un’istante di niente… Il sangue leggero uscì da quel piccolo foro… Io posò le labbra su quel braccio e succhiò, suc­chiò il sangue, già malato… Lei lo accarezzò sulla nuca, delica­ta­mente, fece un respiro profondo e disse: «Non è nulla… è solo un ricordo.» Io lentamente si staccò dal braccio di lei, lo leccò un’ul­tima volta. Poi la baciò, serenamente. Baciò il suo collo i suoi seni, sentì con le labbra la forma del suo ombelico… Dopo aver leccato la linea delle sue labbra, con la punta della lingua ini­ziò a massag­giarle il clitoride

OGGI

Di scoprire le ultime parole solitarie, l’ultima parola sola del mio libro Sono qui nell’odore intimo di questa donna e tutto è cambiato rispetto ad un attimo fa Sento i suoi suoni, il desiderio di godere Il suo clitoride eccitato sulla punta della mia lingua, le sue cosce nel gesto più ampio, come per aprire se stessa all’esi­stenza di tutto il vivere di cui è capace… Mi accorgo che in me è cambiato qualcosa, non ho più nessun motivo, interesse, di essere qui con lei, nel fare quello che sto facendo; più nessuna utilità, perché quel che volevo l’ho oramai ottenuto Mi accorgo che se sono qui e che se sento tutto il suo piacere è perché l’amo, ma pre­sto il dolore…

DOMANI

Lei si sveglierà. Il suo corpo disteso sul letto, volgerà lo sguardo verso lui, ma non lo vedrà. Non ne sarà sorpresa. Scoprirà una busta, l’aprirà e leggerà la lettera che contiene.

— Poche parole, giacché tutte le parole non bastano. Io ora sento di genuflettermi alla vita, chino il capo all’esistenza; anche se sento ancora l’ansia di ciò che non comprendo. Potrò dunque tornare a scrivere, finire il mio libro; ora che ho reso un po’ più certa la mia morte. Non più l’obbligo di vivere — poter scrivere. Domani sarai libera, non ti lascerò il mio amore, per questo me ne vado.

Eppure quanto tutto sarà quieto, mi sederò tranquillo e non aspetterò nulla — non scrivo, non penso, finalmente non serve più. Ho tutta la disperazione dell’esistenza — la grandezza di un uomo perduto e parola dopo parola il ”silenzio” di tutta una vita.  Non aggiungo  altro, oltre questa parola, ora che sono Nessuno, ”non necessario alla fine: l’inizio.” Silenzio.  

 

 

                          www.ilmanoscrittodipatriziomarozzi.it

 

 

 

 

 



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