Gargarismo, pag. 168

 

 

Patrizio Marozzi

 

 

Gargarismo


Il Gargarismo è stato editato e diffuso per la prima volta il 29 Novembre 2004, attraverso i gruppi di discussione di teatro e affini alla letteratura e nello specifico cultura, con l’eccezione di un sito sul handicap e uno scolastico . Esso è realizzato in lingua italiana, ma diffuso per mezzo dei news groups anche in quelli non specificatamente in italiano e che si collocano per riferimento linguistico, nelle diverse arie giografiche del pianeta. Non vi è una mia preclusione ad una o ad un’altra aria geografica, se non quella che io possa raggiungerla per mezzo di internet e che abbia uno spazio dedicato al teatro o letterario o alla cultura. Il Gargarismo viene pubblicato ogni 29 di ogni mese.

Il Gargarismo qui raccolto, include degli altri interventi, inseriti tra un numero e l’altro, che ho realizzato al “momento attuale” su it.cultura essi in questo libro saranno chiamati esterni. Esterni privati quelli delle lettere personali. E Esterni le risposte nei vari news. [gli esterni o sono stati tolti o colocati in appendice, 21 Aprile 2005]

Il Gargarismo che qui è presentato nasce da un’idea, o intenzione di almeno venti anni addietro, il principio era quello dell’agilità e della trasmissione sia nella realizzazione che nella diffusione – non ricordo se all’epoca si considerasse la modalità della realizzazione per mezzo del ciclostile o se vi fosse già la fotocopia. Ovviamente negli anni trascorsi da allora è cambiata la tecnologia per il manufatto e la sua diffusione, e i contenuti in esso realizzati si saranno evoluti dall’abbozzo di idea di allora, ma il principio realizzativo credo sia rimasto lo stesso. E sin da allora pensai di chiamarlo Gargarismo. Ciò vuol dirsi per la precisione non per altro.

 

 


Il Gargarismo? N1

 

 

Strutture epiloganti?

 

Luke Rhinehart

 

The Dice man - 1971

 

Dott. Rhinehart, non posso certo dire che leggendo il libro che scritto dal caso ha acquisito il nome del suo io narrante che si sviscera nell’ipotesi della sua biografia come è ovvio per uguale pronuncia di nome della sua stessa omofonia come della sua immagine semiologia di fatti il coso stesso potrebbe benissimo avere determinato il suo nome come il suo nome il caso come pronunciato dallo stesso uomo dado chiunque può essere chiunque (l’uomo dado) eppure lei in definitiva dice di essere qualcosa che non è pur essendo il contrario di quel che non è per esserlo non posso non notare la sua accortezza quando si rivolge a me quando cerca di fare un discorso diretto come se io la stessi leggendo ma in definitiva come fa lei a dire che io la stia leggendo di fatti questo tiro di dati è del tutto ipotetico nel senso che appare come ipotesi che ha determinato la struttura del libro e pertanto plausibile per dire che fa dire al libro come al nome che ciò sia avvenuto ma non sappiamo né perché né quando e in definitiva neanche da chi e per chi e il dato che io lo abbia letto e lei lo abbia scritto in definitiva non può che essere lasciato al lancio del dado ed ecco che l’inevitabile atto dà alla funzione di questo oggetto la funzione del discorso come dell’ipotesi e la conseguenza come arbitrio della funzione del volere del dado per trasformare questa scrittura in dadoscrittura funzionale all’annullamento del dado come funzione dell’io ma l’io non è se il dado non è allora Dott. Rhinehart le annuncio che continuo a scrivere non avendo mai utilizzato il dado sin dall’inizio come lei potrebbe sapere con il lancio del dado se facessi ciò potrebbe accadere che io smetta di comunicare per mezzo del dado e starei ad aspettare quando e in che modo dove e con chi senza che ciò avvenga se non dove non avviene dove non è possibile che avvenga per avvenire difatti la perdita di controllo basta che un lancio del dado come rimbalzo e luogo del dado ma il dado muove allora come le dicevo continuo a scrivere senza il dado per almeno finire questo scritto o iniziarlo a leggere se fossi il Dott. Rhinehart ma già dobbiamo lanciare il dado per sapere dove quando e perché il Dott. Rhinehart legga difatti lei con il dado potrebbe essere me ma dato che io non uso il dado ora non sono lei a detta di me e di nessun altro dado il dado dice ma a chi lo dice anche a me in questo momento è ovvio e per mezzo di chi non potrò mai saperlo se non uso il dado non c’è via di scampo dal dado eppure dice che il dado libera se solo il lanciatore vi crede in effetti come lanciare il dado se il dado io non lancio perché io lancia il dado difatti il dado si oblia senza che l’io ne sappia qualcosa eppur per mezzo del dado sembra esistere

Allora ora abbandono il dado non per mezzo del dado ma per scrivere al Dott. Rhinehart lasciando che il dado non dica niente di più di quello che ha detto il Dott. Rhinehart e parlo del suo libro il suo libro nella traduzione italiana è di 458 pagine che si lasciano leggere senza interruzioni come certo spesso si dice in effetti il suo libro dice più di quanto voglia dire ma lo dice in modo così chiaro solo per chi sa quello che deve leggere e già sembra proprio ciò in effetti se la tecnica è consolidata di fatti chi legge è continuamente soggetto allo stimolo sessuale all’ipotesi di abbandonarsi per lasciarsi cercare e liberarsi ma in definitiva essere rassicurato è così ben fatta questa costruzione da rendere il libro adatto al consumo anche diciamo meno attento ed è questo che in un certo qual modo mi ha lasciato interdetto il caso in definitiva finge di giocare al caso ma non lo fa per i giocatori che si sentono eccitati e neanche per spiegare un dramma ch’è bene edulcorato e difatti neanche per pura evasione come per molti lettori ma allora perché in effetti qual è la critica spietata la spiegazione o la soluzione o il punto di vista la denuncia o come vuol dirsi la presa di coscienza difatti realmente non c’è perché il libro è la spiegazione dell’ovvio come possibilità innocua di quel che sta accadendo perché quel che sta accadendo nessuno lo sa realmente e lei lo dice chiaramente senza che in realtà venga detto in ciò l’ha aiutata l’invenzione dell’oggetto del dado eppure ci sono chiarissimamente altri libri in questo libro che dicono chiaramente con brevi pennellate di colore come sta accadendo con quale strategia e con quale ipotesi finale quale sia il controllo e perché si ipotizza che avvengano certe cose e quale sia l’ideatore e in definitiva lo scopo finale quale sia il suo interlocutore per questo altro libro sinceramente dato “quegli anni in cui è stato scritto potrebbe essere lei stesso qualcuno che lei conosce o in definitiva un'altra parte che non sa difatti anche il semplice lettore potrebbe esserlo ma non è un libro come quelli attuali che propagano inevitabilmente quel che si vuole che si sappia e in che modo venga assorbito da tutte le strutture dado in definitiva che si sono sempre più determinate nella società contemporanea che in realtà sanno ma non immaginano che esiste questa logica e che in definitiva è diventata completamente autogovernate tanto che neanche lei la potuta prefiguarere a tal punto anche se il fine come quel che ha ipotizzato lei non si discosta dalla sua ipotesi finale quella strategica che appare chiaramente nel libro ma come ho detto sa non farsi vedere ma come lei ha ipotizzato per mezzo del dado la strategia collassa inevitabilmente

E allora Dott. Rhinehart  non so dove lei sia né se sia ancora vivo quanti anni ha e chi realmente è o se esista al di là del dado difatti ho letto il suo libro come una bella storia tra le righe di un altro tempo adesso sarebbe un buon successo commerciale ma ai me devo comunicarle che nel progresso delle tecniche da lei in certo qual modo dette un lettore commerciale attuale troverebbe il suo libro persino troppo ben fatto al di là della sua intrinseca ricerca e lo troverebbe forse noioso sicuramente meno interessante di un sms ricevuto sul cellulare ma vi è sempre la convergenza pubblicitaria a cui la tecnica del libro strizza l’occhio.

 

Cordialmente

Patrizio Marozzi

 


Il Gargarismo? N2

 

Strutture fantascientifiche?

 

John Barth

 

Giles Goat-Boy

Or,

The Revised New Syllabus  - 1966

 

Signor Barth, non so dirle con precisione quanto tempo abbia impiegato a leggere questo libro se un giorno ben più di un anno o anche forse più del resto chiariamo subito la questione non sono uno studente per non farle pensare che magari il tempo che ho impiegato sia quasi il tempo di un corso accademico difatti le pagine del suo libro sono 1029 compreso l’indice e tanto basterebbe per bighellonare per un bel pezzo con il suo libro in mano in qualche campus o città scolaresca del resto la cosa che in fondo mi ha interessato del libro non è tanto il fatto che lei non lo abbia scritto come dice tanto ch’è sua intenzione dare il denaro dei diritti del suo libro all’autore appena potrà rivederlo cosa che sinceramente dubito data la già narrazione della storia di costui e anche dal fatto del post nastro ch’è stato generato e non per ultimo dal fatto che la mia lettera è datata nell’anno 2004 e la qual cosa se non le è già riuscita dubito le possa riuscire ora comunque sia se il mondo dell’ipotesi accademica finisce per rendere preferibile essere bocciato per essere promosso per essere in una promozione come concetto stesso della negazione che si afferma invariabilmente sia nello stare nel campus occidentale con il super elaboratore WESCAC - che nell’altro campus con EASCAC - dove per processo accademico gilesiano si vuol dire gioire nell’essere bocciato in tutto quindi promosso come dal nuovo programma riveduto scritto nel libro della biografia dell’autore di cosa stiamo parlando voglio dire ho perso interesse anche se ho cercato di mantenerlo anche dopo che ho pronunciato la parola studente in effetti quale sarà a detta dell’autore che le ha proposto il libro il comportante che deriva dallo stato in essere di un mondo progettato e riveduto all’interno di un elaboratore come divenire stesso di un processo astratto è scritto nel libro che è stato immesso dall’autore nel WESCAC da cui poi in definitiva la derivazione stessa dell’autore ha formato la nascita del figlio non ricordo in quale bobina con quale vergine sta di fatto che il concetto che ha destato in me una certa riflessione sta nel fatto che per quanto in fondo possa o no condividere il racconto dell’autore da quel che resta svolto nell’elaborazione del grande calcolatore e dell’ipotesi del gran tutore in esso contenuta è il fatto stesso che quel che resta di quell’immenso calcolatore non è che la traduzione alfabetica espressa nel libro voglio dire che se fossimo anche sì in possesso di tutte le bobbine originali molto probabilmente non riusciremmo a riattivare un elaboratore tale per la loro decodifica anche con la sola ipotesi straordinaria detta dall’autore avvenuta nella traduzione del WESCAC che ha trasformato una sua sequenza in un corpo umano quello dell’autore appunto per il suo tragitto di apprendimento per essere un gran tutore partendo dalla condizione caprina a tal proposito non ho potuto un po’ ironicamente pensare al fatto di qualcuno che tenendo in mano un teschio di pecora o capra si chiedesse essere o non essere perché sembra in fondo che la differenza accademica sia nella capacità di stabilire sommamente la differenza tra il belato di una pecora e quello di una capra sinceramente le dico che non ho capito l’accostamento di tale società che stabilisce l’essere inferiore della capra senza voler sapere io in questo caso se viene prima l’essere promossi o bocciati c’è qualcuno come è narrato nel libro che in mancanza di scelte è tornato nella foresta ipotizzando che essa sia rimasta integra e qui ho un dubbio e credo che forse si siano mischiati un po’ i fogli nell’elaboratore di questa produzione dell’uomo nato da un elaboratore per la riproduzione dell’uomo elaborato dell’elaborazione dell’elaboratore in effetti al di là di quale bobina sintetizza chi e con che cosa quel che noi leggiamo è la traducibilità della scrittura l’alfabeto letto di sistemi binari che non possono che essere letti tradotti altrimenti inesistenti invisibili inudibili e allora se il sistema binario cessa quel che rimane è il concetto e la sua espressione per mezzo del pensiero come alfabeto scritto la musica come musica le immagini come immagini i pensieri come pensieri scritti la scrittura come rappresentazione delle immagini pensare o le relazioni astratte della coscienza che dialoga e allora come ci saremmo trovati io e lei ora per sapere che voleva intendere l’elaboratore WESCAC attraverso la possibilità di elaborare quello che è stato elaborato la coscienza digitale che rappresenta la coscienza digitale dell’uomo di fatti qual è la forma della rappresentazione del bit che viene tradotto dalla luce come ipotesi e forma che da essa viene riflessa senza che venga astratta ma astratta dall’astrazione della parola scritta dell’alfabeto letto quasi che il carattere cuneiforme dei babilonesi sumeri venga guardato da una luce che si accende e ne riflette la forma così come era astratta quando è stata scritta ma in questo caso c’è bisogno della luce che va a rimbalzare su quei segni o già non basta la luce del giorno e magari scrivere guardando quella tavoletta di pietra

 


Il Gargarismo? N3

 

Strutture Apotetiche?

 

Agatha Christie

 

Endless Night – 1967

 

Quel 12 Ottobre del 1982 poteva essere stato un giorno come tutti gli altri ed ora che ci penso non ricordo se fu più o meno speciale degli altri se in effetti accadde qualcosa di molto particolare molto probabilmente sì e molto probabilmente qualcuna ne ha un ricordo più intenso cosa che io ho trasformato in quell’epoca di certo quel giorno quando ciò accadde il sole era già al tramonto questo lo ricordo e in quel momento che sta per accadere ero solo dinanzi  all’edicola e comprai la prima edizione di questo libro nella collana i classici del giallo che era stato ancor prima nel 1968 la prima edizione de il giallo mondadori e aveva preso il titolo italiano da un frase scritta su di esso nella mia fine è il mio principio lo iniziai nei giorni appresso questo fatto del 1982 fermandomi a pagina 128 non so bene perché tanto che di questo libro mi rimase un vivido ricordo e trascorsi ventidue anni lo ripresi e continuai a sfogliarlo

Come in quei gialli d’uso e di certa foggia lo stile di Aghata è improntato sulla trasposizione dell‘io narrante nella prima persona ch’è in definitiva il protagonista principale della storia l’alter ego qui è ovvio di Aghata e non posso non rivelare che dopo aver dato delle accurate pennellate alla psicologia sociale e personale dei componenti il protagonista che ci racconta ci dice che non è affatto bravo a raccontare con accortezza questi particolari in definitiva il suo sogno e qui in parte può avere ragione sta comunque accadendo esattamente quello che ci è raccontato come ha scelto di raccontarcelo Aghata e costui il protagonista della storia che ci narra sta scrivendo in questo antro di memoria tutto quel che ad occhi aperti ha sognato e che per esso è sempre accaduto un incubo senza avviso un sogno senza fine un principio senza coscienza la trasformazione del suo impero come lui stesso lo definisce nelle ultime pagine nella distruzione stessa di se stesso come fine stessa di ogni possibile perché nella distruzione di tutti i miti di potere in cui lui aveva visto la rappresentazione nell’Ambughese Greta con cui aveva sognato il suo epilogo da lui uccisa sovrastato dai sogni e desideri di potere di lei tutto il resto del mondo di questa storia è un epilogante alter ego anglo americano dove i sogni dell’una Ellie stanno nell’origine degli incubi dell’altro Mike il mondo si rappresenta ancora con un'altra chiave fuori da ogni possibile realtà nella profondità dei desideri di un mondo primordiale sempre presente

 

 


Il Gargarismo? N4

 

Strutture moderne?

 

Dante Alighieri

 

Convivio – presso il 1200

 

 

Caro Dante è da così tanto che sei tracollato nel corpo che forse non ti farà specie che già ora ti vo a chiamare Caro ma quello che ho da dirti in modo molto semplice e spontaneo mi vien dal core quasi fosse ancor sobbalzante insieme al tuo e del resto non altro core mi s’appresta innanzi Lo fatto è breve a dirsi che tu ha scritto il convivio è già di per se la dimostrazione della grandezza letteraria della tua modernità come autore non so se ti ricordi come l’hai spiegato tu così bene cos’è l’autore ma c’hai voluto spiegare al mondo che lo scrivere il linguaggio volgare po da esse più grande de quello latino sembra n’empresa da poco tanto che nissiuno sapi scrivere o governare senza esso lo latino tanto che tu à dato libero sfogo alli volgari anche fori dell’italica terra per dir dello amore che abbisogna lo linguaggio pe facere scrivere lo vero

 

Di fatti gentile Dante credo proprio che il convivio sia l’opera da cui la modernità sin dopo l’anno mille non possa prescindere per rappresentare la realtà e la possibilità della libertà individuale come espressione stessa dei “convivi” tra tutti quelli che con essa opera vogliono esprimersi e in maggior di questo la reale libertà dello scrittore L’immensa bellezza del convivio non è solo nel fatto che abbia dato alle possibilità della lingua che tu hai scelto come invito per tutti a sguardo della forma che si apre a tutte le dinamicità della costruzione del significato come anche più prossima all’ultimo sguardo dell’occhio o del suono udito ma in esso vi sono tracciate e riportato in modo autentico tutto quello che nella storia moderna ha rappresentato l’autenticità del suo essere Questo frangente contemporaneo purtroppo è caduco come non mai ed è pieno di quei meccanismi della comunicazione che tu ben spieghi come deleteri e menzogneri al di là dell’essere ma quel che caratterizza la grandezza di questo libro di questa opera non sono già questi tuoi accenni a tal riguardo ma il senso stesso di quel che deve essere la rappresentazione per mezzo della scrittura e delle possibilità dell’armonia che con essa si stabiliscono al di là del dispotismo Di fatti in tutta la storia dal convivio in poi si è cercato sempre più frequentemente di prescindere da esso per la costruzione sociale e la libertà dell’individuo questi che possiamo definire tradimenti ad esso hanno caratterizzato la vita sociale e morale di molto tanto tempo or ora per esempio con il temine democrazia vengono spiegati dei principi che se non sono in sintonia con quelli espressi nel convivio sono un tradimento della realtà in sostanza tutto questo tempo si è barcamenato tra lotte di classe razzismi e imperi di vario genere cose da te da tempo superate con il senso espresso nell’intero corpo dell’opera del convivio che è imprescindibile anche per il significato reale di democrazia proprio nel modo più autentico che tu hai prediletto come migliore nel volgare italico Il senso delle lingue purtroppo ha avuto un motivo importante in molti conflitti spesso al di là della coscienza individuale ma come tu stesso spieghi forse è solo la mancanza di bontà che toglie senso alla lingua e al suo significato Sta di fatto che quel che accade tutt’ora per certi versi sembra inverosimile e non ci vuole che onesta vera per riconoscere l’importanza del convivio l’opera per il significato dell’essere artista come dell’essere libero come per la vita sociale di tutta la modernità

Gentile Dante non ho proprio potuto esimermi dall’inserire alcuni commenti sulla tua opera che riporto così come sono che possono bene spiegare cos’è che sta realmente accadendo in codesto istante storico ma che a tuo tempo già conoscesti con più propinqua conseguenza

 

Egregio Sig: Dante Alighieri le scrivo per dirle che sto per pubblicare un libro “uguale al suo con lo stesso uso delle rime che fa lei, naturalmente dopo essermi laureata con il massimo dei voti sull’uso delle rime nell’opera di Dante Alighieri. Spero che lei lo compri e lo legga e che poi mi dia un suo giudizio.

 

 

Dopo quell’esaurito di Francesco d’Assisi ci mancava proprio l’Alighieri a presumere di sapere scrivere

 

Dante Alighieri ha scritto

Ed io ho smesso di leggere

 

Signor Dante ma nessuno le ha insegnato l’uso dell’orografia, ma quali scuole ha frequentato?

 

Detto Dante: guardi che se usa il computer il correttore ortografico grammaticale, non funziona, tanti sono gli errori.  

 

 

Il Convivio di Dante Alighieri

TRATTATO PRIMO

I. Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere [ed] è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile alla sua propia perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti.

 Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro all’uomo e di fuori da esso lui rimovono dall’abito di scienza.  Dentro dall’uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l’uno dalla parte del corpo, l’altro dalla parte dell’anima. Dalla parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Dalla parte dell’anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose dilettazioni, nelle quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile.

 Di fuori dall’uomo possono essere similemente due cagioni intese, l’una delle quali è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolemente a sé tiene delli uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione essere non possono. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano.

 Le due di queste cagioni, cioè la prima dalla parte [di dentro e la prima dalla parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avegna che l’una più, sono degne di biasimo e d’abominazione.

 Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che all’abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li ’mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati.  Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane delli angeli si manuca! e miseri quelli che colle pecore hanno comune cibo!

 Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande se[n] gire mangiando.  E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono della loro buona ricchezza alli veri poveri, e sono quasi fonte vivo, della cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata.  E io adunque, che non seggio alla beata mensa, ma, fuggito della pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolemente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale alli occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi.  Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe essere mangiata. Ed ha questo convivio di quello pane degno, co[n] tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata.

 E però ad esso non s’assetti alcuno male de’ suoi organi disposto, però che né denti né lingua ha né palato; né alcuno assettatore de’ vizii, perché lo stomaco suo è pieno d’omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe.  Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile nella umana fame rimaso, e ad una mensa colli altri simili impediti s’assetti; e alli loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, ché non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane che la farà loro e gustare e patire.

 La vivanda di questo convivio saràe di quattordici maniere ordinata, cioè [di] quattordici canzoni sì d’amor come di vertù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d’alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado.  Ma questo pane, cioè la presente disposizione, sarà la luce la quale ogni colore di loro sentenza farà parvente.

 E se nella presente opera, la quale è Convivio nominata e vo’ che sia, più virilmente si trattasse che nella Vita Nova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolemente quella fervida e passionata, questa temperata e virile essere conviene.  Ché altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; per che certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di questo libro, sarà propia ragione mostrata. E io in quella dinanzi, all’entrata della mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata.

 E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; sì che l’una ragione e l’altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati.

 Li quali priego tutti che se lo convivio non fosse tanto splendido quanto conviene alla sua grida, che non al mio volere ma alla mia facultade imputino ogni difetto: però che la mia voglia di compita e cara liberalitate è qui seguace.

II. Nel cominciamento di ciascuno bene ordinato convivio sogliono li sergenti prendere lo pane apposito e quello purgare da ogni macula. Per che io, [che] nella presente scrittura tengo luogo di quelli da due macule mondare intendo primieramente questa esposizione, che per pane si conta nel mio corredo.  L’una è che parlare alcuno di se medesimo pare non licito; l’altra è che parlare in esponendo troppo a fondo pare non ragionevole: e lo illicito e ’l non ragionevole lo coltello del mio giudicio purga in questa forma.

 Non si concede per li rettorici alcuno di se medesimo sanza necessaria cagione parlare, e da ciò è l’uomo rimosso, perché parlare d’alcuno non si può, che ’l parladore non lodi o non biasimi quelli di cui elli parla: le quali due cagioni rusticamente stanno, a fare [dire] di sé, nella bocca di ciascuno.

 E per levare un dubbio che qui surge, dico che peggio sta biasimare che lodare, avegna che l’uno e l’altro non sia da fare. La ragione è che qualunque cosa è per sé da biasimare, è più laida che quella che è per accidente.  Dispregiare se medesimo è per sé biasimevole, però che all’ amico dee l’uomo lo suo difetto contare secretamente, e nullo è più amico che l’uomo a sé: onde nella camera de’ suoi pensieri se medesimo riprendere dee e piangere li suoi difetti, e non palese.  Ancora: del non potere e del non sapere bene sé menare le più volte non è l’uomo vituperato, ma del non volere è sempre, perché nel volere e nel non volere nostro si giudica la malizia e la bontade; e però chi biasima se medesimo apruova sé conoscere lo suo difetto, apruova [sé] non essere buono: per che, per sé, è da lasciare di parlare sé biasimando.  Lodare sé è da fuggire sì come male per accidente, in quanto lodare non si può, che quella loda non sia maggiormente vituperio. È loda nella punta delle parole, è vituperio chi cerca loro nel ventre: ché [le] parole sono fatte per mostrare quello che non si sa, onde chi loda sé mostra che non creda essere buono tenuto: che nolli ’ncontra sanza maliziata conscienza, la quale sé lodando discuopre e discoprendo si biasima.

 E ancora la propia loda e lo propio biasimo è da fuggire per una ragione igualmente, sì come falsa testimonianza fare: però che non è uomo che sia di sé vero e giusto misuratore, tanto la propia caritate ne ’nganna.  Onde aviene che ciascuno ha nel suo giudicio le misure del falso mercatante, che vende coll’una e compera coll’altra; e ciascuno con ampia misura cerca lo suo mal fare, e con piccola cerca lo bene: sì che ’l numero e la quantità e ’l peso del bene li pare più che se con giusta misura fosse saggiato, e quello del male meno.  Per che, parlando di sé con loda o col contrario, o dice falso per rispetto alla cosa di che parla, o dice falso per rispetto alla sua sentenza: c’ha l’una e l’altra falsitate.

 E però, con ciò sia cosa che lo consentire è uno confessare, villania fa chi loda o chi biasima dinanzi al viso alcuno, perché né consentire né negare puote lo così estimato, sanza cadere in colpa di lodarsi o di biasimare: salva qui la via della debita correzione, che essere non può sanza improperio del fallo che correggere s’intende; e salva la via del debito onorare e magnificare, la quale passar non si può sanza fare menzione dell’opere virtuose o delle dignitadi virtuosamente acquistate.

 Veramente, al principale intendimento tornando, dico [che], come è toccato di sopra, per necessarie cagioni lo parlare di sé è conceduto: ed in tra l’altre necessarie cagioni due sono più manifeste.  L’una è quando sanza ragionare di sé grande infamia o pericolo non si può cessare; e allora si concede, per la ragione che delli due [rei] sentieri prendere lo men reo è quasi prendere un buono. E questa necessitate mosse Boezio di se medesimo a parlare, acciò che sotto pretesto di consolazione escusasse la perpetuale infamia del suo essilio, mostrando quello essere ingiusto, poi che altro escusatore non si levava.  L’altra è quando, per ragionare di sé, grandissima utilitade ne segue altrui per via di dottrina; e questa ragione mosse Agustino nelle sue Confessioni a parlare di sé, ché per lo processo della sua vita, lo quale fu di [meno] buono in buono, e di buono in migliore, e di migliore in ottimo, ne diede essemplo e dottrina, la quale per [altro] sì vero testimonio ricevere non si potea.  Per che, se l’una e l’altra di queste ragioni mi scusa, sofficientemente lo pane del mio comento è purgato della prima sua macula. Movemi timore d’infamia, e movemi disiderio di dottrina dare, la quale altri veramente dare non può.  Temo la infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in me avere segnoreggiata: la quale infamia si cessa, per lo presente di me parlare, interamente, lo quale mostra che non passione ma vertù sia stata la movente cagione.  Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle, che per alcuno vedere non si può s’io non la conto, perché è nascosa sotto figura d’allegoria: e questo non solamente darà diletto buono a udire, ma sottile amaestramento e a così parlare e a così intendere l’altrui scritture.

III. Degna di molta riprensione è quella cosa che, ordinata a tòrre alcuno difetto, per se medesima quello induce: sì come quelli che fosse mandato a partire una rissa, e prima che partisse quella ne iniziasse un’altra.  E però che lo mio pane è purgato da una parte, convienlomi purgare dall’altra, per fuggire questa riprensione; ché lo mio scritto, che quasi comento dir si può, è ordinato a levare lo difetto delle canzoni sopra dette, ed esso per sé fia forse in parte alcuna un poco duro. La qual durezza, per fuggire maggiore difetto, non per ignoranza, è qui pensata.

 Ahi, piaciuto fosse al dispensatore dell’universo che la cagione della mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d’essilio e di povertate.  Poi che fu piacere delli cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno - nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo della vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo core di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato -, per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata.  Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito alli occhi a molti che forse che per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato: nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta come quella che fosse a fare.  La ragione per che ciò incontra - non pur in me, ma in tutti - brievemente or qui piace toccare: e prima, perché la fama oltre la veritade si sciampia; e poi, perché la presenza oltre la veritade stringe.

 La fama buona, principalmente [è] generata dalla buona operazione nella mente dell’amico e da quella è prima partorita; ché la mente del nimico, avegna che riceva lo seme, non concepe.  Quella mente che prima la partorisce, sì per far più ornato lo suo presente, sì per la caritade dell’amico che lo riceve, non si tiene alli termini del vero ma passa quelli. E quando per ornare ciò che dice li passa, contra conscienza parla; quando inganno di caritade li fa passare, non parla contra essa.  La seconda mente che ciò riceve, non solamente alla dilatazione della prima sta contenta, ma ’l suo riportamento, sì come qu[as]i suo effetto, procura d’adornare; e sì, che per questo fare e per lo ’nganno che riceve della caritate in lei generata, quella più ampia fa che a lei non vène, e [con] concordia e con discordia di conscienza come la prima. E questo fa la terza ricevitrice e la quarta, e così in infinito si dilata.  E così, volgendo le cagioni sopra dette nelle contrarie, si può vedere la ragione della infamia, che simigliantemente si fa grande. Per che Virgilio dice nel quarto dello Eneida che la Fama vive per essere mobile e acquista grandezza per andare.  Apertamente adunque veder può chi vuole che la imagine per sola fama generata sempre è più ampia, quale che essa sia, che non è la cosa imaginata nel vero stato.

IV. Mostrata [la] ragione innanzi per che la fama dilata lo bene e lo male oltre la vera quantità, resta in questo capitolo a mostrar quelle ragioni che fan vedere perché la presenza ristringe per opposito; e mostrate quelle, si verrà lievemente al principale proposito, cioè della sopra notata escusa.

 Dico adunque che per tre cagioni la presenza fa la persona di meno valore ch’ella non è: l’una delle quali è puerizia, non dico d’etate ma d’animo; la seconda è invidia, - e queste sono nello giudicatore -; la terza è l’umana impuritade, e questa è nello giudicato.

 La prima si può brievemente così ragionare. La maggiore parte delli uomini vivono secondo senso e non secondo ragione, a guisa di pargoli; e questi cotali non conoscono le cose se non semplicemente di fuori, e la loro bontade, la quale a debito fine è ordinata, non veggiono, per ciò che hanno chiusi li occhi della ragione, li quali passano a veder quello. Onde tosto veggiono tutto ciò che ponno, e giudicano secondo la loro veduta.  E però che alcuna oppinione fanno nell’altrui fama per udita, dalla quale nella presenza si discorda lo imperfetto giudicio che non secondo ragione ma secondo senso giudica solamente, quasi menzogna reputano ciò che prima udito hanno, e dispregiano la persona prima pregiata.  Onde appo costoro, che sono, ohmè, quasi tutti, la presenza ristringe l’una e l’altra qualitade. Questi cotali tosto sono vaghi e tosto sono sazii, spesso sono lieti e spesso tristi di brievi dilettazioni e tristizie, tosto amici e tosto nemici: ogni cosa fanno come pargoli, sanza uso di ragione.

 La seconda si vede per queste ragioni: che paritade nelli viziosi è cagione d’invidia, e invidia è cagione di mal giudicio, però che non lascia la ragione argomentare per la cosa invidiata, e la potenza giudicativa è allora quel giudice che ode pur l’una parte.  Onde, quando questi cotali veggiono la persona famosa, incontanente sono invidi, però che veggiono a sé pari membra e pari potenza, e temono, per la eccellenza di quel cotale, meno essere pregiati.  E questi non solamente passionati mal giudicano, ma, diffamando, fanno alli altri mal giudicare: per che appo costoro la presenza ristringe lo bene e lo male in ciascuno apresentato: e dico lo male, perché molti, dilettandosi nelle male operazioni, hanno invidia a’ mali operatori.

 La terza si è l’umana impuritade, la quale si prende dalla parte di colui che è giudicato e non è sanza familiaritade e conversazione alcuna. Ad evidenzia di questa, è da sapere che l’uomo è da più parti maculato e, come dice Agustino, nullo è sanza macula.  Quando è l’uomo maculato d’una passione, alla quale tal volta non può resistere; quando è maculato d’alcuno disconcio membro; e quando è maculato d’alcuno colpo di fortuna; e quando è maculato d’infamia di parenti o d’alcuno suo prossimo: le quali cose la fama non porta seco ma la presenza, e discuoprele per sua conversazione.  E queste macule alcuna ombra gittano sopra la chiarezza della bontade, sì che la fanno parere men chiara e men valente. E questo è quello per che ciascuno profeta è meno onorato nella sua patria; questo è quello per che l’uomo buono dee la sua presenza dare a pochi e la familiaritade dare a meno, acciò che ’l nome suo sia ricevuto, ma non spregiato.  E questa terza cagione può essere così nel male come nel bene, se le cose della sua ragione si volgano ciascuna in suo contrario. Per che manifestamente si vede che per impuritade, sanza la quale non è alcuno, la presenza ristringe lo bene e lo male in ciascuno più che ’l vero non vuole.

 Onde, con ciò sia cosa che, come detto è di sopra, io mi sia quasi a tutti l’Italici apresentato, per che fatto mi sono più vile forse che ’l vero non vuole non solamente a quelli alli quali mia fama era già corsa, ma eziandio alli altri, onde le mie cose sanza dubbio meco sono alleviate; conviemmi che con più alto stilo dea [al]la presente opera un poco di gravezza, per la quale paia di maggiore autoritade.

 E questa scusa basti alla fortezza del mio comento.

V. Poi che purgato è questo pane dalle macule accidentali, rimane ad escusare lui da una sustanziale, cioè dall’essere vulgare e non latino: che per similitudine dire si può di biado e non di frumento.  E [d]a ciò brievemente lo scusano tre ragioni, che mossero me ad eleggere inanzi questo che l’altro: l’una si muove da cautela di disconvenevole ordinazione; l’altra da prontezza di liberalitade; la terza dallo naturale amore a propia loquela.  E queste cose per sue ragioni, a sodisfacimento di ciò che riprendere si potesse per la notata ragione, intendo per ordine ragionare in questa forma.

 Quella cosa che più adorna e commenda l’umana operazione, e che più dirittamente a buon fine la mena, sì è l’abito di quelle disposizioni che sono ordinate allo inteso fine: sì com’è ordinata al fine della cavalleria franchezza d’animo e fortezza di corpo.  E così colui che è ordinato all’altrui servigio dee avere quelle disposizioni che sono a quello fine ordinate, sì come subiezione, con[o]scenza e obedienza, sanza le quali è ciascuno disordinato a ben servire; perché, s’elli non è subietto in ciascuna condizione, sempre con fatica e con gravezza procede nel suo servigio e rade volte quello continua; e se elli non è [conoscente ................; e se elli non è] obediente, non serve mai se non a suo senno e a suo volere, che è più servigio d’amico che di servo.  Dunque, a fuggire questa disordinazione, conviene questo comento, che è fatto in vece di servo alle ’nfrascritte canzoni, essere subietto a quelle in ciascuna sua condizione, ed essere conoscente del bisogno del suo signore e a lui obediente. Le quali disposizioni tutte li manca[va]no, se latino e non volgare fosse stato, poi che le canzoni sono volgari.

 Ché, primamente, non era subietto ma sovrano, e per nobilità e per vertù e per bellezza. Per nobilità, perché lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile.  Onde vedemo nelle scritture antiche delle comedie e tragedie latine, che non si possono transmutare, quello medesimo che oggi avemo; che non aviene del volgare, lo quale a piacimento artificiato si transmuta.  Onde vedemo nelle cittadi d’Italia, se bene volemo aguardare, da cinquanta anni in qua molti vocaboli essere spenti e nati e variati; onde se ’l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì ch’io dico che se coloro che partiro d’esta vita già sono mille anni tornassero alle loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da[lla] loro discordante.  Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch’io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza.

 Ancora: non era subietto ma sovrano per vertù. Ciascuna cosa è virtuosa in sua natura, che fa quello a che ella è ordinata; e quanto meglio lo fa tanto è più virtuosa. Onde dicemo uomo virtuoso, che vive in vita contemplativa o attiva, alla quale è ordinato naturalmente; dicemo del cavallo virtuoso, che corre forte e molto, alla qual cosa è ordinato; dicemo una spada virtuosa, che ben taglia le dure cose, a che essa è ordinata.  Così lo sermone, lo quale è ordinato a manifestare lo concetto umano, è virtuoso quando quello fa, e più virtuoso quello che più lo fa; onde, con ciò sia cosa che lo latino molte cose manifesta concepute nella mente, che lo volgare fare non può, sì come sanno quelli che hanno l’uno e l’altro sermone, più è la vertù sua che quella del volgare.

 Ancora: non era subietto ma sovrano per bellezza. Quella cosa dice l’uomo essere bella, cui le parti debitamente si rispondono, per che della loro armonia resulta piacimento. Onde pare l’uomo essere bello, quando le sue membra debitamente si rispondono; e dicemo bello lo canto, quando le voci di quello, secondo [‘l] debito dell’arte, sono intra sé rispondenti.  Dunque quello sermone è più bello, nello quale più debitamente si rispondono [li vocabuli; e più debitamente li vocabuli si rispondono] in latino che in volgare, però che lo volgare séguita uso, e lo latino arte. Onde concedesi esser più bello, più virtuoso e più nobile.

 Per che si conchiude lo principale intendimento, cioè che non sarebbe stato subietto alle canzoni, ma sovrano.

VI. Mostrato come lo presente comento non sarebbe stato subietto alle canzoni volgari se fosse stato latino, resta a mostrare come non sarebbe stato conoscente né obediente a quelle; e poi sarà conchiuso come per cessare disconvenevoli disordinazioni fu mestiere volgarmente parlare.

 Dico che ’l latino non sarebbe stato servo conoscente al signore volgare per cotal ragione. La conoscenza del servo si richiede massimamente a due cose perfettamente conoscere.  L’una si è la natura del signore: onde sono signori di sì asinina natura che comandano lo contrario di quello che vogliono, e altri che sanza dire vogliono essere intesi, e altri che non vogliono che ’l servo si muova a fare quello ch’è mestiere, se nol comandano.  E perché queste variazioni sono nelli uomini non intendo al presente mostrare, ché troppo multiplicherebbe la digressione; se non in tanto, che dico in genere che [questi] cotali sono quasi bestie, alli quali la ragione fa poco prode. Onde, se ’l servo non conosce la natura del suo signore, manifesto è che perfettamente servire nol può.

 L’altra cosa è che si conviene conoscere al servo li amici del suo signore, ché altrimenti non li potrebbe onorare né servire, e così non servirebbe perfettamente lo suo signore; con ciò sia cosa che li amici siano quasi parti d’un tutto, però che ’l tutto loro è uno volere e uno non volere.

 Né lo comento latino avrebbe avuta la conoscenza di queste cose, che l’ha il volgare medesimo. Che lo latino [non] sia conoscente del volgare e de’ suoi amici, così si pruova. Quelli che conosce alcuna cosa in genere, non conosce quella perfettamente: sì come, se conosce da lungi uno animale, non conosce quello perfettamente, perché non sa se s’è cane o lupo o becco.  Lo latino conosce lo volgare in genere, ma non distinto: ché se esso lo conoscesse distinto, tutti volgari conoscerebbe, perché non è ragione che l’uno più che l’altro conoscesse; e così in qualunque uomo fosse tutto l’abito del latino, sarebbe l’abito di conoscenza distinta dello volgare.  Ma questo non è: ché uno abituato di latino non distingue, s’elli è d’Italia, lo volgare [inghilese] dallo tedesco; né lo tedesco, lo volgare italico dal provinciale. Onde è manifesto che lo latino non è conoscente dello volgare.

 Ancora: non è conoscente de’ suoi amici, però che è impossibile conoscere li amici non conoscendo lo principale; onde, se non conosce lo latino lo volgare, come provato è di sopra, impossibile è a lui conoscere li suoi amici.  Ancora: sanza conversazione o familiaritade è impossibile a conoscere li uomini: e lo latino non ha conversazione con tanti in alcuna lingua con quanti ha lo volgare di quella, al quale tutti sono amici; e per consequente non può conoscere li amici del volgare.  E non è contradizione ciò che dire si potrebbe, che lo latino pur conversa con alquanti amici dello volgare; ché però non è familiare di tutti, e così non è conoscente delli amici perfettamente: però che si richiede perfetta conoscenza, e non defettiva.

VII. Provato che lo comento latino non sarebbe stato servo conoscente, dirò come non sarebbe stato obediente.

 Obediente è quelli che ha la buona disposizione che si chiama obedienza. La vera obedienza conviene avere tre cose sanza le quali essere non può: vuole essere dolce, e non amara; e comandata interamente, e non spontanea; e con misura, e non dismisurata.  Le quali tre cose era impossibile ad avere lo latino comento, e però era impossibile ad essere obediente. Che allo latino fosse stato impossibile, come detto è, si manifesta per cotale ragione.  Ciascuna cosa che da perverso ordine procede è laboriosa, e per consequente è amara, e non dolce, sì come dormire lo die e vegghiare la notte, e andare indietro e non inanzi. Comandare lo subietto allo sovrano procede da ordine perverso - ché ordine diritto è lo sovrano allo subietto comandare -, e così è amaro, e non dolce. E però che all’amaro comandamento è impossibile dolcemente obedire, impossibile è, quando lo subietto comanda, l’obedienza del sovrano essere dolce.  Dunque, se lo latino è sovrano del volgare, come di sopra per più ragioni è mostrato, e le canzoni, che sono in persona di comandatore, sono volgari, impossibile è sua obedienza essere dolce.

 Ancora: allora è l’obedienza interamente comandata e da nulla parte spontanea, quando quello [che fa] chi fa obediendo non averebbe fatto sanza comandamento, per suo volere, né tutto né in parte.  E però, se a me fosse comandato di portare due guarnacche in dosso, e sanza comandamento io mi portasse l’una, dico che la mia obedienza non è interamente comandata ma in parte spontanea. E cotale sarebbe stata quella del comento latino; e per consequente non sarebbe stata obedienza comandata interamente.  Che fosse stata cotale, appare per questo: che lo latino sanza lo comandamento di questo signore averebbe esposite molte parti della sua sentenza - ed espone, chi cerca bene le scritture latinamente scritte -: che non lo fa lo volgare in parte alcuna.

 Ancora: è l’obedienza con misura, e non dismisurata, quando al termine del comandamento va, e non più oltre: sì come la natura particulare è obediente alla universale, quando fa trentadue denti all’uomo, e non più né meno; e quando fa cinque dita nella mano, e non più né meno; e l’uomo è obediente alla giustizia [quando fa quello, e non più né meno, che la giustizia] comanda, al peccatore.  Né questo averebbe fatto lo latino, ma peccato averebbe non pur nel difetto e non pur nel soperchio, ma in ciascuno; e così non sarebbe la sua obedienza stata misurata, ma dismisurata, e per consequente non sarebbe stato obediente.

 Che non fosse stato lo latino empitore del comandamento del suo signore, e che ne fosse stato soverchiatore, leggiermente si può mostrare. Questo signore, cioè queste canzoni, alle quali questo comento è per servo ordinato, comandano e vogliono essere disposte a tutti coloro alli quali puote venire sì lo loro intelletto, che quando parlano elle sieno intese; e nessuno dubita che s’elle comandassero a voce, che questo non fosse lo loro comandamento.  E lo latino non l’averebbe esposte se non a’ litterati, ché li altri non l’averebbero intese. Onde, con ciò sia cosa che molti più siano quelli che desiderano intendere quelle non litterati che litterati, séguitasi che non averebbe pieno lo suo comandamento come ’l volgare, [che] dalli litterati e non litterati è inteso.

 Anche: lo latino l’averebbe esposte a gente d’altra lingua, sì come a Tedeschi e Inghilesi e altri, e qui averebbe passato lo loro comandamento; ché contra loro volere, largo parlando dico, sarebbe essere esposta la loro sentenza colà dov’elle non la potessero colla loro bellezza portare.  E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza ed armonia.  E questa è la cagione per che Omero non si mutò di greco in latino, come l’altre scritture che avemo da loro. E questa è la cagione per che i versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d’armonia: ché essi furono transmutati d’ebreo in greco e di greco in latino, e nella prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno.

 E così è conchiuso ciò che si promise nel principio del capitolo dinanzi a questo immediate.

VIII. Quando è mostrato per le sufficienti ragioni come per cessare disconvenevoli disordinamenti converrebbe, [alle] nominate canzoni aprire e mostrare, comento volgare e non latino, mostrare intendo come ancora pronta liberalitate mi fece questo eleggere e l’altro lasciare.

 Puotesi adunque la pronta liberalitate in tre cose notare, le quali seguitano questo volgare, e lo latino non averebbero seguitato. La prima è dare a molti; la seconda è dare utili cose; la terza è, sanza essere domandato lo dono, dare quello.

 Ché dare a uno e giovare a uno è bene; ma dare a molti e giovare a molti è pronto bene, in quanto prende simiglianza dalli beneficî di Dio, che è universalissimo benefattore.  E ancora: dare a molti è impossibile sanza dare a uno, acciò che uno in molti sia inchiuso; ma dare a uno si può bene sanza dare a molti. Però chi giova a molti fa l’uno bene e l’altro; chi giova a uno, fa pur l’un bene: onde vedemo li ponitori delle leggi massimamente pur alli più comuni beni tenere confisi li occhi, quelle componendo.

 Ancora: dare cose non utili al prenditore pure è bene, in quanto colui che dà mostra almeno sé essere amico; ma non è perfetto bene, e così non è pronto: come quando uno cavaliere donasse ad uno medico uno scudo, e quando uno medico donasse a uno cavaliere inscritti li Amphorismi d’Ipocràs o vero li Tegni di Galieno. Per che li savi dicono che la faccia del dono dee essere simigliante a quella del ricevente, cioè a dire che si convegna con lui, e che [li] sia utile: e in quello è detta pronta liberalitade di colui che così dicerne donando.

 Ma però che li morali ragionamenti sogliono dare desiderio di vedere l’origine loro, brievemente in questo capitolo intendo mostrare quattro ragioni per che di necessitade lo dono, acciò che in quello sia pronta liberalitade, conviene essere utile a chi riceve.

 Primamente, però che la vertù dee essere lieta, e non trista in alcuna sua operazione; onde, se ’l dono non è lieto nel dare e nel ricevere, non è in esso perfetta vertù, non è pronta. Questa letizia non può dare altro che utilitade, che rimane nel datore per lo dare, e che viene nel ricevitore per [lo] ricevere.  Nel datore adunque dee essere la providenza in far sì che della sua parte rimagna l’utilitade dell’onestate, che è sopra ogni utilitade, e far sì che allo ricevitore vada l’utilitade dell’uso della cosa donata: e così sarà l’uno e l’altro lieto, e per consequente sarà più pronta la liberalitade.

 Secondamente, però che la vertù dee muovere le cose sempre al migliore. Ché così come sarebbe biasimevole operazione fare una zappa d’una bella spada o fare uno nappo d’una bella chitarra, così è biasimevole muovere la cosa d’un luogo dove sia utile e portarla in parte dove sia meno utile.  E però che biasimevole è invano adoperare, biasimevole è non solamente a porre la cosa in parte ove sia meno utile, ma eziandio in parte ove sia igualmente utile.  Onde, acciò che sia laudabile lo mutare delle cose, conviene sempre essere [al] migliore, per ciò che dee massimamente essere laudabile: e questo non [si] può fare nel dono, se ’l dono per transmutazione non viene più caro; né più caro può venire, se esso non è più utile a usare al ricevitore che al datore. Per che si conchiude che ’l dono conviene essere utile a chi riceve, acciò che sia in esso pronta liberalitade.

 Terziamente, però che la operazione della vertù per sé dee essere acquistatrice d’amici, con ciò sia cosa che la nostra vita di quello abisogni, e lo fine della vertù sia la nostra vita essere contenta. Onde, acciò che ’l dono faccia lo ricevitore amico, conviene a lui essere utile, però che l’utilitade sigilla la memoria della imagine del dono, la quale è nutrimento dell’amistade, e tanto più forte quanto essa è migliore.  Onde suole dire Martino: ‘Non caderà della mia mente lo dono che mi fece Giovanni’. Per che, acciò che nel dono sia la sua vertù, la quale è liberalitade, e che essa sia pronta, conviene essere utile a chi riceve.

 Ultimamente, però che la vertù dee avere atto libero, e non sforzato. Atto libero è quando una persona va volentieri ad alcuna parte, che si mostra nel tener vòlto lo viso in quella; atto sforzato è quando contra voglia si va, che si mostra in non guardare nella parte ove si va.  E allora sì guarda lo dono a quella parte, quando si dirizza al bisogno dello ricevente. E però che dirizzarsi ad esso non può se non sia utile, conviene, acciò che sia con atto libero la vertù, essere utile lo dono alla parte ov’elli vae, ch’è lo ricevitore, e [per] consequente conviene essere [nel]lo dono l’utilità dello ricevitore, acciò che quivi sia pronta liberalitade.

 La terza cosa, nella quale si può notare la pronta liberalitade, si è dare [dono] non domandato: acciò che ’l domandato è da una parte non vertù ma mercatantia, però che lo ricevitore compera, tutto che ’l datore non venda. Per che dice Seneca che "nulla cosa più cara si compera che quella dove i prieghi si spendono".  Onde, acciò che nel dono sia pronta liberalitade e che essa si possa in esso notare, ancora si conviene essere netto d’ogni atto di mercatantia, [cioè si] conviene essere lo dono non domandato.  Perché sì caro costa quello che si priega, non intendo qui ragionare, perché sufficientemente si ragionerà nell’ultimo trattato di questo libro.

IX. Da tutte le tre sopra notate condizioni, che convegnono concorrere acciò che sia nel beneficio la pronta liberalitade, era lo comento latino [lontano], e lo volgare è con quelle, sì come si può manifestamente così contare.

 Non avrebbe lo latino così servito a molti: ché se noi reducemo a memoria quello che di sopra è ragionato, li litterati fuori di lingua italica non avrebbon potuto avere questo servigio, e quelli di questa lingua, se noi volemo bene vedere chi sono, troveremo che de’ mille l’uno ragionevolemente non sarebbe stato servito, però che non l’averebbero ricevuto, tanto sono pronti ad avarizia, che da ogni nobilitate d’animo li rimuove, la quale massimamente desidera questo cibo.  E a vituperio di loro dico che non si deono chiamare litterati, però che non acquistano la lettera per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari o dignitate: sì come non si dee chiamare citarista chi tiene la cetera in casa per prestarla per prezzo, e non per usarla per sonare.  Tornando dunque al principale proposito, dico che manifestamente si può vedere come lo latino averebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti.  Ché la bontà dell’animo, la quale questo servigio attende, è in coloro che per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la litteratura a coloro che l’hanno fatta di donna meretrice; e questi nobili sono principi, baroni, cavalieri e molt’altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non litterati.

 Ancora: non sarebbe lo latino stato datore d’utile dono, che sarà lo volgare. Però che nulla cosa è utile se non in quanto è usata, né [è] la sua bontà in potenza, che non è essere perfettamente: sì come l’oro, le margarite e li altri tesori che sono sotterrati [...............], però che quelli che sono a mano dell’avaro sono in più basso loco che non è la terra là dove lo tesoro è nascoso.  Lo dono veramente di questo comento è la sentenza delle canzoni alle quali fatto è, la qual massimamente intende inducere li uomini a scienza e a vertù, sì come si vedrà per lo pelago del loro trattato.  Questa sentenza non possono [non] avere in uso quelli nelli quali vera nobilità è seminata per lo modo che si dirà nel quarto trattato; e questi sono quasi tutti volgari, sì come sono quelli nobili che di sopra in questo capitolo sono nominati.  E non ha contradizione perché alcuno litterato sia di quelli; ché, sì come dice il mio maestro Aristotile nel primo dell’Etica, "una rondine non fa primavera". È adunque manifesto che lo volgare darà cosa utile, e lo latino non l’averebbe data.

 Ancora: darà lo volgare dono non dimandato, che non l’averebbe dato lo latino: però che darà se medesimo per comento, che mai non fu domandato da persona; e questo non si può dire dello latino, che per comento e per chiose a molte scritture è già stato domandato, sì come [per] loro principii si può vedere apertamente in molte.

 E così è manifesto che pronta liberalitade mi mosse al volgare anzi che allo latino.

X. Grande vuole essere la scusa, quando a così nobile convivio per le sue vivande, a così onorevole per li suoi convitati, s’appone pane di biado e non di frumento; e vuole essere evidente ragione che partire faccia l’uomo da quello che per li altri è stato servato lungamente, sì come di comentare con latino.  E però vuole essere manifesta la ragione, che delle nuove cose lo fine non è certo, acciò che la esperienza non è mai avuta, onde le cose usate e servate sono e nel processo e nel fine commisurate.  Però si mosse la Ragione a comandare che l’uomo avesse diligente riguardo ad entrare nel nuovo cammino, dicendo che "nello statuire le nuove cose evidente ragione dee essere quella che partire ne faccia da quella che lungamente è usata".  Non si maravigli dunque alcuno se lunga è la digressione della mia scusa, ma, sì come necessaria, la sua lunghezza paziente sostenga.

 La quale proseguendo, dico che - poi che è manifesto come per cessare disconvenevole disordinazione e come per prontezza di liberalitade io mi mossi al volgare comento e lasciai lo latino - l’ordine della intera scusa vuole ch’io mostri come a ciò mi mossi per lo naturale amore della propia loquela: che è la terza e l’ultima ragione che a ciò mi mosse.

 Dico che lo naturale amore principalmente muove l’amatore a tre cose: l’una si è a magnificare l’amato; l’altra è a essere geloso di quello; l’altra è a difendere lui, sì come ciascuno può vedere continuamente avenire. E queste tre cose mi fecero prendere lui, cioè lo nostro volgare, lo quale naturalmente e accidentalmente amo ed ho amato.

 Mossimi prima per magnificare lui. E che in ciò io lo magnifico, per questa ragione vedere si può: avegna che per molte condizioni di grandezze le cose si possano magnificare, cioè fare grandi, nulla fa tanto grande quanto la grandezza della propia bontade, la quale è madre e conservatrice dell’altre grandezze.  Onde nulla grandezza puote l’uomo avere maggiore che quella della virtuosa operazione, che è sua propia bontade; per la quale le grandezze delle vere dignitadi, delli veri onori, delle vere potenze, delle vere ricchezze, delli veri amici, della vera e chiara fama e acquistate e conservate sono.  E questa grandezza do io a questo amico, in quanto quello [che] elli di bontade avea in podere e occulto, io lo fo avere in atto e palese nella sua propia operazione, che è manifestare conceputa sentenza.

 Mossimi secondamente per gelosia di lui. La gelosia dell’amico fa l’uomo sollicito a lunga provedenza. Onde, pensando che lo desiderio d’intendere queste canzoni [a] alcuno illitterato averebbe fatto lo comento latino transmutare in volgare, e temendo che ’l volgare non fosse stato posto per alcuno che l’avesse laido fatto parere, come fece quelli che transmutò lo latino dell’Etica - ciò fue Taddeo ipocratista -, providi a ponere lui, fidandomi di me più che d’un altro.

 Mossimi ancora per difendere lui da molti suoi acusatori, li quali dispregiano esso e commendano li altri, massimamente quello di lingua d’oco, dicendo che è più bello e migliore quello che questo; partendo sé in ciò dalla veritade.

 Ché per questo comento la gran bontade del volgare di sì [si vedrà]; però che si vedrà la sua vertù, sì com’è per esso altissimi e novissimi concetti convenevolemente, sufficientemente e aconciamente, quasi come per esso latino, manifestare; [la quale non si potea bene manifestare] nelle cose rimate per le accidentali adornezze che quivi sono connesse, cioè la rima e lo tempo e lo numero regolato: sì come non si può bene manifestare la bellezza d’una donna, quando li adornamenti dell’azzimare e delle vestimenta la fanno più ammirare che essa medesima.  Onde chi vuole bene giudicare d’una donna, guardi quella quando solo sua naturale bellezza si sta con lei, da tutto accidentale adornamento discompagnata: sì come sarà questo comento, nel quale si vedrà l’agevolezza delle sue sillabe, le propietadi delle sue costruzioni e le soavi orazioni che di lui si fanno; le quali chi bene aguarderà, vedrà essere piene di dolcissima e d’amabilissima bellezza.

 Ma però che virtuosissimo è, nella ’ntenzione mostra[re] lo difetto e la malizia dello accusatore, dirò, a confusione di coloro che acusano la italica loquela, perché a ciò fare si muovono; e di ciò farò al presente speziale capitolo, perché più notevole sia la loro infamia.

XI. A perpetuale infamia e depressione delli malvagi uomini d’Italia, che commendano lo volgare altrui e lo loro propio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni.  La prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza, cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d’invidia; la quinta e l’ultima, viltà d’animo, cioè pusillanimità. E ciascuna di queste retadi ha sì grande setta che pochi sono quelli che siano da esse liberi.

 Della prima si può così ragionare. Sì come la parte sensitiva dell’anima ha suoi occhi, colli quali aprende la differenza delle cose in quanto elle sono di fuori colorate, così la parte razionale ha suo occhio, collo quale aprende la differenza delle cose in quanto sono ad alcuno fine ordinate: e questo è la discrezione.  E sì come colui che è cieco delli occhi sensibili va sempre secondo che li altri [.............. così colui che è cieco dell’occhio della discrezione va sempre secondo che li altri] giudicando lo male e lo bene; [e sì come quelli che è cieco del lume sensibile.........], così quelli che è cieco del lume della discrezione sempre va nel suo giudicio secondo il grido, o diritto o falso; onde, qualunque ora lo guidatore è cieco, conviene che esso e quello, anche cieco, ch’a lui s’appoggia, vegnano a mal fine. Però è scritto che "‘l cieco al cieco farà guida, e così cadranno ambindue nella fossa".  Questa grida è stata lungamente contro a nostro volgare per le ragioni che di sotto si ragioneranno apresso di questa. E li ciechi sopra notati, che sono quasi infiniti, colla mano in sulla spalla a questi mentitori, sono caduti nella fossa della falsa oppinione, della quale uscire non sanno.  Dell’abito di questa luce discretiva massimamente le populari persone sono orbate; però che, occupate dal principio della loro vita ad alcuno mestiere, dirizzano sì l’animo loro a quello per [la] forza della necessitate, che ad altro non intendono.  E però che l’abito di vertude, sì morale come intellettuale, subitamente avere non si può, ma conviene che per usanza s’acquisti, ed ellino la loro usanza pongono in alcuna arte e a discernere l’altre cose non curano, impossibile è a loro discrezione avere.  Per che incontra che molte volte gridano ‘Viva! [Viva!]’ la loro morte, e ‘Muoia! Muoia!’ la loro vita, pur che alcuno cominci; e questo è pericolosissimo difetto nella loro cechitade. Onde Boezio giudica la populare gloria vana, perché la vede sanza discrezione.  Questi sono da chiamare pecore, e non uomini; ché se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’anderebbero dietro; e se una pecora per alcuna cagione al passare d’una strada salta, tutte l’altre saltano, eziandio nulla veggendo da saltare.  E io ne vidi già molte in uno pozzo saltare per una che dentro vi saltò, forse credendo saltare uno muro, non ostante che ’l pastore, piangendo e gridando, colle braccia e col petto dinanzi [a esse] si parava.

 La seconda setta contra nostro volgare si fa per una maliziata scusa. Molti sono che amano più d’essere tenuti maestri che d’essere, e per fuggire lo contrario, cioè di non essere tenuti, sempre dànno colpa alla materia dell’arte apparecchiata, o vero allo strumento: sì come lo mal fabro biasima lo ferro apresentato a lui, e lo malo citarista biasima la cetera, credendo dare la colpa del mal coltello e del mal sonare al ferro ed alla cetera, e levarla a sé.  Così sono alquanti, e non pochi, che vogliono che l’uomo li tegna dicitori; e per iscusarsi dal non dire o dal dire male acusano ed incolpano la materia, cioè lo volgare propio, e commendano l’altrui, lo quale non è loro richesto di fabricare.  E chi vuole vedere come questo ferro è da biasimare, guardi che opere ne fanno li buoni artefici, e conoscerà la malizia di costoro che, biasimando lui, sé credono scusare.  Contra questi cotali grida Tulio nel principio d’un suo libro che si chiama Libro di Fine de’ Beni, però che al suo tempo biasimavano lo latino romano e commendavano la gramatica greca, per simiglianti cagioni che questi fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Proenza.

 La terza setta contra nostro volgare si fa per cupiditate di vanagloria. Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle della sua. E sanza dubio non è sanza loda d’ingegno apprendere bene la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre la verità, per farsi glorioso di tale acquisto.

 La quarta si fa da uno argomento d’invidia. Sì come è detto di sopra, la invidia è sempre dove è alcuna paritade. Intra li uomini d’una lingua è la paritade del volgare; e perché l’uno quello non sa usare come l’altro, nasce invidia.  Lo invidioso poi argomenta, non biasimando colui che dice di non sapere dire, ma biasima quello che è materia della sua opera, per tòrre, dispregiando l’opera da quella parte, a lui che dice onore e fama: sì come colui che biasimasse lo ferro d’una spada, non per biasimo dare al ferro, ma a tutta l’opera del maestro.

 La quinta e ultima setta si muove da viltà d’animo. Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo per contrario sempre si tiene meno che non è.  E perché magnificare e parvificare sempre hanno rispetto ad alcuna cosa, per comparazione alla quale si fa lo magnanimo grande e lo pusillanimo piccolo, aviene che ’l magnanimo sempre fa minori li altri che non sono, e lo pusillanimo sempre maggiori.  E però che con quella misura che l’uomo misura se medesimo, misura le sue cose, che sono quasi parte di se medesimo, aviene che al magnanimo le sue cose sempre paiono migliori che non sono, e l’altrui men buone; lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l’altrui assai. Onde molti per questa viltade dispregiano lo propio volgare, e l’altrui pregiano.

 E tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi d’Italia che hanno a vile questo prezioso volgare: lo quale, s’è vile in alcuna [cosa], non è se non in quanto ello suona nella bocca meretrice di questi adulteri; allo cui condutto vanno li ciechi delli quali nella prima cagione feci menzione.

XII. Se manifestamente per le finestre d’una casa uscisse fiamma di fuoco, e alcuno dimandasse se là dentro fosse il fuoco, e un altro rispondesse a lui di sì, non saprei bene giudicare qual di costoro fosse da schernire [di] più. E non altrimenti sarebbe fatta la dimanda e la risposta di colui e di me, chi mi domandasse se amore alla mia loquela propia [sia] in me e io li rispondesse di sì, apresso le sù proposte ragioni.  Ma tuttavia, e a mostrare che non solamente amore ma perfettissimo amore di quella è in me, ed a biasimare ancora li suoi aversarii ciò mostrando a chi bene intenderà, dirò come a lei fui fatto amico e poi come l’amistà è confermata.

 Dico che, sì come vedere si può che scrive Tulio in quello De Amicitia, non discordando dalla sentenza del Filosofo aperta nell’ottavo e nel nono dell’Etica, naturalmente la prossimitade e la bontade sono cagioni d’amore generative; lo beneficio, lo studio e la consuetudine sono cagioni d’amore acrescitive. E tutte queste cagioni vi sono state a generare e a confortare l’amore ch’io porto al mio volgare, sì come brievemente io mostr[er]ò.

 Tanto è la cosa più prossima quanto, di tutte le cose del suo genere, altrui è più unita: onde di tutti li uomini lo figlio è più prossimo al padre; di tutte l’arti la medicina è più prossima al medico e la musica al musico, però che a loro sono più unite che l’altre; di tutte le terre è più prossima quella dove l’uomo tiene se medesimo, però che è ad esso più unita.  E così lo volgare è più prossimo quanto è più unito, [e quello è più unito], che uno e solo è prima nella mente che alcuno altro, e che non solamente per sé è unito, ma per accidente, in quanto è congiunto colle più prossime persone, sì come colli parenti e [colli] propî cittadini e colla propia gente.  E questo è lo volgare propio: lo quale è non prossimo, ma massimamente prossimo a ciascuno. Per che, se la prossimitade è seme d’amistà, come detto è di sopra, manifesto è ch’ella è delle cagioni stata dell’amore ch’io porto alla mia loquela, che è a me prossima più che l’altre.  La sopra detta cagione, cioè d’essere più unito quello ch’è solo prima in tutta la mente, mosse la consuetudine della gente, che fanno li primogeniti succedere solamente, sì come [più] propinqui, e perché più propinqui più amati.

 Ancora: la bontade fece me a lei amico. E qui è da sapere che ogni bontade propia in alcuna cosa, è amabile in quella: sì com’è nella maschiezza essere ben barbuto, e nella femminezza essere ben pulita di barba in tutta la faccia; sì com’è nel bracco bene odorare, e sì com’è nel veltro ben correre.  E quanto ella è più propia, tanto ancora è più amabile; onde, avegna che ciascuna vertù sia amabile nell’uomo, quella è più amabile in esso che è più umana, e questa è la giustizia, la quale è solamente nella parte razionale o vero intellettuale, cioè nella volontade.  Questa è tanto amabile, che, sì come dice lo Filosofo nel quinto dell’Etica, li suoi nimici l’amano, sì come sono ladroni e rubatori; e però vedemo che ’l suo contrario, cioè la ingiustizia, massimamente è odiata, sì come è tradimento, ingratitudine, falsitade, furto, rapina, inganno e loro simili.  Li quali sono tanto inumani peccati, che ad iscusare sé della infamia di quelli, si concede da lunga usanza che uomo parli di sé, sì come detto è di sopra, e possa dire sé essere e fedele e leale.  Di questa vertù inanzi dicerò più pienamente nel quartodecimo trattato; e qui lasciando, torno al proposito. Provato è adunque la bontà della cosa più propia [più essere amabile in quella. E a mostrare quale in essa è più propia,] è da vedere quella che più in essa è amata e commendata, e quella è essa.  E noi vedemo che in ciascuna cosa di sermone lo bene manifestare del concetto è più amato e commendato: dunque è questa la prima sua bontade. E con ciò sia cosa che questa sia nel nostro volgare, sì come manifestato è di sopra in altro capitolo, manifesto è ched ella è delle cagioni stata dell’amore ch’io porto ad esso: poi che, sì come detto è, la bontade è cagione d’amore generativa.

XIII. Detto come nella propia loquela sono quelle due cose per le quali io sono fatto a lei amico, cioè prossimitade a me e bontà propia, dirò come per beneficio e [per] concordia di studio e per benivolenza di lunga consuetudine l’amistà è confirmata e fatta grande.

 Dico prima, ch’io per me ho da lei ricevuto dono di grandissimi beneficî. E però è da sapere che intra tutti beneficî è maggiore quello che più è prezioso a chi riceve; e nulla cosa è tanto preziosa quanto quella per la quale tutte l’altre si vogliono; e tutte l’altre cose si vogliono per la perfezione di colui che vuole.  Onde, con ciò sia cosa che due perfezioni abbia l’uomo, una prima e una seconda - la prima lo fa essere, la seconda lo fa essere buono -, se la propia loquela m’è stata cagione e dell’una e dell’altra, grandissimo beneficio da lei ho ricevuto. E ch’ella sia stata a me d’essere [cagione, e ancora di buono essere] se per me non stesse, brievemente si può mostrare.

 Non è secondo [............] a una cosa essere più cagioni efficienti, avegna che una sia massima dell’altre: onde lo fuoco e lo martello sono cagioni efficienti dello coltello, avegna che massimamente è il fabro. Questo mio volgare fu congiungitore delli miei generanti, che con esso parlavano, sì come ’l fuoco è disponitore del ferro al fabro che fa lo coltello: per che manifesto è lui essere concorso alla mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere.

 Ancora: questo mio volgare fu introduttore di me nella via di scienza, che è ultima perfezione [nostra], in quanto con esso io entrai nello latino e con esso mi fu mostrato: lo quale latino poi mi fu via a più inanzi andare. E così è palese, e per me conosciuto, esso essere stato a me grandissimo benefattore.

 Anche, è stato meco d’uno medesimo studio, e ciò posso così mostrare. Ciascuna cosa studia naturalmente alla sua conservazione: onde, se lo volgare per sé studiare potesse, studierebbe a quella; e quella sarebbe aconciare sé a più stabilitate, e più stabilitate non potrebbe avere che [in] legar sé con numero e con rime.  E questo medesimo studio è stato mio, sì come tanto è palese che non dimanda testimonianza. Per che uno medesimo studio è stato lo suo e ’l mio: per che di questa concordia l’amistà è confermata e acresciuta.

 Anche c’è stata la benivolenza della consuetudine, ché dal principio della mia vita ho avuta con esso benivolenza e conversazione, e usato quello diliberando, interpetrando e questionando.  Per che, se l’amistà s’acresce per la consuetudine, sì come sensibilemente appare, manifesto è che essa in me massimamente è cresciuta, che sono con esso volgare tutto mio tempo usato.

 E così si vede essere a questa amistà concorse tutte le cagioni generative e acrescitive dell’amistade: per che si conchiude che non solamente amore, ma perfettissimo amore sia quello ch’io a lui debbo avere ed hoe.

 Così, rivolgendo li occhi a dietro e raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi vedere questo pane, col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere sufficientemente purgato dalle macule e dall’essere di biado; per che tempo è d’intendere a ministrare le vivande.

 Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soverchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre ed in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce.

TRATTATO SECONDO

CANZONE PRIMA

Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete,

udite il ragionar ch’è nel mio core,

ch’io nol so dire altrui, sì mi par novo.

El ciel che segue lo vostro valore,

gentili creature che voi sete,

mi tragge nello stato ov’io mi trovo.

Onde ’l parlar della vita ch’io provo,

par che si drizzi degnamente a vui:

però vi priego che lo mi ’ntendiate.

Io vi dirò del cor la novitate,

come l’anima trista piange in lui,

e come un spirto contra lei favella,

che vien pe’ raggi della vostra stella.

Suol esser vita dello cor dolente

un soave penser, che se ne gìa

molte fïate a’ pie’ del nostro Sire,

ove una donna glorïar vedia,

di cui parlava me sì dolcemente

che l’anima dicea: "Io men vo’ gire".

Or apparisce chi lo fa fuggire

e segnoreggia me di tal vertute,

che ’l cor ne trema che di fori appare.

Questi mi face una donna guardare,

e dice: "Chi veder vuol la salute,

faccia che li occhi d’esta donna miri,

sed e’ non teme angoscia di sospiri".

Trova contraro tal che lo distrugge

l’umil pensero che parlar mi sòle

d’un’angela che ’n cielo è coronata.

L’anima piange, sì ancor len dole,

e dice: "Oh lassa a me, come si fugge

questo pietoso che m’ha consolata!".

Delli occhi miei dice questa affannata:

"Qual ora fu, che tal donna li vide!

E perché non credeano a me di lei?

Io dicea ben: nelli occhi di costei

de’ star colui che le mie pari ancide!

E non mi valse ch’io ne fosse acorta

che non mirasser tal, ch’io ne son morta".

"Tu non se’ morta, ma se’ ismarrita,

anima nostra, che sì ti lamenti",

dice uno spiritel d’amor gentile;

"ché quella bella donna che tu senti,

ha transmutata in tanto la tua vita,

che n’hai paura, sì se’ fatta vile!

Mira quant’ell’è pïetosa e umìle,

saggia e cortese nella sua grandezza,

e pensa di chiamarla donna, omai!

Ché se tu non t’inganni, tu vedrai

di sì alti miracoli adornezza,

che tu dirai: ‘Amor, segnor verace,

ecco l’ancella tua: fa che ti piace’".

Canzone, io credo che saranno radi

color che tua ragione intendan bene,

tanto la parli faticosa e forte.

Onde, se per ventura elli adivene

che tu dinanzi da persone vadi

che non ti paian d’essa bene acorte,

allor ti priego che ti riconforte,

dicendo lor, diletta mia novella:

"Ponete mente almen com’io son bella!".

I. Poi che proemialmente ragionando, me ministro, è lo mio pane [nel]lo precedente trattato con sufficienza preparato, lo tempo chiama e domanda la mia nave uscir di porto; per che, dirizzato l’artimone della ragione all’òra del mio desiderio, entro in pelago con isperanza di dolce cammino e di salutevole porto e laudabile nella fine della mia cena. Ma però che più proficabile sia questo mio cibo, prima che vegna la prima vivanda voglio mostrare come mangiare si dee.

 Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa esposizione conviene essere litterale ed allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi.

 L’uno si chiama litterale, e questo è quello che [................................................

 L’altro si chiama allegorico, e questo è quello che] si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea colla cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere: che vuol dire che lo savio uomo collo strumento della sua voce faccia mansuescere ed umiliare li crudeli cuori, e faccia muovere alla sua volontade coloro che [non] hanno vita di scienza e d’arte; e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre.  E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo delli poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato.

 Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare apostando per le scritture ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come apostare si può nello Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che delli dodici Apostoli menò seco li tre: in che moralmente si può intendere che alle secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia.

 Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [che sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa delle superne cose dell’etternal gloria: sì come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che nell’uscita del popolo d’Israel d’Egitto Giudea è fatta santa e libera: che avegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s’intende, cioè che nell’uscita dell’anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate.

 E in dimostrare questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello nella cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere alli altri, e massimamente allo allegorico.

 È impossibile, però che in ciascuna cosa che ha dentro e di fuori è impossibile venire al dentro, se prima non si viene al di fuori: onde, con ciò sia cosa che nelle scritture [la litterale sentenza] sia sempre lo di fuori, impossibile è venire all’altre, massimamente all’allegorica, sanza prima venire alla litterale.

 Ancora: è impossibile, però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile procedere alla forma, sanza prima essere disposto lo subietto sopra che la forma dee stare: sì come impossibile la forma dell’oro è venire, se la materia, cioè lo suo subietto, non è digesta e aparecchiata; e la forma dell’arca venire, se la materia, cioè lo legno, non è prima disposta e aparecchiata.

 Onde, con ciò sia cosa che la litterale sentenza sempre sia subietto e materia dell’altre, massimamente dell’allegorica, impossibile è prima venire alla conoscenza dell’altre che alla sua.

 Ancora: è impossibile, però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile procedere, se prima non è fatto lo fondamento, sì come nella casa e sì come nello studiare: onde, con ciò sia cosa che ’l dimostrare sia edificazione di scienza, e la litterale dimostrazione sia fondamento dell’altre, massimamente dell’allegorica, impossibile è [al]l’altre venire prima che a quella.

 Ancora: posto che possibile fosse, sarebbe inrazionale, cioè fuori d’ordine, e però con molta fatica e con molto errore si procederebbe. Onde, sì come dice lo filosofo nel primo della Fisica, la natura vuole che ordinatamente si proceda nella nostra conoscenza, cioè procedendo da quello che conoscemo meglio in quello che conoscemo non così bene: dico che la natura vuole, in quanto questa via di conoscere è in noi naturalmente innata.

 E però se li altri sensi dal litterale sono meno intesi - ché sono, sì come manifestamente pare -, inrazionabile sarebbe procedere ad essi dimostrare, se prima lo litterale non fosse dimostrato.

 Io adunque, per queste ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade; e talvolta delli altri sensi toccherò incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà.

II. Cominciando adunque, dico che la stella di Venere due fiate rivolta era in quello suo cerchio che la fa parere serotina e matutina secondo diversi tempi, apresso lo trapassamento di quella Beatrice beata che vive in cielo colli angeli e in terra colla mia anima, quando quella gentile donna [di] cui feci menzione nella fine della Vita Nova, parve primamente, acompagnata d’Amore, alli occhi miei e prese luogo alcuno nella mia mente.  E sì come [è] ragionato per me nello allegato libello, più da sua gentilezza che da mia elezione venne ch’io ad essere suo consentisse; ché passionata di tanta misericordia si dimostrava sopra la mia vedovata vita, che li spiriti delli occhi miei a lei si fero massimamente amici. E così fatti, dentro [da me] lei poi fero tale, che lo mio beneplacito fue contento a disposarsi a quella imagine.

 Ma però che non subitamente nasce amore e fassi grande e viene perfetto, ma vuole tempo alcuno e nutrimento di pensieri, massimamente là dove sono pensieri contrari che lo ’mpediscano, convenne, prima che questo nuovo amore fosse perfetto, molta battaglia [essere] intra lo pensiero del suo nutrimento e quello che li era contrario, lo quale per quella gloriosa Beatrice tenea ancora la rocca della mia mente:  però che l’uno era soccorso dalla parte [della vista] dinanzi continuamente, e l’altro dalla parte della memoria di dietro; e lo soccorso dinanzi ciascuno die crescea, che far non potea l’altro, comen[dan]te quella, che impediva in alcuno modo a dare indietro il volto; per che a me parve sì mirabile, e anche duro a sofferire, che io nol potei sostenere.  [E] quasi esclamando, e per iscusare me della vari[e]tade, nella quale parea me avere manco di fortezza, dirizzai la voce mia in quella parte onde procedeva la vittoria del nuovo pensiero, che era virtuosissimo sì come vertù celestiale; e cominciai a dire:

Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete.

 Allo ’ntendimento della quale canzone bene imprendere, conviene prima conoscere le sue parti, sì che leggiero sarà poi lo suo intendimento a vedere. Acciò che più non sia mestiere di predicere queste parole per le sposizioni dell’altre, dico che questo ordine che in questo trattato si prenderà, tenere intendo per tutti li altri.

 Adunque dico che la canzone proposta è contenuta da tre parti principali. La prima è lo primo verso di quella: nella quale s’inducono a udire ciò che dire intendo certe Intelligenze, o vero per più usato modo volemo dire Angeli, le quali sono alla revoluzione del cielo di Venere sì come movitori di quello.  La seconda è li tre versi che appresso del primo seguono: nel[la] quale si manifesta quel che dentro spiritualmente si sentiva intra’ diversi pensieri.  La terza è lo quinto e l’ultimo verso: nella quale sì vuole l’uomo parlare all’opera medesima, quasi a confortare quella.  E queste tutte e tre parti per ordine sono, come è detto di sopra, a dimostrare.

III. A più latinamente vedere la sentenza litterale, alla quale ora s’intende, della prima parte sopra divisa, è da sapere chi e quanti sono costoro che sono chiamati all’audienza mia, e qual è questo terzo cielo lo quale dico loro muovere; e prima dirò del cielo, poi dirò di loro a cu’ io parlo.  E avegna che quelle cose, per rispetto della veritade, assai poco sapere si possano, quel cotanto che l’umana ragione ne vede ha più [di] dilettazione che ’l molto e ’l certo delle cose delle quali si giudica secondo [lo senso, secondo] la sentenza del Filosofo in quello delli Animali.

 Dico adunque che del numero delli cieli e del sito diversamente è sentito da molti, avegna che la veritade all’ultimo sia trovata. Aristotile credette, seguitando solamente l’antica grossezza delli astrologi, che fossero pur otto cieli, delli quali lo estremo, e che contenesse tutto, fosse quello dove le stelle fisse sono, cioè la spera ottava; e che di fuori da esso non fosse altro alcuno.  Ancora credette che lo cielo del Sole fosse immediato con quello della Luna, cioè secondo a noi. E questa sua sentenza così erronea può vedere chi vuole nel secondo Di Cielo e Mondo, ch’è nel secondo de’ libri naturali. Veramente elli di ciò si scusa nel duodecimo della Metafisica, dove mostra bene sé avere seguito pur l’altrui sentenza là dove d’astrologia li convenne parlare.

 Tolomeo poi, acorgendosi che l’ottava spera si movea per più movimenti, veggendo lo cerchio suo partire dallo diritto cerchio, che volge tutto da oriente in occidente, constretto dalli principii di filosofia, che di necessitade vuole uno primo mobile semplicissimo, puose un altro cielo essere fuori dello Stellato, lo quale facesse questa revoluzione da oriente in occidente: la quale dico che si compie quasi in ventiquattro ore, [cioè in ventitré ore] e quattordici parti delle quindici d’un’altra, grossamente asegnando.  Sì che secondo lui, secondo quello che si tiene in astrologia ed in filosofia poi che quelli movimenti furono veduti, sono nove li cieli mobili; lo sito delli quali è manifesto e diterminato, secondo che per un’arte che si chiama perspettiva, e [per] arismetrica e geometria sensibilemente e ragionevolemente è veduto, e per altre esperienze sensibili: sì come nello eclipsi del sole appare sensibilemente la luna essere sotto lo sole, e sì come per testimonianza d’Aristotile [sapemo], che vide colli occhi (secondo che dice nel secondo Di Cielo e Mondo) la luna, essendo nuova, entrare sotto a Marte dalla parte non lucente, e Marte stare celato tanto che raparve dall’altra parte lucente della luna, ch’era verso occidente.

 Ed è l’ordine del sito questo: che lo primo che numerano è quello dove è la Luna; lo secondo è quello dove è Mercurio; lo terzo è quello dove è Venere; lo quarto è quello dove è lo Sole; lo quinto è quello di Marte; lo sesto è quello di Giove; lo settimo è quello di Saturno; l’ottavo è quello delle Stelle; lo nono è quello che non è sensibile se non per questo movimento che è detto di sopra, lo quale chiamano molti Cristallino, cioè diafano o vero tutto trasparente.

 Veramente, fuori di tutti questi, li catolici pongono lo cielo Empireo, che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso; e pongono esso essere immobile per avere in sé, secondo ciascuna [sua] parte, ciò che la sua materia vuole.  E questo è cagione al Primo Mobile per avere velocissimo movimento; ché per lo ferventissimo appetito ch’è [‘n] ciascuna parte di quello nono cielo, che è [im]mediato a quello, d’essere congiunta con ciascuna parte di quello divinissimo ciel quieto, in quello si rivolve con tanto desiderio, che la sua velocitade è quasi incomprensibile.  E quieto e pacifico è lo luogo di quella somma Deitate che sola [sé] compiutamente vede. Questo loco è di spiriti beati, secondo che la Santa Chiesa vuole, che non può dire menzogna; e Aristotile pare ciò sentire, a chi bene lo ’ntende, nel primo Di Cielo e Mondo.  Questo è lo soprano edificio del mondo, nel quale tutto lo mondo s’inchiude, e di fuori dal quale nulla è; ed esso non è in luogo ma formato fu solo nella Prima Mente, la quale li Greci dicono Protonoè. Questa è quella magnificenza della quale parlò il Salmista, quando dice a Dio: "Levata è la magnificenza tua sopra li cieli".

 E così, ricogliendo ciò che ragionato è, pare che diece cieli siano, delli quali quello di Venere sia lo terzo, del quale si fa menzione in quella parte che mostrare intendo.

 Ed è da sapere che ciascuno cielo di sotto dal Cristallino ha due poli fermi quanto a sé; e lo nono li ha fermi e fissi e non mutabili secondo alcuno respetto. E ciascuno, sì lo nono come li altri, hanno un cerchio che si può chiamare equatore del suo cielo propio; lo quale igualmente in ciascuna parte della sua revoluzione è rimoto dall’uno polo e dall’altro, come può sensibilemente vedere chi volge un pomo od altra cosa ritonda. E questo cerchio ha più rattezza nel muovere che alcuna parte del suo cielo, in ciascuno cielo, come può vedere chi bene considera.  E ciascuna parte, quant’ella più è presso ad esso, tanto più rattamente si muove; quanto più n’è rimota e più presso al polo, più è tarda, però che la sua revoluzione è minore, e conviene essere in uno medesimo tempo, di necessitade, colla maggiore.  Dico ancora che quanto lo cielo più è presso al cerchio equatore, tanto è più nobile per comparazione alli suoi [poli], però che ha più movimento e più attualitade e più vita e più forma, e più tocca di quello che è sopra sé, e per consequente più è virtuoso. Onde le stelle del Cielo Stellato sono più piene di vertù tra loro quanto più sono presso a questo cerchio.

 E in sul dosso di questo cerchio, nel cielo di Venere, del quale al presente si tratta, è una speretta che per se medesima in esso cielo si volge: lo cerchio della quale li astrologi chiamano epiciclo. E sì come la grande spera due poli volge, così questa picciola, e così ha questa picciola lo cerchio equatore, e così è più nobile quanto è più presso di quello; e in sull’arco o vero dosso di questo cerchio è fissa la lucentissima stella di Venere.

 E avegna che detto sia essere diece cieli, secondo la stretta veritade questo numero non li comprende tutti; ché questo di cui è fatta menzione, cioè l’epiciclo nel quale è fissa la stella, è uno cielo per sé, o vero spera, e non ha una essenzia con quello che ’l porta, avegna che più sia connaturato ad esso che li altri; e con esso è chiamato uno cielo, e dinominasi l’uno e l’altro dalla stella.

 Come li altri cieli e l’altre stelle siano, non è al presente da trattare: basti ciò che detto è della veritade del terzo cielo, del quale al presente intendo e del quale compiutamente è mostrato quello che al presente n’è mestiere.

IV. Poi ch’è mostrato nel precedente capitolo quale è questo terzo cielo e come in se medesimo è disposto, resta di mostrare chi sono questi che ’l muovono.

 È adunque da sapere primamente che li movitori di quelli [cieli] sono sustanze separate da materia, cioè Intelligenze, le quali la volgare gente chiamano Angeli. E di queste creature, sì come delli cieli, diversi diversamente hanno sentito, avegna che la veritade sia trovata.  Furono certi filosofi, de’ quali pare essere Aristotile nella sua Metafisica (avegna che nel primo di Cielo incidentemente paia sentire altrimenti), [che] credettero solamente essere tante queste, quante circulazioni fossero nelli cieli, e non più; dicendo che l’altre sarebbero state etternalmente indarno, sanza operazione: ch’era impossibile, con ciò sia cosa che loro essere sia loro operazione.

 Altri furono, sì come Plato, uomo eccellentissimo, che puosero non solamente tante Intelligenze quanti sono li movimenti del cielo, ma eziandio quante sono le spezie delle cose (cioè le maniere delle cose): sì come è una spezie tutti li uomini, e un’altra tutto l’oro, e un’altra tutte le larghezze, e così di tutte.  E volsero che, sì come le Intelligenze delli cieli sono generatrici di quelli, ciascuna del suo, così queste fossero generatrici dell’altre cose ed essempli, ciascuna della sua spezie; e chiamale Plato ‘idee’, che tanto è a dire quanto forme e nature universali.

 Li gentili le chiama[va]no Dei e Dee, avegna che non così filosoficamente intendessero quelle come Plato, e adoravano le loro imagini, e facevano loro grandissimi templi: sì come a Giuno, la quale dissero dea di potenza; sì come a Pallade o vero Minerva, la quale dissero dea di sapienza; sì come a Vulcano, lo quale dissero dio del fuoco, ed a Cerere, la quale dissero dea della biada.  Le quali cose ed oppinioni manifesta la testimonianza de’ poeti che ritraggono in parte alcuna lo modo de’ gentili e nelli sacrifici e nella loro fede; e anco si manifesta in molti nomi antichi rimasi o per nomi o per sopranomi a lochi e antichi edificî, come può bene ritrovare chi vuole.

 E avegna che per ragione umana queste oppinioni di sopra fossero fornite, e per esperienza non lieve, la veritade ancora per loro veduta non fue, e per difetto di ragione e per difetto d’amaestramento; ché pur per ragione vedere si può in molto maggiore numero essere le creature sopra dette, che non sono li effetti che [per] li uomini si possono intendere.

 E l’una ragione è questa. Nessuno dubita, né filosofo né gentile né giudeo né cristiano né alcuna setta, ch’elle non siano piene di tutta beatitudine, o tutte o la maggiore parte, e che quelle beate non siano in perfettissimo stato.  Onde, con ciò sia cosa che quella che è qui l’umana natura non pur una beatitudine abbia, ma due, sì com’è quella della vita civile e quella della contemplativa, inrazionale sarebbe se noi vedemo quelle avere [la] beatitudine della vita attiva, cioè civile, nel governare del mondo, e non avessero quella della contemplativa, la quale è più eccellente e più divina.  E con ciò sia cosa che quella che ha la beatitudine del governare non possa l’altra avere, perché lo ’ntelletto loro è uno e perpetuo, conviene essere altre fuori di questo ministerio, che solamente vivano speculando.  E perché questa vita è più divina, e quanto la cosa è più divina è più di Dio simigliante, [e tanto è da Dio più amata quanto è più di Dio simigliante], manifesto è che questa vita è da Dio più amata: e se ella è più amata, più l’è la sua beatanza stata larga: e se più l’è stata larga, più viventi [Dio] l’ha dato che all’attiva. Per che si conchiude che troppo maggiore numero sia quello di quelle creature che li effetti non dimostrano.  E non è contra quello che pare dire Aristotile nel decimo dell’Etica, che alle sustanze separate convegna pure la speculativa vita. Come pure la speculativa convegna loro, pure alla speculazione di certe segue la circulazione del cielo, che è del mondo governo; lo quale è quasi una ordinata civilitade, intesa nella speculazione delli motori.

 L’altra ragione si è che nullo effetto è maggiore della cagione, poi che la cagione non può dare quello che non ha; onde, con ciò sia cosa che lo divino intelletto sia cagione di tutto, massimamente dello ’ntelletto umano, [manifesto è] che l’umano quello non soperchia, ma da esso è improporzionalmente soperchiato.  Dunque se noi, per le ragioni di sopra e per molt’altre, intendiamo Dio avere possuto fare innumerabili quasi creature spirituali, manifesto è lui questo avere fatto maggiore numero. Altre ragioni si possono vedere assai, ma queste bastino al presente.

 Né si maravigli alcuno se queste e altre ragioni che di ciò avere potemo, non sono del tutto dimostrat[iv]e; ché però medesimamente dovemo amirare loro eccellenza - la quale soverchia li occhi della mente umana, sì come dice lo Filosofo nel secondo della Metafisica -, e afferma[r] loro essere.  Poi che, non avendo di loro alcuno senso (dal quale comincia la nostra conoscenza), pure risplende nel nostro intelletto alcuno lume della vivacissima loro essenzia, in quanto vedemo le sopra dette ragioni e molt’altre: sì come afferma chi ha li occhi chiusi l’aere essere luminoso, per un poco di splendore o vero raggio che passa per le pupille del palpastrello; ché non altrimenti sono chiusi li nostri occhi intellettuali, mentre che l’anima è legata e incarcerata per li organi del nostro corpo.

 

V. Detto è che per difetto d’amaestramento li antichi la veritade non videro delle creature spirituali, avegna che quello popolo d’Israel fosse in parte dalli suoi profeti amaestrato, "nelli quali, per molte maniere di parlare e per molti modi, Dio avea loro parlato", sì come l’Apostolo dice.

 Ma noi semo di ciò amaestrati da colui che venne da quello, da colui che [le] fece, da colui che le conserva, cioè dallo Imperadore dell’universo, che è Cristo, figliuolo del sovrano Dio e figliuolo di Maria Vergine (femmina veramente e figlia di Giovacchino e d’Adamo); uomo vero, lo quale fu morto da noi, per che ci recò vita.  ‘Lo qual fu luce che allumina noi nelle tenebre’, sì come dice Giovanni Evangelista, e disse a noi la veritade di quelle cose che noi sapere sanza lui non potavamo, né vedere veramente.

 La prima cosa e lo primo secreto che ne mostrò, fue una delle creature predette: ciò fue quello suo grande legato che venne a Maria, giovinetta donzella di tredici anni, da parte del Sanatore celestiale. Questo nostro Salvatore colla sua bocca disse che ’l Padre li potea dare molte legioni d’angeli; questi non negò, quando detto li fu che ’l Padre avea comandato alli angeli che li ministrassero e servissero.

 Per che manifesto è a noi quelle creature [essere] in larghissimo numero: per che la sua sposa e secretaria Santa Ecclesia - della quale dice Salomone: "Chi è questa che [a]scende del diserto, piena di quelle cose che dilettano, apoggiata sopra l’amico suo?" - dice, crede e predica quelle nobilissime creature quasi innumerabili. E partele per tre gerarzie, che è a dire tre principati santi o vero divini, e ciascuna gerarzia ha tre ordini: sì che nove ordini di creature spirituali la Chiesa tiene e afferma.

 Lo primo è quello delli Angeli, lo secondo delli Arcangeli, lo terzo delli Troni; e questi tre ordini fanno la prima gerarzia: non prima quanto a nobilitade, non a creazione (ché più sono l’altre nobili e tutte furono insieme create), ma prima quanto al nostro salire a loro altezza. Poi sono le Dominazioni, appresso le Vertuti, poi li Principati: e questi fanno la seconda gerarzia. Sopra questi sono le Potestati e li Cherubini, e sopra tutti sono li Serafini: e questi fanno la terza gerarzia.

 Ed è potissima ragione della loro speculazione e lo numero in che sono le gerarzie e quello in che sono li ordini. Ché con ciò sia cosa che la Maiesta divina sia in tre persone, che hanno una sustanza, di loro si puote triplicemente contemplare.  Ché si può contemplare della potenza somma del Padre: la quale mira la prima gerarzia, cioè quella che è prima per nobilitade e che ultima noi annoveriamo. E puotesi contemplare la somma sapienza del Figlio: e questa mira la seconda gerarzia. E puotesi contemplare la somma e ferventissima caritade dello Spirito Santo: e questa mira l’ultima gerarzia, la quale, più propinqua, a noi porge delli doni che essa riceve.

 E con ciò sia cosa che ciascuna persona nella divina Trinitade triplicemente si possa considerare, sono in ciascuna gerarzia tre ordini che diversamente contemplano.  Puotesi considerare lo Padre non avendo rispetto se non ad esso: e questa contemplazione fanno li Serafini, che veggiono più della Prima Cagione che nulla angelica natura. Puotesi considerare lo Padre secondo che ha relazione al Figlio, cioè come da lui si parte e come con lui sé unisce: e questo contemplano li Cherubini. Puotesi ancora considerare lo Padre secondo che da lui procede lo Spirito Santo, e come da lui si parte e come con lui sé unisce: e questa contemplazione fanno le Potestati.  E per questo modo si puote speculare del Figlio e dello Spirito Santo: per che convengono essere nove maniere di spiriti contemplativi a mirare nella luce che sola se medesima vede compiutamente.

 E non è qui da tacere una parola. Dico che di tutti questi ordini si perderono alquanti tosto che furono creati, forse in numero della decima parte: alla quale restaurare fue l’umana natura poi creata.

 Li numeri, li ordini, le gerarzie narrano li cieli mobili, che sono nove, e lo decimo annunzia essa unitade e stabilitade di Dio. E però dice lo Salmista: "Li cieli narrano la gloria di Dio, e l’opere delle sue mani annunzia lo firmamento".  Per che ragionevole è credere che li movitori del cielo della Luna siano dell’ordine delli Angeli, e quelli di Mercurio siano li Arcangeli, e quelli di Venere siano li Troni: li quali, naturati dell’amore del Santo Spirito, fanno la loro operazione, connaturale ad essi, cioè lo movimento di quello cielo, pieno d’amore; dal quale prende la forma del detto cielo uno ardore virtuoso, per lo quale le anime di qua giuso s’accendono ad amore, secondo la loro disposizione.  E perché li antichi s’accorsero che quello cielo era qua giù cagione d’amore, dissero Amore essere figlio di Venere, sì come testimonia Virgilio nel primo dello Eneida, ove dice Venere ad Amore: "Figlio, vertù mia, figlio del sommo padre, che li dardi di Tifeo" (cioè quello gigante) "non curi"; e Ovidio, nel quinto di Metamorphoseos, quando dice che Venere disse ad Amore: "Figlio, armi mie, potenzia mia".

 E sono questi Troni, che al governo di questo cielo sono dispensati, in numero non grande, dello quale per li filosofi e per li astrologi diversamente è sentito, secondo che diversamente sentiro delle sue circulazioni; avegna che tutti siano acordati in questo, che tanti sono quanti movimenti esso fae.  Li quali, secondo che nel libro dell’Aggregazioni delle Stelle epilogato si truova dalla migliore dimostrazione delli astrologi, sono tre: uno, secondo che la stella si muove per lo suo epiciclo; l’altro, secondo che lo epiciclo si muove con tutto lo cielo igualmente con quello del Sole; lo terzo, secondo che tutto quello cielo si muove seguendo lo movimento della stellata spera, da occidente a oriente, in cento anni uno grado. Sì che [a] questi tre movimenti sono tre movitori.  Ancora si muove tutto questo cielo e rivolgesi collo epiciclo da oriente in occidente, ogni die naturale una fiata: lo qual movimento, se esso è da intelletto alcuno, o se esso è dalla rapina del Primo Mobile, Dio lo sa; ché a me pare presuntuoso a giudicare.  Questi movitori muovono, solo intendendo, la circulazione in quello subietto propio che ciascuno muove. La forma nobilissima del cielo, che ha in sé principio di questa natura passiva, gira, toccata da vertù motrice che questo intende: e dico toccata, non corporalmente, per tatto di vertù la quale si dirizza in quello.

 E questi movitori sono quelli alli quali s’intende di parlare, ed a cu’ io fo mia dimanda.

VI. Secondo che di sopra, nel terzo capitolo di questo trattato, si disse ([cioè ch’]a bene intendere la prima parte della proposta canzone convenia ragionare di quelli cieli e delli loro motori), nelli tre precedenti capitoli è ragionato.

 Dico adunque a quelli ch’io mostrai sono movitori del cielo di Venere: O "voi che ’ntendendo" - cioè collo intelletto solo, come detto è di sopra, - "lo terzo cielo [movete], / udite il ragionare"; e non dico "udite" perch’elli odano alcuno suono, ch’elli non hanno senso, ma dico "udite", cioè, con quello udire ch’elli hanno, ch’è intendere per intelletto. Dico: "Udite il ragionare" lo quale "è nel mio core", cioè dentro da me, ché ancora non è di fuori apparito. E da sapere è che in tutta questa canzone, secondo l’uno senso e l’altro, lo ‘core’ si prende per lo secreto dentro, e non per altra spezial parte dell’anima e del corpo.

 Poi li ho chiamati a udire quello ch’io dire voglio, asegno due ragioni per che io convenevolemente deggio loro parlare. L’una si è la novità della mia condizione, la quale, per non essere dalli altri uomini esperta, non sarebbe così da loro intesa come da coloro che ’ntendono li loro effetti nella loro operazione; e questa ragione tocco quando dico:

ch’io nol so dire altrui, sì mi par novo.

 L’altra ragione è: quand’uomo riceve beneficio o vero ingiuria, prima de’ quello ritraere a chi liele fa, se può, che ad altri: acciò che se ello è beneficio, esso che lo riceve si mostri conoscente inver lo benefattore; e s’ella [è] ingiuria, induca lo fattore a buona misericordia colle dolci parole. 5 E questa ragione tocco quando dico:

El ciel che segue lo vostro valore,

gentili creature che voi sete,

mi tragge nello stato ov’io mi trovo.

Ciò è a dire: l’operazione vostra, cioè la vostra circulazione, è quella che m’ha tratto nella presente condizione. Però conchiudo e dico che ’l mio parlare a loro dee essere, sì come detto è; e questo dico qui[vi]:

Onde ’l parlar della vita ch’io provo,

par che si drizzi degnamente a vui.

E dopo queste ragioni asegnate, priego loro dello ’ntendere, quando dico:

però vi priego che lo mi ’ntendiate.

 Ma però che in ciascuna maniera di sermone lo dicitore massimamente dee intendere alla persuasione, cioè all’abellire dell’audienza, sì come a quella ch’è principio di tutte l’altre persuasioni, come li rettorici sanno, e potentissima persuasione sia, a rendere l’uditore attento, promettere di dire nuove e grandissime cose; séguito io alla preghiera fatta dell’audienza questa persuasione, cioè, dico abellimento, annunziando loro la mia intenzione, la quale è di dire nuove cose, cioè la divisione che è nella mia anima, e grandi cose, cioè lo valore della loro stella. E questo dico in quelle ultime parole di questa prima parte:

Io vi dirò del cor la novitate,

come l’anima trista piange in lui,

e come un spirto contra lei favella,

che vien pe’ raggi della vostra stella.

 E a pieno intendimento di queste parole, dico che questo [spirito] non è altro che uno frequente pensiero a questa nuova donna commendare ed abellire; e questa anima non è altro che un altro pensiero, acompagnato di consentimento, che, repugnando a questo, commenda ed abellisce la memoria di quella gloriosa Beatrice.  Ma però che ancora l’ultima sentenza della mente, cioè lo [con]sentimento, si tenea per questo pensiero che la memoria aiutava, chiamo io lui ‘anima’ e l’altro ‘spirito’: sì come chiamare solemo la cittade quelli che la tengono, e non coloro che la combattono, avegna che l’uno e l’altro sia cittadino.

 Dico anche che questo spirito viene per li raggi della stella: per che sapere si vuole che li raggi di ciascuno cielo sono la via per la quale discende la loro vertude in queste cose di qua giù. E però che li raggi non sono altro che uno lume che viene dal principio della luce per l’aere infino alla cosa illuminata, e luce non sia se non nella parte della stella, però che l’altro cielo è diafano, cioè trasparente, non dico che vegna questo spirito, cioè questo pensiero, dal loro cielo in tutto, ma dalla loro stella.  La quale per la nobilità delli suoi movitori è di tanta vertute, che nelle nostre anime e nell’altre nostre cose ha grandissima podestade, non ostante che essa ci sia lontana, qual volta più c’è presso, cento sessanta sette volte tanto quanto è, e più, al mezzo della terra, che ci ha di spazio tremilia dugento cinquanta miglia.

 E questa è la litterale esposizione della prima parte della canzone.

VII. Inteso può essere sofficientemente per le prenarrate parole della litterale sentenza della prima parte; per che alla seconda è da intendere, nella quale si manifesta quello che dentro io sentia della battaglia.  E questa parte ha due divisioni: ché in prima, cioè nel primo verso, narro la qualitade di queste diversitadi secondo la loro radice, che erano dentro a me; poi narro quello che dicea l’una e l’altra diversitade, e però, prima, quello che dicea la parte che perdea, cioè nel verso ch’è lo secondo di questa parte [e lo terzo della canzone; e poi quello che dicea la parte che vincea, cioè nel verso ch’è lo terzo di questa parte] e lo quarto della canzone.

 Ad evidenzia dunque della sentenza della prima divisione, è da sapere che le cose deono essere denominate dall’ultima nobilitade della loro forma: sì come l’uomo dalla ragione, e non dal senso né d’altro che sia meno nobile. Onde, quando si dice l’uomo vivere, si dee intendere l’uomo usare la ragione, che è sua speziale vita ed atto della sua più nobile parte.  E però chi dalla ragione si parte e usa pure la parte sensitiva, non vive uomo ma vive bestia: sì come dice quello eccellentissimo Boezio: "Asino vive". Dirittamente, dico, però che lo pensiero è propio atto della ragione, per che le bestie non pensano, ché non l’hanno; e non dico pur delle minori bestie, ma di quelle che hanno apparenza umana e spirito di pecora o d’altra bestia abominevole.

 Dico adunque che vita del mio core, cioè del mio dentro, suole essere un pensiero soave (‘soave’ è tanto quanto ‘suaso’, cioè abellito, dolce, piacente e dilettoso): questo pensiero se ne gìa spesse volte a’ piedi del sire di costoro a cu’ io parlo, ch’è Iddio: ciò è a dire che io pensando contemplava lo regno de’ beati.  E dico la finale cagione incontanente per che lassù io saliva pensando, quando dico:

ove una donna glorïar vedia;

a dare a intendere che [........................], perché io era certo, e sono, per sua graziosa revelazione, che ella era in cielo. Onde io pensando spesse volte come possibile m’era, me n’andava quasi rapito.

 Poi sussequentemente dico l’effetto di questo pensiero, a dare a intendere la sua dolcezza, la quale era tanta che mi facea disioso della morte, per andare là dov’elli gìa; e ciò dico quivi:

di cui parlava me sì dolcemente,

che l’anima dicea: Io men vo’ gire.

E questa è la radice dell’una delle diversitadi ch’era in me.  Ed è da sapere che qui si dice ‘pensiero’, e non ‘anima’, di quello che salia a vedere quella beata, perché era spezial pensiero a quello atto. L’anima s’intende, come detto è nel precedente capitolo, per lo generale pensiero, col consentimento.

 Poi quando dico:

Or apparisce chi lo fa fuggire,

narro la radice dell’altra diversitade, dicendo [che], sì come questo pensiero di sopra suol essere vita di me, così un altro apparisce che fa quello cessare. E dico ‘fuggire’, per mostrare quello essere contrario, ché naturalmente l’uno contrario fugge l’altro, e quello che fugge mostra per difetto di vertù di fuggire.  E dico che questo pensiero che di nuovo apparisce, è poderoso in prendere me e in vincere l’anima tutta, dicendo che esso segnoreggia sì che ’l cuore, cioè lo mio dentro, triema, e lo mio di fuori lo dimostra in alcuna nova sembianza.

 Sussequentemente mostro la potenza di questo pensiero nuovo per suo effetto, dicendo che esso mi fa mirare una donna, e dicemi parole di lusinghe, cioè ragiona dinanzi alli occhi del mio intelligibile affetto per meglio inducermi, promettendomi che la vista delli occhi suoi è sua salute.  E a meglio fare ciò credere all’anima esperta, dice che non è da guardare nelli occhi di questa donna per persona che tema angoscia di sospiri. Ed è bel modo rettorico, quando di fuori pare la cosa disabellirsi, e dentro veramente s’abellisce. Più non potea questo novo pensiero d’amore inducere la mia mente a consentire, che [co]l ragionare della vertù delli occhi di costei profondamente.

VIII. Ora ch’è mostrato come e perché nasce amore, e la diversitade che mi combattea, procedere si conviene ad aprire la sentenza di quella parte nella quale contendono in me diversi pensamenti.  Dico che prima si conviene dire della parte dell’anima, cioè dell’antico pensiero, e poi dell’altro, per questa ragione, che sempre quello che massimamente dire intende lo dicitore sì dee riservare di dietro; però che quello che ultimamente si dice, più rimane nell’animo dello uditore.  Onde, con ciò sia cosa che io intenda più a dire e a ragionare quello che l’opera di costoro a cu’ io parlo fa, che quello che essa disfà, ragionevole fue prima dire e ragionare la condizione della parte che si corrompea, e poi quella dell’altra che si generava.

 Veramente qui nasce un dubio, lo quale non è da trapassare sanza dichiarare. Potrebbe dire alcuno (con ciò sia cosa che amore sia effetto di queste intelligenze a cu’ io parlo, e quello di prima fosse amore così come questo di poi): ‘Perché la loro vertù corrompe l’uno e l’altro genera?’ (con ciò sia cosa che innanzi dovrebbe quello salvare, per la ragione che ciascuna cagione ama lo suo effetto); ‘e amando quello, salva quell’altro?’.

 A questa questione si può leggiermente rispondere che lo effetto di costoro è amore, come detto è; [e] però che salvare nol possono se non in quelli subietti che sono sottoposti alla loro circulazione, esso transmutano di quella parte che è fuori di loro podestade in quella che v’è dentro, cioè dell’anima partita d’esta vita in quella che è in essa: sì come la natura umana transmuta, nella forma umana, la sua conservazione di padre in figlio, perché non può in esso padre perpetualmente co[ta]l suo effetto conservare.  Dico ‘effetto’, in quanto l’anima col corpo, congiunti, sono effetto di quella; ché [l’anima, poi che] è partita, perpetualmente dura in natura più che umana. E così è soluta la questione.

 Ma però che della immortalità dell’anima è qui toccato, farò una digressione ragionando di quella; perché di quella ragionando, sarà bello terminare lo parlare di quella viva Beatrice beata, della quale più parlare in questo libro non intendo per proponimento.

 Dico che intra tutte le bestilitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima, chi crede dopo questa vita non essere altra vita; però che, se noi rivolgiamo tutte le scritture, sì de’ filosofi come delli altri savi scrittori, tutti concordano in questo, che in noi sia parte alcuna perpetuale.  E questo massimamente pare volere Aristotile in quello dell’Anima; questo pare volere massimamente ciascuno Stoico; questo pare volere Tulio, spezialmente in quello libello della Veg[li]ezza; questo pare volere ciascuno poeta che secondo la fede de’ gentili hanno parlato; questo vuole ciascuna legge, Giudei, Saracini, Tartari e qualunque altri vivono secondo alcuna ragione. Che se tutti fossero ingannati, seguiterebbe una impossibilitade che pure a ritraere sarebbe orribile.

 Ciascuno è certo che la natura umana è perfettissima di tutte l’altre nature di qua giù, e questo nullo niega, e Aristotile l’afferma quando dice nel duodecimo delli Animali che l’uomo è perfettissimo di tutti li animali.           Onde, con ciò sia cosa che molti [animali] che vivono, interamente siano mortali, sì come animali bruti, e siano sanza questa speranza tutti mentre che vivono, cioè d’altra vita; se la nostra speranza fosse vana, maggiore sarebbe lo nostro difetto che di nullo altro animale, con ciò sia cosa che molti già sono stati che hanno data questa vita per quella: e così seguiterebbe che lo perfettissimo animale, cioè l’uomo, fosse imperfettissimo - che è impossibile - e che quella parte, cioè la ragione, che è sua perfezione maggiore, fosse a lui cagione di maggiore difetto: che del tutto diverso pare a dire.

 Ancora seguiterebbe che la natura contra se medesima questa speranza nella mente umana posta avesse, poi che detto è che molti alla morte del corpo sono corsi per vivere nell’altra vita: e questo è anche impossibile.

 Ancora: vedemo continua esperienza della nostra immortalitade nelle divinazioni de’ nostri sogni, le quali essere non potrebbono se in noi alcuna parte immortale non fosse; con ciò sia cosa che immortale convegna essere lo revelante, [o corporeo] o incorporeo che sia, se bene si pensa sottilmente - e dico [o] corporeo o incorporeo, per le diverse oppinioni che io truovo di ciò -, e quello ch’è mosso o vero informato da informatore immediato debbia proporzione avere allo informatore, e dallo mortale allo immortale nulla sia proporzione.

 Ancora n’accerta la dottrina veracissima di Cristo, la quale è via, veritade e luce: via, perché per essa sanza impedimento andiamo alla felicitade di quella immortalitade; veritade, perché non soffera alcuno errore; luce, perché allumina noi nella tenebra della ignoranza mondana.  Questa dottrina dico che ne fa certi sopra tutte altre ragioni, però che quello la n’hae data che la nostra immortalitade vede e misura. La quale noi non potemo perfettamente vedere mentre che ’l nostro immortale col mortale è mischiato; ma vedemola per fede perfettamente, e per ragione la vedemo con ombra d’oscuritade, la quale incontra per mistura del mortale coll’immortale.  E ciò dee essere potentissimo argomento che in noi l’uno e l’altro sia; e io così credo, così affermo e così certo sono, ad altra vita migliore dopo questa passare, là dove quella gloriosa donna vive della quale fue l’anima mia innamorata quando contendea come nel seguente capitolo si ragionerae.

IX. Tornando al proposito, dico che in questo verso che comincia:

Trova contraro tal che lo distrugge,

intendo manifestare quello che dentro a me l’anima mia ragionava, cioè l’antico pensiero contra lo nuovo. E prima brievemente manifesto la cagione del suo lamentevole parlare, quando dico:

Trova contraro tal che lo distrugge

l’umil pensero che parlar mi sòle

d’un’angela che ’n cielo è coronata.

Questo è quello speziale pensiero, del quale detto è di sopra che solea "esser vita dello cor dolente".

 Poi quando dico:

L’anima piange, sì ancor len dole,

manifesto l’anima mia essere ancora dalla sua parte e con tristizia parlare; e dico che dice parole lamentandosi, quasi come si maravigliasse della sùbita transmutazione, dicendo:

Oh lassa a me, come si fugge

questo pietoso che m’ha consolata!

Ben può dire ‘consolata’, ché nella sua grande perdita questo pensiero che in cielo salia, l’avea data molta consolazione.

 Poi appresso, ad iscusa di sé dico che si volge tutto lo mio pensiero, cioè l’anima, della quale dico "questa affannata", e parla contra li occhi; e questo si manifesta quivi:

De li occhi miei dice questa affannata.

E dico ch’ella dice di loro e contra loro tre cose.

 La prima è che biastemmia l’ora che questa donna li vide. E qui si vuol sapere che, avegna che più cose nell’occhio a un’ora possano venire, veramente quella che viene per retta linea nella punta della pupilla, quella veramente si vede e nella imaginativa si suggella solamente.  E questo è però che ’l nervo per lo quale corre lo spirito visivo, è diritto a quella parte, e però veramente l’occhio l’altro occhio non può guardare, sì che esso non sia veduto da lui; ché, sì come quello che mira riceve la forma nella pupilla per retta linea, così per quella medesima linea la sua forma se ne va in quello ch’ello mira; e molte volte, nel dirizzare di questa linea, discocca l’arco di colui al quale ogni arme è leggiere. Però quando dico: "che tal donna li vide", è tanto a dire quanto che li occhi suoi e li miei si guardaro.

 La seconda cosa che dice, si è che riprende la sua disobedienza, quando dice:

E perché non credeano a me di lei?

Poi procede alla terza cosa, e dice che non dee sé riprendere di provedimento, ma loro di non ubbidire: però che dice che alcuna volta, di questa donna ragionando, dicesse: Nelli occhi di costei doverebbe esser virtù sopra me, se ella avesse aperta la via di venire; e questo dice quivi:

Io dicea ben: nelli occhi di costei.

 E bene si dee credere che l’anima mia conoscea la sua disposizione atta a ricevere l’atto di questa donna, e però ne temea; ché l’atto dell’agente si prende nel disposto paziente, sì come dice lo Filosofo nel secondo dell’Anima. E però, se la cera avesse spirito da temere, più temerebbe di venire allo raggio del sole che non farebbe la pietra, però che la sua disposizione riceve quello per più forte operazione.

 Ultimamente manifesta l’anima nel suo parlare la presunzione loro pericolosa essere stata, quando dice:

E non mi valse ch’io ne fosse acorta,

che non mirasser tal, ch’io ne son morta.

Non là "mirasser", dice, colui di cui prima detto avea: "colui che le mie pari ancide". E così termina le sue parole; alle quali risponde lo novo pensiero, sì come nel seguente capitolo si dichiarerà.

X. Dimostrata è la sentenza di quella parte nella qual parla l’anima, cioè l’antico pensiero che si corruppe. Ora seguentemente si dee mostrare la sentenza della parte nella qual parla lo pensiero nuovo avverso; e questa parte si contiene tutta nel verso che comincia: "Tu non se’ morta".  La qual parte, a bene intendere, si vuole in due partire: ché nella prima parte [............................ nella seconda parte], che comincia: "Mira quant’ell’è pïetosa".

 Dice adunque, continuandosi all’ultime sue parole: Non è vero che tu sie morta; ma la cagione per che morta ti pare essere, si è uno smarrimento nel quale se’ caduta vilmente per questa donna che è apparita: - e qui è da notare che, sì come dice Boezio nella sua Consolazione, "ogni sùbito movimento di cose non aviene sanza alcuno discorrimento d’animo" -; e questo vuol dire lo riprendere di questo pensiero.  Lo quale si chiama ‘spiritel d’amore’ a dare a intendere che lo consentimento mio piegava inver di lui; e così si può questo intendere maggiormente, e conoscer la sua vittoria, quando dice già ‘anima nostra’, faccendosi familiare di quella.

 Poi, com’è detto, comanda quello che far dee quest’anima ripresa per venire lei a sé, e lei dice:

Mira quant’ell’è pïetosa e umìle:

ché sono propio rimedio alla temenza, della qual parea l’anima passionata, due cose, [e] sono queste che, massimamente congiunte, fanno della persona bene sperare, e massimamente la pietade, la quale fa risplendere ogni altra bontade col lume suo. Per che Virgilio, d’Enea parlando, in sua maggiore loda pietoso lo chiama.  E non è pietade quella che crede la volgare gente, cioè dolersi dell’altrui male, anzi è questo uno suo speziale effetto, che si chiama misericordia e[d] [è] passione; ma pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia ed altre caritative passioni.

 Poi dice: Mira anche quanto è

saggia e cortese nella sua grandezza.

Or dice tre cose le quali, secondo quelle che per noi acquistar si possono, massimamente fanno la persona piacente. Dice ‘saggia’: or che è più bello in donna che savere? Dice ‘cortese’: nulla cosa sta più in donna bene che cortesia. E non siano li miseri volgari anche di questo vocabulo ingannati, che credono che cortesia non sia altro che larghezza; e larghezza è una speziale, e non generale, cortesia!  Cortesia e onestade è tutt’uno: e però che nelle corti anticamente le vertudi e li belli costumi s’usavano, sì come oggi s’usa lo contrario, si tolse quello vocabulo dalle corti, e fu tanto a dire cortesia quanto uso di corte. Lo qual vocabulo se oggi si togliesse dalle corti, massimamente d’Italia, non sarebbe altro a dire che turpezza.

 Dice "nella sua grandezza". La grandezza temporale, della quale qui s’intende, massimamente sta bene acompagnata colle due predette bontadi, però ch’ell’apre lume che mostra lo bene e l’altro della persona chiaramente. E quanto savere e quanto abito virtuoso non si pare, per questo lume non avere! e quanta mat[t]erìa e quanti vizii si discernono per avere questo lume!  Meglio sarebbe alli miseri grandi, matti, stolti e viziosi, essere in basso stato, ché né in mondo né dopo la vita sarebbero tanto infamati. Veramente per costoro dice Salomone nello Ecclesiaste: "E un’altra infermitade pessima vidi sotto lo sole, cioè ricchezze conservate in male del loro signore".

 Poi sussequentemente impone a lei, cioè all’anima mia, che chiami omai costei sua donna, promettendo a lei che di ciò assai si contenterà, quando ella sarà delle sue addornezze acorta; e questo dice quivi:

Ché se tu non t’inganni, tu vedrai.

Né altro dice infino alla fine di questo verso.

 E qui termina la sentenza litterale di tutto quello che in questa canzone dico parlando a quelle intelligenze celestiali.

XI. Ultimamente, secondo che di sopra disse la littera di questo comento quando partio le parti principali di questa canzone, io mi rivolgo colla faccia del mio sermone alla canzone medesima, e a quella parlo.  E acciò che questa parte più pienamente sia intesa, dico che generalmente si chiama in ciascuna canzone ‘tornata’, però che li dicitori che prima usaro di farla, fenno quella perché, cantata la canzone, con certa parte del canto ad essa si ritornasse.  Ma io rade volte a quella intenzione la feci, e acciò che altri se n’acorgesse, rade volte la puosi coll’ordine della canzone quanto è allo numero che alla nota è necessario; ma fecila quando alcuna cosa in addornamento della canzone era mestiero a dire, fuori della sua sentenza, sì come in questa e nell’altre vedere si potràe.  E però dico al presente che la bontade e la bellezza di ciascuno sermone sono intra loro partite e diverse; ché la bontade è nella sentenza, e la bellezza è nell’ornamento delle parole; e l’una e l’altra è con diletto, avegna che la bontade sia massimamente dilettosa.  Onde, con ciò sia cosa che la bontade di questa canzone fosse malagevole a sentire per le diverse persone che in essa s’inducono a parlare, dove si richeggiono molte distinzioni, e la bellezza fosse agevole a vedere, parvemi mestiero alla canzone che per li altri si ponesse più mente alla bellezza che alla bontade. E questo è quello che dico in questa parte.

 Ma però che molte fiate aviene che l’amonire pare presuntuoso, per certe condizioni suole lo rettorico indirettamente parlare altrui, dirizzando le sue parole non a quello per cui dice, ma verso un altro. E questo modo si tiene qui veramente: ché alla canzone vanno le parole, e alli uomini la ’ntenzione.  Dico adunque: Io credo, canzone, che radi sono, cioè pochi, quelli che intendano te bene. E dico la cagione, la quale è doppia. Prima: però che faticosa parli - ‘faticosa’, dico, per la cagione che detta è -; poi: però che forte parli - ‘forte’, dico, quanto alla novitade della sentenza -.  Ora appresso amonisco lei e dico: Se per aventura incontra che tu vadi là dove persone sieno che dubitare ti paiano nella tua ragione, non ti smarrire, ma dì loro: Poi che non vedete la mia bontade, ponete mente almeno la mia bellezza.  Che non voglio in ciò altro dire, secondo che è detto di sopra, se non: O uomini, che vedere non potete la sentenza di questa canzone, non la rifiutate però; ma ponete mente la sua bellezza, che è grande sì per [la] construzione, la quale si pertiene alli gramatici, sì per l’ordine del sermone, che si pertiene alli rettorici, sì per lo numero delle sue parti, che si pertiene alli musici. Le quali cose in essa si possono belle vedere, per chi ben guarda.

 E questa è tutta la litterale sentenza della prima canzone, che è per prima vivanda intesa innanzi.

XII. Poi che la litterale sentenza è sufficientemente dimostrata, è da procedere alla esposizione allegorica e vera. E però, principiando ancora da capo, dico che, come per me fu perduto lo primo diletto della mia anima, dello quale fatta è menzione di sopra, io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non mi valeva alcuno.

 Tuttavia, dopo alquanto tempo, la mia mente, che si argomentava di sanare, provide, poi che né ’l mio né l’altrui consolare valea, ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi; e misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s’avea.  E udendo ancora che Tulio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando dell’Amistade, avea toccate parole della consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, nella morte di Scipione amico suo, misimi a leggere quello.  E avegna che duro mi fosse nella prima entrare nella loro sentenza, finalmente v’entrai tanto entro, quanto l’arte di gramatica ch’io avea e un poco di mio ingegno potea fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea, sì come nella Vita Nova si può vedere.

 E sì come essere suole che l’uomo va cercando argento e fuori della ’ntenzione truova oro, lo quale occulta cagione presenta; non forse sanza divino imperio, io, che cercava di consolar me, trovai non solamente alle mie lagrime rimedio, ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa.  Ed imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se non misericordioso; per che sì volentieri lo senso di vero la mirava, che appena lo potea volgere da quella.  E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti; sì che in picciolo tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire della sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero.

 Per che io, sentendomi levare dal pensiero del primo amore alla vertù di questo, quasi maravigliandomi apersi la bocca nel parlare della proposta canzone, mostrando la mia condizione sotto figura d’altre cose: però che della donna di cu’ io m’innamorava non era degna rima di volgare alcuna palesemente poetare; né li uditori erano tanto bene disposti che avessero sì leggiere le [non] fittizie parole apprese; né sarebbe data [per] loro fede alla sentenza vera come alla fittizia, però che di vero si credea del tutto che disposto fosse a quello amore, che non si credeva di questo.  Cominciai dunque a dire:

Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete.

E perché, sì come detto è, questa donna fu figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima Filosofia, è da vedere chi furono questi movitori, e questo terzo cielo. E prima [dirò] del cielo, secondo l’ordine trapassato.  E non è qui mestiere di procedere dividendo e a littera esponendo; ché, volta [la] parola fittizia di quello ch’ella suona in quello ch’ella ’ntende, per la passata esposizione questa sentenza fia sufficientemente palese.

XIII. A vedere quello che per lo terzo cielo s’intende, prima si vuole vedere che per questo solo vocabulo ‘cielo’ io voglio dire; e poi si vedrà come e perché questo terzo cielo ci fu mestiere.

 Dico che per cielo io intendo la scienza e per li cieli le scienze, e per tre similitudini che li cieli hanno colle scienze massimamente, e per l’ordine e numero in che paiono convenire, sì come trattando quello vocabulo, cioè ‘terzo’, si vedrà.

 La prima similitudine si è la revoluzione dell’uno e dell’altro intorno a uno suo immobile. Ché ciascuno cielo mobile si volge intorno al suo centro, lo quale, quanto per lo suo movimento, non si muove; e così ciascuna scienza si muove intorno al suo subietto, lo quale essa non muove, però che nulla scienza dimostra lo propio subietto, ma suppone quello.

 La seconda similitudine si è lo illuminare dell’uno e dell’altro: ché ciascuno cielo illumina le cose visibili, [e] così ciascuna scienza illumina le intelligibili.

 E la terza similitudine si è lo inducere perfezione nelle disposte cose. Della quale induzione, quanto alla prima perfezione, cioè della generazione sustanziale, tutti li filosofi concordano che li cieli siano cagione, avegna che diversamente questo pongano: quali dalli motori, sì come Plato, Avicenna e Algazel; quali da esse stelle, spezialmente l’anime umane, sì come Socrate, e anche Plato e Dionisio Academico; e quali da vertude celestiale che è nel calore naturale del seme, sì come Aristotile e li altri Peripatetici.  Così della induzione della perfezione seconda le scienze sono cagione in noi; per l’abito delle quali potemo la veritade speculare, che è ultima perfezione nostra, sì come dice lo Filosofo nel sesto dell’Etica, quando dice che ’l vero è lo bene dello ’ntelletto. Per queste, con altre similitudini molte, si può la scienza ‘cielo’ chiamare.

 Ora perché ‘terzo’ cielo si dica è da vedere. A che è mestiere fare considerazione sovra una comparazione che è nell’ordine delli cieli a quello delle scienze. Sì come adunque di sopra è narrato, li sette cieli primi a noi sono quelli delli pianeti; poi sono due cieli sopra questi, mobili, e uno sopra tutti, quieto.  Alli sette primi rispondono le sette scienze del Trivio e del Quadruvio, cioè Gramatica, Dialetica, Rettorica, Arismetrica, Musica, Geometria e Astrologia. All’ottava spera, cioè alla stellata, risponde la scienza naturale, che Fisica si chiama, e la prima scienza, che si chiama Metafisica; alla nona spera risponde la Scienza morale; ed al cielo quieto risponde la scienza divina, che è Teologia appellata. E [la] ragione per che ciò sia, brievemente è da vedere.

 Dico che ’l cielo della Luna colla Gramatica si somiglia, perché ad esso si può comparare [per due propietadi]. Ché se la Luna si guarda bene, due cose si veggiono in essa propie, che non si veggiono nell’altre stelle. L’una si è l’ombra che è in essa, la quale non è altro che raritade del suo corpo, alla quale non possono terminare li raggi del sole e ripercuotersi così come nell’altre parti; l’altra si è la variazione della sua luminositade, ché ora luce da uno lato e ora luce da un altro, secondo che lo sole la vede.  E queste due propietadi hae la Gramatica: ché per la sua infinitade li raggi della ragione in essa non si terminano, in parte spezialmente delli vocabuli; e luce or di qua or di là, in tanto [in] quanto certi vocabuli, certe declinazioni, certe construzioni sono in uso che già non furono, e molte già furono che ancor saranno: sì come dice Orazio nel principio della Poetria, quando dice: "Molti vocabuli rinasceranno che già caddero".

 E lo cielo di Mercurio si può comparare alla Dialetica per due propietadi: ché Mercurio è la più picciola stella del cielo, ché la quantitade del suo diametro non è più che di dugento trentadue miglia, secondo che pone Alfagrano, che dice quello essere delle ventotto parti l’una del diametro della terra, lo quale è sei milia cinquecento miglia. L’altra propietade si è che più va velata delli raggi del Sole che null’altra stella.  E queste due propietadi sono nella Dialetica: ché la Dialetica è minore in suo corpo che null’altra scienza, ché perfettamente è compilata e terminata in quello tanto testo che nell’Arte vecchia e nella Nuova si truova; e va più velata che nulla scienza, in quanto procede con più sofistici e probabili argomenti che altra.

 E lo cielo di Venere si può comparare alla Rettorica per due propietadi: l’una si è la chiarezza del suo aspetto, ché è soavissima a vedere più che altra stella; l’altra si è la sua apparenza or da mane or da sera.  E queste due propietadi sono nella Rettorica: ché la Rettorica è soavissima di tutte l’altre scienze, però che a ciò principalmente intende; [e] appare da mane quando dinanzi dal viso dell’uditore lo rettorico parla; appare da sera, cioè retro, quando da lettera, per la parte remota, si parla per lo rettorico.

 E lo cielo del Sole si può comparare all’Arismetrica per due propietadi: l’una si è che del suo lume tutte l’altre stelle s’informano; l’altra si è che l’occhio nol può mirare.  E queste due propietadi sono nell’Arismetrica: ché del suo lume tutte s’illuminano le scienze, però che li loro subietti sono tutti sotto alcuno numero considerati, e nelle considerazioni di quelli sempre con numero si procede.  Sì come nella Scienza naturale è subietto lo corpo mobile, lo quale corpo mobile ha in sé ragione di continuitade, e questa ha in sé ragione di numero infinito; e la sua ([cioè] della Naturale scienza) considerazione principalissima è considerare li principii delle cose naturali, li quali sono tre, cioè materia, privazione e forma, nelli quali si vede questo numero.  Non solamente in tutti insieme, ma ancora in ciascuno è numero, chi ben considera sottilmente; per che Pittagora, secondo che dice Aristotile nel primo della Fisica, poneva i principii delle cose naturali [essere] lo pari e lo dispari, considerando tutte le cose essere numero.  L’altra propietade del Sole ancor si vede nel numero, del quale è l’Arismetrica: ché l’occhio dello ’ntelletto nol può mirare; però che ’l numero, quanto è in sé considerato, è infinito, e questo non potemo noi intendere.

 E lo cielo di Marte si può comparare alla Musica per due propietadi: l’una si è la sua più bella relazione: ché, annumerando li cieli mobili, da qualunque si comincia, o dall’infimo o dal sommo, esso cielo di Marte è lo quinto, esso è lo mezzo di tutti, cioè delli primi, delli secondi, delli terzi e delli quarti.  L’altra si è che esso Marte, [secondo che dice Tolomeo nel Quadripartito], disecca e arde le cose, perché lo suo calore è simile a quello del fuoco; e questo è quello per che esso pare affocato di colore, quando più e quando meno, secondo la spessezza e raritade delli vapori che ’l seguono: li quali per loro medesimi molte volte s’accendono, sì come nel primo della Metaura è diterminato.  E però dice Albumasar che l’accendimento di questi vapori significa morte di regi e transmutamento di regni, però che sono effetti della segnoria di Marte. E Seneca dice però, che nella morte d’Augusto imperadore vide in alto una palla di fuoco; e in Fiorenza, nel principio della sua destruzione, veduta fue nell’aere, in figura d’una croce, grande quantità di questi vapori seguaci della stella di Marte.  E queste due propietadi sono nella Musica: la quale è tutta relativa, sì come si vede nelle parole armonizzate e nelli canti, de’ quali tanto più dolce armonia resulta quanto più la relazione è bella: la quale in essa scienza massimamente è bella, perché massimamente in essa s’intende.  Ancora: la Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione: sì e l’anima intera, quando l’ode, e la virtù di tutti quasi corre allo spirito sensibile che riceve lo suono.

 E lo cielo di Giove si può comparare alla Geometria per due propietadi: l’una si è che muove tra due cieli repugnanti alla sua buona temperanza, sì come quello di Marte e quello di Saturno; onde Tolomeo dice, nello allegato libro, che Giove è stella di temperata complessione in mezzo della freddura di Saturno e dello calore di Marte.  L’altra si è che intra tutte le stelle bianca si mostra, quasi argentata. E queste [due] cose sono nella scienza della Geometria. La Geometria si muove intra due repugnanti a essa, sì come tra ’l punto e lo cerchio - e dico ‘cerchio’ largamente ogni ritondo, o corpo o superficie -; ché, sì come dice Euclide, lo punto è principio di quella; e secondo che dice, lo cerchio è perfettissima figura in quella, che conviene però avere ragione di fine.  Sì che tra ’l punto e lo cerchio sì come tra principio e fine si muove la Geometria, e questi due alla sua certezza repugnano: ché lo punto per la sua indivisibilitade è immensurabile, e lo cerchio per lo suo arco è impossibile a quadrare perfettamente, e però è impossibile a misurare a punto. E ancora: la Geometria è bianchissima, in quanto è sanza macula d’errore e certissima per sé e per la sua ancella, che si chiama Perspettiva.

 E lo cielo di Saturno hae due propietadi per le quali si può comparare all’Astrologia: l’una si è la tardezza del suo movimento per [li] dodici segni, ché ventinove anni e più, secondo le scritture delli astrologi, vuole di tempo lo suo cerchio; l’altra si è che sopra tutti li altri pianeti esso è alto.  E queste due propietadi sono nell’Astrologia: ché nel suo cerchio compiere, cioè nello aprendimento di quella, volge grandissimo spazio di tempo, sì per le sue [dimostrazioni], che sono più che d’alcuna delle sopra dette scienze, sì per la esperienza che a bene giudicare in essa si conviene.  E ancora: è altissima di tutte l’altre; però che, sì come dice Aristotile nel cominciamento dell’Anima, la scienza è alta di nobilitade per la nobilitade del suo subietto e per la sua certezza; e questa più che alcuna delle sopra dette è nobile e alta per nobile e alto subietto, ch’è dello movimento del cielo; e alta e nobile per la sua certezza, la quale è sanza ogni difetto, sì come quella che da perfettissimo e regolatissimo principio viene. E se difetto in lei si crede per alcuno, non è dalla sua parte, ma, sì come dice Tolomeo, è per la negligenza nostra, e a quella si dee imputare.

XIV. Apresso le comparazioni fatte delli sette primi cieli, è da procedere alli altri, che sono tre, come più volte s’è narrato. Dico che lo Cielo stellato si puote comparare alla Fisica per tre propietadi, e alla Metafisica per altre tre: ch’ello ci mostra di sé due visibili cose, sì come le molte stelle e sì come la Galassia, cioè quello bianco cerchio che lo vulgo chiama la Via di Sa’ Iacopo; e mostraci l’uno delli poli, e l’altro [ci] tiene ascoso; e mostraci uno suo movimento da oriente ad occidente, e un altro, che fa da occidente ad oriente, quasi ci tiene ascoso. Per che per ordine è da vedere prima la comparazione della Fisica, e poi quella della Metafisica.

 Dico che lo Cielo stellato ci mostra molte stelle: ché, secondo che li savi d’Egitto hanno veduto, infino all’ultima stella che appare loro in meridie, mille ventidue corpora di stelle pongono, di cu’ io parlo. E di questo ha esso grandissima similitudine colla Fisica, se bene si guardano sottilmente questi tre numeri, cioè due e venti e mille.  Ché per lo due s’intende lo movimento locale, lo quale è da uno punto ad un altro di necessitade. E per lo venti [si] significa lo movimento dell’alterazione: ché, con ciò sia cosa che dal diece in sù non si vada se non esso diece alterando colli altri nove e con se stesso, e la più bella alterazione che esso riceva sia la sua di se medesimo, e la prima che riceve sia venti, ragionevolemente per questo numero lo detto movimento [si] significa.  E per lo mille [si] significa lo movimento del crescere: ché in nome, cioè questo ‘mille’, è lo maggiore numero, e più crescere non si può se non questo multiplicando. E questi tre movimenti soli mostra la Fisica, sì come nel quinto del primo suo libro è provato.

 E per la Galassia ha questo cielo similitudine grande colla Metafisica. Per che è da sapere che di quella Galassia li filosofi hanno avute diverse oppinioni. Ché li Pittagorici dissero che ’l Sole alcuna fiata errò nella sua via e, passando per altre parti non convenienti allo suo fervore, arse lo luogo per lo quale passò, e rimasevi quella apparenza dell’arsura; e credo che si mossero dalla favola di Fetonte, la quale narra Ovidio nel principio del [secondo del] suo Metamorfoseos.  Altri dissero, sì come fu Anassagora e Democrito, che [......... che] ciò era lume di sole ripercusso in quella parte, [...........................] e queste oppinioni con ragioni dimostrative riprovaro.  Quello che Aristotile si dicesse, non si può bene sapere, di ciò, però che la sua sentenza non si truova cotale nell’una translazione come nell’altra. E credo che fosse lo errore delli translatori: ché nella Nova pare dicere che ciò sia uno ragunamento di vapori sotto le stelle di quella parte, che sempre traggono quelli; e questa non pare essere ragione vera. Nella Vecchia dice che la Galassia non è altro che moltitudine di stelle fisse in quella parte, tanto picciole che distinguere di qua giù non le potemo, ma di loro apparisce quello albore lo quale noi chiamiamo Galassia; e puote essere, ché lo cielo in quella parte è più spesso, e però ritiene e ripresenta quello lume. E questa oppinione pare avere, con Aristotile, Avicenna e Tolomeo.

 Onde, con ciò sia cosa che la Galassia sia uno effetto di quelle stelle le quali non potemo vedere, se non per lo effetto loro intendiamo quelle cose, e la Metafisica tratti delle prime sustanze, le quali noi non potemo simigliantemente intendere se non per li loro effetti, manifesto è che lo Cielo stellato ha grande similitudine colla Metafisica.

 Ancora: per lo polo che vedemo significa le cose sensibili, delle quali, universalmente pigliandole, tratta la Fisica; e per lo polo che non vedemo significa le cose che sono sanza materia, che non sono sensibili, delle quali tratta la Metafisica: e però ha lo detto cielo grande similitudine coll’una scienza e coll’altra.

 Ancora: per li due movimenti significa queste due scienze. Ché per lo movimento nello quale ogni die si rivolve e fa nova circulazione di punto a punto, significa le cose naturali corruttibili, che cotidianamente compiono loro via, e la loro materia si muta di forma in forma: e di queste tratta la Fisica.  E per lo movimento quasi insensibile che fa da occidente in oriente per uno grado in cento anni, significa le cose incorruttibili, le quali ebbero da Dio cominciamento di creazione e non averanno fine: e di queste tratta la Metafisica.  Però dico che questo movimento significa quelle, che essa circulazione cominciò e non averebbe fine; ché fine della circulazione è reddire ad uno medesimo punto, al quale non tornerà questo cielo secondo questo movimento. Ché dal cominciamento del mondo poco più della sesta parte è vòlto; e noi siamo già nell’ultima etade del secolo ed atendemo veracemente la consumazione del celestiale movimento.

 E così è manifesto che lo Cielo stellato per molte propietadi si può comparare alla Fisica e alla Metafisica.

 Lo Cielo cristallino, che per Primo Mobile dinanzi è contato, ha comparazione assai manifesta alla Morale Filosofia: ché [la] Morale Filosofia, secondo che dice Tommaso sopra lo secondo dell’Etica, ordina noi all’altre scienze.  Ché, sì come dice lo Filosofo nel quinto dell’Etica, la giustizia legale ordina le scienze ad apprendere, e comanda, perché non siano abandonate, quelle essere apprese e amaestrate; [e] così lo detto cielo ordina col suo movimento la cotidiana revoluzione di tutti li altri, per la quale ogni die tutti quelli ricevono [e piovono] qua giù la vertù di tutte le loro parti.  Ché se la revoluzione di questo non ordinasse ciò, poco di loro vertù qua giù verrebbe o di loro vista. Onde, pognamo che possibile fosse questo nono cielo non muovere, la terza parte del Cielo [stellato] sarebbe ancora non veduta in ciascuno luogo della terra; e Saturno sarebbe quattordici anni e mezzo a ciascuno luogo della terra celato, e Giove sei anni quasi si celerebbe, e Marte uno anno quasi, e lo Sole centottandue die e quattordici ore (dico die, cioè tanto tempo quanto misurano cotanti die), e Venere e Mercurio quasi come lo Sole si celerebbe e mosterrebbe, e la Luna per tempo di quattordici die e mezzo starebbe ascosa ad ogni gente.  E da vero non sarebbe quaggiù generazione né vita d’animale o di pianta; notte non sarebbe né die, né settimana né mese né anno, ma tutto l’universo sarebbe disordinato, e lo movimento delli altri sarebbe indarno.  E non altrimenti, cessando la Morale Filosofia, l’altre scienze sarebbero celate alcuno tempo, e non sarebbe generazione né vita di felicitade, e indarno sarebbero scritte e per antico trovate. Per che assai è manifesto, questo cielo [in] sé avere alla Morale Filosofia comparazione.

 Ancora: lo Cielo empireo per la sua pace simiglia la divina scienza, che piena è di tutta pace: la quale non soffera lite alcuna d’oppinioni o di sofistici argomenti, per la eccellentissima certezza del suo subietto, lo quale è Dio. E di questa dice esso alli suoi discepoli: "La pace mia do a voi, la pace mia lascio a voi", dando e lasciando a loro la sua dottrina, che è questa scienza di cu’ io parlo.  Di costei dice Salomone: "Sessanta sono le regine, e ottanta l’amiche concubine; e delle ancille adolescenti non è numero: una è la colomba mia e la perfetta mia". Tutte scienze chiama regine e drude e ancille; e questa chiama colomba, perché è sanza macula di lite, e questa chiama perfetta perché perfettamente ne fa il vero vedere nel quale si cheta l’anima nostra.

 E però, ragionata così la comparazione delli cieli alle scienze, vedere si può che per lo terzo cielo io intendo la Rettorica, la quale al terzo cielo è simigliata, come di sopra pare.

XV. Per le ragionate similitudini si può vedere chi sono questi movitori a cu’ io parlo. Ché sono di quella movitori, sì come Boezio e Tulio, li quali colla dolcezza di loro sermone inviarono me, come detto è di sopra, nello amore, cioè nello studio, di questa donna gentilissima Filosofia, colli raggi della stella loro, la quale è la scrittura di quella: onde in ciascuna scienza la scrittura è stella piena di luce, la quale quella scienza dimostra.  E manifesto questo, vedere si può la vera sentenza del primo verso della canzone proposta, per la esposizione fittizia e litterale.

 E per questa medesima esposizione si può lo secondo verso intendere sofficientemente, infino a quella parte dove dice:

Questi mi face una donna guardare.

Ove si vuole sapere che questa donna è la Filosofia; la quale veramente è donna piena di dolcezza, ornata d’onestade, mirabile di savere, gloriosa di libertade, sì come nel terzo trattato, dove la sua nobilitade si tratterà, fia manifesto.

 E là dove dice:

Chi veder vuol la salute,

faccia che li occhi d’esta donna miri:

li occhi di questa donna sono le sue dimostrazioni, le quali, dritte nelli occhi dello ’ntelletto, innamorano l’anima liberata nelle [sue] condizioni. O dolcissimi ed ineffabili sembianti, e rubatori subitani della mente umana, che nelle dimostrazioni, [cioè] nelli occhi della Filosofia apparite, quando essa colli suoi drudi ragiona! Veramente in voi è la salute, per la quale si fa beato chi vi guarda, e [si] salva dalla morte della ignoranza e dalli vizii.

 Ove si dice:

sed e’ non teme angoscia di sospiri,

qui si vuole intendere: s’elli non teme labore di studio e lite di dubitazioni, le quali dal principio delli sguardi di questa donna multiplicatamente surgono, e poi, continuando la sua luce, caggiono quasi come nebulette matutine alla faccia del sole; e rimane libero e pieno di certezza lo familiare intelletto, sì come l’aere dalli raggi meridiani purgato e illustrato.

 Lo terzo verso ancora s’intende per la esposizione litterale infino là dove dice: "L’anima piange". Qui si vuole bene attendere ad alcuna moralitade, la quale in queste parole si può notare: che non dee l’uomo, per maggiore amico, dimenticare li servigi ricevuti dal minore; ma se pur seguire si conviene l’uno e lasciare l’altro, lo migliore è da seguire, con alcuna onesta lamentanza l’altro abandonando, nella quale dà cagione, a quello che segue, di più amore.

 Poi dove dice: "Delli occhi miei", non vuole altro dire se non che forte fu l’ora che la prima dimostrazione di questa donna entrò nelli occhi dello ’ntelletto mio, la quale fu cagione di questo innamoramento propinquissima.

 E là dove dice: "le mie pari", s’intende l’anime libere dalle misere e vili dilettazioni e dalli vulgari costumi, d’ingegno e di memoria dotate.

 E dice poi: "ancide"; e dice poi: "son morta": che pare contro a quello che detto è di sopra della salute di questa donna. E però è da sapere che qui parla l’una delle parti, e là parla l’altra: le quali diversamente litigano, secondo che di sopra è manifesto. Onde non è maraviglia se là dice ‘sì’, e qui dice ‘no’, se bene si guarda chi discende e chi sale.

 Poi nel quarto verso, dove dice: "uno spiritel d’amore", s’intende uno pensiero che nasce del mio studio. Onde è da sapere che per amore, in questa allegoria, sempre s’intende esso studio, lo quale è applicazione dell’animo innamorato della cosa a quella cosa.

 Poi quando dice:

tu vedrai

di sì alti miracoli addornezza,

annunzia che per lei si vedranno li addornamenti delli miracoli: e vero dice, ché li addornamenti delle maraviglie è vedere le cagioni di quelle; le quali ella dimostra, sì come nel principio della Metafisica pare sentire lo Filosofo, dicendo che per questi addornamenti vedere cominciaro li uomini ad innamorare di questa donna. E di questo vocabulo, cioè ‘maraviglia’, nel seguente trattato più pienamente si parleràe.

 Tutto l’altro che segue poi di questa canzone, sofficientemente è per l’altra esposizione manifesto. E così, in fine di questo secondo trattato, dico e affermo che la donna di cu’ io innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia dello Imperadore dell’universo, alla quale Pittagora puose nome Filosofia.

 E qui si termina lo secondo trattato, che [è ordinato a sponere la canzone che] per prima vivanda è messa innanzi.

TRATTATO TERZO

CANZONE SECONDA

Amor che nella mente mi ragiona

della mia donna disïosamente,

move cose di lei meco sovente,

che lo ’ntelletto sovr’esse disvia.

Lo suo parlar sì dolcemente sona,

che l’anima ch’ascolta e che lo sente

dice: "Oh me lassa! ch’io non son possente

di dir quel ch’odo della donna mia!".

E certo e’ mi convien lasciare in pria,

s’io vo’ trattar di quel ch’odo di lei,

ciò che lo mio intelletto non comprende;

e di quel che s’intende

gran parte, perché dirlo non savrei.

Dunque, se le mie rime avran difetto

ch’entreran nella loda di costei,

di ciò si biasmi il debole intelletto

e ’l parlar nostro, che non ha valore

di ritrar tutto ciò che dice Amore.

Non vede il sol, che tutto ’l mondo gira,

cosa tanto gentil, quanto in quell’ora

che luce nella parte ove dimora

la donna di cui dire Amor mi face.

Ogni Intelletto di là su la mira,

e quella gente che qui s’innamora

ne’ lor pensieri la truovano ancora,

quando Amor fa sentir della sua pace.

Suo esser tanto a Quei che lel dà piace,

che ’nfonde sempre in lei la sua vertute

oltre il dimando di nostra natura.

La sua anima pura,

che riceve da lui questa salute,

lo manifesta in quel ch’ella conduce:

ché ’n sue bellezze son cose vedute

che li occhi di color dov’ella luce

ne mandan messi al cor pien di disiri,

che prendon aire e diventan sospiri.

In lei discende la vertù divina

sì come face in angelo che ’l vede;

e qual donna gentil questo non crede,

vada con lei e miri li atti sui.

Quivi dov’ella parla, si dichina

un spirito da ciel, che reca fede

come l’alto valor ch’ella possede

è oltre quel che si conviene a nui.

Li atti soavi ch’ella mostra altrui

vanno chiamando Amor ciascuno a prova

in quella voce che lo fa sentire.

Di costei si può dire:

gentile è in donna ciò che in lei si trova,

e bello è tanto quanto lei simiglia.

E puossi dir che ’l suo aspetto giova

a consentir ciò che par maraviglia;

onde la nostra fede è aiutata:

però fu tal da etterno ordinata.

Cose appariscon nello suo aspetto,

che mostran de’ piacer del Paradiso,

dico nelli occhi e nel suo dolce riso,

che le vi reca Amor com’a suo loco.

Elle soverchian lo nostro intelletto

come raggio di sole un frale viso;

e perch’io non le posso mirar fiso,

mi convien contentar di dirne poco.

Sua bieltà piove fiammelle di foco,

animate d’un spirito gentile

ch’è creatore d’ogni penser bono;

e rompon come trono

l’innati vizii che fanno altrui vile.

Però qual donna sente sua bieltate

biasmar per non parer queta e umìle,

miri costei ch’è essemplo d’umiltate!

Questa è colei ch’umilia ogni perverso;

costei pensò chi mosse l’universo.

Canzone, e’ par che tu parli contraro

al dir d’una sorella che tu hai;

ché questa donna che tanto umil fai

ella la chiama fera e disdegnosa.

Tu sai che ’l ciel sempr’è lucente e chiaro,

e quanto in sé non si turba già mai;

ma li nostri occhi per cagioni assai

chiaman la stella talor tenebrosa.

Così, quand’ella la chiama orgogliosa,

non considera lei secondo il vero,

ma pur secondo quel ch’a lei parea;

ché l’anima temea,

e teme ancora, sì che mi par fero

quantunque io veggio là ’v’ella mi senta.

Così ti scusa, se ti fa mestero;

e quando pòi, a lei ti rappresenta:

dirai: "Madonna, s’ello v’è a grato,

io parlerò di voi in ciascun lato".

I. Così come nel precedente trattato si ragiona, lo mio secondo amore prese cominciamento dalla misericordiosa sembianza d’una donna. Lo quale amore poi, trovando la mia disposta vita al suo ardore, a guisa di fuoco, di picciolo in grande fiamma s’accese; sì che non solamente vegghiando, ma dormendo, lume di costei nella mia testa era guidato.  E quanto fosse grande lo desiderio che Amore di vedere costei mi dava, né dire né intendere si potrebbe. E non solamente di lei era così desideroso, ma di tutte quelle persone che alcuna prossimitade avessero a lei, o per familiaritade o per parentela alcuna.  Oh quante notti furono, che li occhi dell’altre persone chiusi dormendo si posavano, che li miei nello abitaculo del mio amore fisamente miravano! E sì come lo multiplicato incendio pur vuole di fuori mostrarsi, ché stare ascoso è impossibile, volontade mi giunse di parlare [d’]amore, la quale del tutto tenere non potea.  E avegna che poca podestade io potesse avere di mio consiglio, pur in tanto, o per volere d’Amore o per mia prontezza, ad esso m’acostai per più fiate, che io deliberai e vidi che, d’amor parlando, più bello né più proficabile sermone non era che quello nel quale si commendava la persona che si amava.

 E a questo deliberamento tre ragioni m’informaro: delle quali l’una fu lo propio amore di me medesimo, lo quale è principio di tutti li altri, sì come vede ciascuno. Ché più licito né più cortese modo di fare a se medesimo altri onore non è, che onorare l’amico. Ché con ciò sia cosa che intra dissimili amistà essere non possa, dovunque amistà si vede, similitudine s’intende; e dovunque similitudine s’intende, corre comune la loda e lo vituperio.  E di questa ragione due grandi amaestramenti si possono intendere: l’uno si è di non volere che alcuno vizioso si mostri amico, perché in ciò si prende oppinione non buona di colui cui amico si fa; l’altro si è che nessuno dee l’amico suo biasimare palesemente, però che a se medesimo dà del dito nell’occhio, se ben si mira la predetta ragione.

 La seconda ragione fu lo desiderio della durazione di questa amistade. Onde è da sapere che, sì come dice lo Filosofo nel nono dell’Etica, nell’amistade delle persone dissimili di stato conviene, a conservazione di quella, una proporzione essere intra loro, che la dissimilitudine a similitudine quasi reduca.  Sì com’è intra lo signore e lo servo: ché, avegna che lo servo non possa simile beneficio rendere allo signore quando da lui è beneficiato, dee però rendere quello che migliore può con tanto [di] sollicitudine e di franchezza, che quello che è dissimile per sé si faccia simile per lo mostramento della buona volontade; la quale manifesta, l’amistade si ferma e si conserva.  Per che io, considerando me minore che questa donna, e veggendo me beneficiato da lei, [propuosi] di lei commendare secondo la mia facultade, la quale, se non simile è per sé, almeno la pronta volontade mostra (ché, se più potesse, più farei), e così [si] fa simile a quella di questa gentil donna.

 La terza ragione fu uno argomento di provedenza: ché, sì come dice Boezio, "non basta di guardare pur quello che è dinanzi alli occhi", cioè lo presente, e però n’è data la provedenza, che riguarda oltre, a quello che può avenire.  Dico che pensai che da molti, di retro da me, forse sarei stato ripreso di levezza d’animo, udendo me essere dal primo amore mutato; per che, a tòrre via questa riprensione, nullo migliore argomento era che dire quale era quella donna che m’avea mutato.  Ché per la sua eccellenza manifesta avere si può considerazione della sua vertude; e per lo ’ntendimento della sua grandissima vertù si può pensare ogni stabilitade d’animo essere a quella mutabile, e però me non giudicare lieve e non stabile.

 Impresi dunque a lodare questa donna, e se non come si convenisse, almeno innanzi quanto io potesse; e cominciai a dire:

Amor che nella mente mi ragiona.

 Questa canzone principalmente ha tre parti. La prima è tutto lo primo verso, nel quale proemialmente si parla. La seconda sono tutti e tre li versi seguenti, nelli quali si tratta quello che dire s’intende, cioè la loda di questa gentile; lo primo delli quali comincia:

Non vede il sol, che tutto ’l mondo gira.

La terza parte è lo quinto e l’ultimo verso, nel quale, dirizzando le parole alla canzone, purgo lei d’alcuna dubitanza. E di queste tre parti per ordine è da ragionare.

II. Faccendomi dunque dalla prima parte, che [per] proemio di questa canzone fu ordinata, dico che dividere in tre parti si conviene. Ché prima si tocca la ineffabile condizione di questo tema; secondamente si narra la mia insufficienza a questo perfettamente trattare: e comincia questa seconda parte:

E certo e’ mi convien lasciare in pria;

ultimamente mi scuso da insufficienza, nella quale non si dee porre a me colpa: e questo comincio quando dico:

Dunque, se le mie rime avran difetto.

 Dice adunque:

Amor che nella mente mi ragiona:

dove principalmente è da vedere chi è questo ragionatore, e che è questo loco nel quale dico esso ragionare.

 Amore, veramente pigliando e sottilmente considerando, non è altro che unimento spirituale dell’anima e della cosa amata: nel quale unimento di propia sua natura l’anima corre tosto e tardi secondo che è libera o impedita.  E la ragione di questa naturalitade può essere questa. Ciascuna forma sustanziale procede dalla sua prima cagione, la quale è Iddio, sì come nel libro Di Cagioni è scritto, e non riceve diversitade per quella, che è simplicissima, ma per le secondarie cagioni e per la materia in che discende. Onde nel medesimo libro si scrive, trattando della infusione della bontà divina: "E fanno[si] diverse le bontadi e i doni per lo concorrimento della cosa che riceve".  Onde, con ciò sia cosa che ciascuno effetto ritegna della natura della sua cagione - sì come dice Alpetragio quando afferma che quello che è causato da corpo circulare n’ha in alcuno modo circulare essere -, ciascuna forma ha essere della divina natura in alcuno modo: non che la divina natura sia divisa e comunicata in quelle, ma da quelle [è] participata, per lo modo quasi che la natura del sole è participata nell’altre stelle.  E quanto la forma è più nobile, tanto più di questa natura tiene: onde l’anima umana, che è forma nobilissima di queste che sotto lo cielo sono generate, più riceve della natura divina che alcun’altra.  E però che naturalissimo è in Dio volere essere - però che, sì come nello allegato libro si legge, "prima cosa è l’essere, e anzi a quello nulla è" -, l’anima umana essere vuole naturalmente con tutto desiderio; e però che ’l suo essere dipende da Dio e per quello si conserva, naturalmente disia e vuole a Dio essere unita per lo suo essere fortificare.  E però che nelle bontadi della natura [e] della ragione si mostra la divina, vène che naturalmente l’anima umana con quelle per via spirituale sé unisce, tanto più tosto e più forte quanto quelle più appaiono perfette: lo quale apparimento è fatto secondo che la conoscenza dell’anima è chiara o impedita. E questo unire è quello che noi dicemo amore, per lo quale si può conoscere quale è dentro l’anima, veggendo di fuori quelli che ama.

 Questo amore, cioè l’unimento della mia anima con questa gentil donna, nella quale della divina luce assai mi si mostrava, è quello ragionatore del quale io dico; poi che da lui continui pensieri nasceano, miranti ed essaminanti lo valore di questa donna che spiritualmente fatta era colla mia anima una cosa.

 Lo loco nel quale dico esso ragionare si è la mente; ma per dire che sia la mente, non si prende di ciò più intendimento che di prima, e però è da vedere che questa mente propiamente significa.

 Dico adunque che lo Filosofo nel secondo dell’Anima, partendo le potenze di quella, dice che l’anima principalmente hae tre potenze, cioè vivere, sentire e ragionare; e dice anche muovere; ma questa si può col sentire fare una, però che ogni anima che sente, o con tutti i sensi o con alcuno solo, si muove: sì che muovere è una potenza congiunta col sentire.

 E secondo che esso dice, è manifestissimo che queste potenze sono intra sé per modo che l’una è fondamento dell’altra; e quella che è fondamento puote per sé essere partita, ma l’altra, che si fonda sopra essa, non può da quella essere partita. Onde la potenza vegetativa, per la quale si vive, è fondamento sopra ’l quale si sente, cioè vede, ode, gusta, odora e tocca; e questa vegetativa potenza per sé puote essere anima, sì come vedemo nelle piante tutte.  La sensitiva sanza quella essere non puote, [e] non si truova [in] alcuna cosa che non viva; e questa sensitiva potenza è fondamento della intellettiva, cioè della ragione: e però nelle cose animate mortali la ragionativa potenza sanza la sensitiva non si truova, ma la sensitiva si truova sanza questa, sì come nelle bestie, nelli uccelli, ne’ pesci e in ogni animale bruto vedemo.  E quella anima che tutte queste potenze comprende, [ed] è perfettissima di tutte l’altre, è l’anima umana, la quale colla nobilitade della potenza ultima, cioè ragione, participa della divina natura a guisa di sempiterna Intelligenza: però che l’anima è tanto in quella sovrana potenza nobilitata e dinudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella: e però è l’uomo divino animale dalli filosofi chiamato.

 In questa nobilissima parte dell’anima sono più vertudi, sì come dice lo Filosofo massimamente nel sesto de l’Etica; dove dice che in essa è una vertù che si chiama scientifica, e una che si chiama ragionativa o vero consigliativa; e con queste sono certe vertudi - sì come in quello medesimo luogo Aristotile dice - sì come la vertù inventiva e [la] giudicativa.  E tutte queste nobilissime vertudi, e l’altre che sono in quella eccellenti[ssim]a potenzia, sì chiama insieme con questo vocabulo, del quale si volea sapere che fosse, cioè mente. Per che è manifesto che per mente s’intende questa ultima e nobilissima parte dell’anima.

 E che ciò fosse lo ’ntendimento, si vede: ché solamente dell’uomo e delle divine sustanze questa mente si predica, sì come per Boezio si puote apertamente vedere, che prima la predica delli uomini, ove dice alla Filosofia: "Tu e Dio, che nella mente [te] delli uomini mise"; poi la predica di Dio, quando dice a Dio: "Tutte le cose produci dallo superno essemplo, tu, bellissimo, bello mondo nella mente portante".  Né mai d’animale bruto predicata fue, anzi di molti uomini, che della parte perfettissima paiono defettivi, non pare potersi né doversi predicare; e però quelli cotali sono chiamati nella gramatica amenti e dementi, cioè sanza mente.

 Onde si puote omai vedere che è mente: che è quella fine e preziosissima parte dell’anima che è deitate. E questo è il luogo dove dico che Amore mi ragiona della mia donna.

III. Non sanza cagione dico che questo amore nella mente mia fa la sua operazione; ma ragionevolemente ciò si dice, a dare a intendere quale amore è questo, per lo loco nel quale adopera.

 Onde è da sapere che ciascuna cosa, come detto è di sopra, per la ragione di sopra mostrata ha ’l suo speziale amore. Ché le corpora simplici hanno amore naturato in sé allo luogo propio, e però la terra sempre discende al centro; lo fuoco ha [amore] [a]lla circunferenza di sopra, lungo lo cielo della luna, e però sempre sale a quella.  Le corpora composte prima, sì come sono le minere, hanno amore allo luogo là dove la loro generazione è ordinata, e in quello crescono e [d]a quello [ricevono] vigore e potenza: onde vedemo la calamita sempre dalla parte della sua generazione ricevere vertù.  Le piante, che sono prima animate, hanno amore a certo luogo più manifestamente, secondo che la complessione richiede; e però vedemo certe piante lungo l’acque quasi cansarsi, e certe sopra li gioghi delle montagne, e certe nelle piagge e da piè de’ monti: le quali se si transmutano, o muoiono del tutto o vivono quasi triste, sì come cose disgiunte dal loro amico. Li animali bruti hanno più manifesto amore non solamente alli luoghi, ma l’uno l’altro vedemo amare.

 Li uomini hanno loro propio amore alle perfette ed oneste cose. E però che l’uomo, avegna che una sola sustanza sia, tutta fia[ta] [la] forma, per la sua nobilitade, ha in sé [e] la natura d’ognuna [di] queste cose, tutti questi amori puote avere e tutti li ha.

 Ché per la natura del simplice corpo che nello subietto signoreggia, naturalmente ama l’andare in giuso; e però quando in sù muove lo suo corpo, più s’afatica.

 Per la natura seconda, del corpo misto, ama lo luogo della sua generazione, e ancora lo tempo; e però ciascuno naturalmente è di più virtuoso corpo nello luogo dove è generato e nel tempo della sua generazione che in altro.  Onde si legge nelle storie d’Ercule e nell’Ovidio Maggiore e in Lucano e in altri poeti che, combattendo [Ercule] collo gigante che si chiamava Anteo, tutte [le] volte che lo gigante era stanco [ed] elli ponea lo suo corpo sovra la terra disteso o per sua volontà o per forza d’Ercule, forza e vigore interamente della terra in lui risurgea, nella quale e della quale era esso generato. Di che acorgendosi Ercule, alla fine prese lui; e stringendo quello e levatolo dalla terra, tanto lo tenne sanza lasciarlo alla terra ricongiugnere, che lo vinse per soperchio e uccise. E questa battaglia fu in Africa, secondo le testimonianze delle scritture.

 E per la natura terza, cioè delle piante, ha l’uomo amore a certo cibo (non in quanto è sensibile, ma in quanto è notribile), e quello cotale cibo fa l’opera di questa natura perfettissima, e l’altro non così, ma falla imperfetta. E però vedemo certo cibo fare li uomini formosi e membruti e bene vivacemente colorati, e certi fare lo contrario di questo.

 E per la natura quarta, delli animali, cioè sensitiva, hae l’uomo altro amore, per lo quale ama secondo la sensibile apparenza, sì come bestia; e questo amore nell’uomo massimamente ha mestiere di rettore per la sua soperchievole operazione, nello diletto massimamente del gusto e del tatto.

 E per la quinta e ultima natura, cioè vera umana o, meglio dicendo, angelica, cioè razionale, ha l’uomo amore alla veritade e alla vertude; e da questo amore nasce la vera e perfetta amistà, dell’onesto tratta, della quale parla lo Filosofo nell’ottavo dell’Etica, quando tratta dell’amistade.

 Onde, acciò che questa natura si chiama mente, come di sopra è mostrato, dissi ‘Amore ragionare nella mente’, per dare ad intendere che questo amore era quello che in quella nobilissima natura nasce, cioè di veritade e di vertude, e per ischiudere ogni falsa oppinione da me, per la quale fosse sospicato lo mio amore essere per sensibile dilettazione. Dico poi "disiosamente", a dare ad intendere la sua continuanza e lo suo fervore.  E dico che ‘move sovente cose che fanno disviare lo ’ntelletto’. E veramente dico; però che li miei pensieri, di costei ragionando, molte fiate voleano cose conchiudere di lei che io non le potea intendere, e smarrivami, sì che quasi parea di fuori alienato: come chi guarda col viso per una retta linea, prima vede le cose prossime chiaramente; poi, procedendo, meno le vede chiare; poi, più oltre, dubita; poi, massimamente oltre procedendo, lo viso disgiunto nulla vede.

 E quest’è l’una ineffabilitade di quello che io per tema ho preso; e consequentemente narro l’altra, quando dico: "Lo suo parlar". E dico che li miei pensieri - che sono parlare d’amore - ‘sonan sì dolci’ che la mia anima, cioè lo mio affetto, arde di potere ciò colla lingua narrare; e perché dire nol posso, dico che l’anima se ne lamenta dicendo:

[Oh me] lassa! ch’io non son possente.

 E questa è l’altra ineffabilitade, cioè che la lingua non è di quello che lo ’ntelletto vede compiutamente seguace. E dico: "l’anima ch’ascolta e che lo sente": ‘ascoltare’ quanto alle parole, e ‘sentire’ quanto alla dolcezza del suono.

IV. Quando ragionate sono le due ineffabilitadi di questa materia, convienesi procedere a ragionare le parole che narrano la mia insufficienza.

 Dico adunque che la mia insufficienza procede doppiamente, sì come doppiamente trascende l’altezza di costei per lo modo che detto è. Ché a me conviene lasciare per povertà d’intelletto molto di quello che è vero di lei, e che quasi nella mia mente raggia, la quale come corpo diafano riceve quello, non terminando: e questo dico in quella seguente particola:

E certo e’ mi convien lasciare in pria.

 Poi quando dico: "e di quel che s’intende", dico che non pur a quello che lo mio intelletto non sostiene, ma eziandio a quello che io intendo sufficientemente, non [sono sufficiente], però che la lingua mia non è di tanta facundia che dire potesse ciò che nel pensiero mio se ne ragiona: per che è da vedere che, a rispetto della veritade, poco fia quello che dirà. E ciò resulta in grande loda di costei, se bene si guarda: nella quale principalmente s’intende. E quella orazione si può dire bene che vegna dalla fabbrica del rettorico, nel[la] quale ciascuna parte pone mano allo principale intento.

 Poi quando dico:

Dunque, se le mie rime avran difetto,

escusomi da una colpa della quale non deggio essere colpato, veggendo altri le mie parole essere minori che la dignitade di questa [donna]; e dico che, se difetto fia nelle mie rime, cioè nelle mie parole che a trattare di costei sono ordinate, di ciò è da biasimare la debilitade dello ’ntelletto e la cortezza del nostro parlare: lo quale [per lo] pensiero è vinto, sì che seguire lui non puote a pieno, massimamente là dove lo pensiero nasce d’amore, perché quivi l’anima profondamente più che altrove s’ingegna.

 Potrebbe dire alcuno: ‘tu scusi [e accusi] te insiememente, ché argomento di colpa è, non purgamento’, in quanto la colpa si dà allo ’ntelletto e al parlare che è mio; ché, sì come, s’elli è buono, io deggio di ciò essere lodato in quanto così [è, così], s’elli è defettivo, deggio essere biasimato.

 A ciò si può brievemente rispondere che non m’acuso, ma scuso veramente. E però è da sapere, secondo la sentenza del Filosofo nel terzo dell’Etica, che l’uomo è degno di loda e di vituperio solo in quelle cose che sono in sua podestà di fare o di non fare; ma in quelle nelle quali non ha podestà, non merita né vituperio né loda, però che l’uno e l’altro è da rendere ad altrui, avegna che le cose siano parte dell’uomo medesimo.  Onde noi non dovemo vituperare l’uomo perché sia del corpo da sua nativitade laido, però che non fu in sua podestà di farsi bello; ma dovemo vituperare la mala disposizione della materia onde esso è fatto, che fu principio del peccato della natura. E così non dovemo lodare l’uomo per biltate che abbia da sua nativitade nello suo corpo, ché non fu ello di ciò fattore; ma dovemo lodare l’artefice, cioè la natura umana, che tanta bellezza produce [nel]la sua materia quando impedita da essa non è.  E però disse bene lo prete allo ’mperadore, che ridea e schernia la laidezza del suo corpo: "Dio è segnore: esso fece noi, e non essinoi"; e sono queste parole del Profeta, in uno verso del Salterio scritte né più né meno come nella risposta del prete. E però veggiamo li cattivi mal nati, che pongono lo studio loro in azzimare la loro [persona, e non curano di ornare la loro] operazione, che dee essere tutta con onestade: che non è altro a fare che ornare l’opera d’altrui ed abandonare la propia.

 Tornando adunque al proposito, dico che nostro intelletto, per difetto della virtù dalla quale trae quello ch’el vede, che è virtù organica, cioè la fantasia, non puote a certe cose salire (però che la fantasia nol puote aiutare, ché non ha lo di che), sì come sono le sustanze partite da materia; le quali, etsi alcuna considerazione di quelle avere potemo, intendere non le potemo né comprendere perfettamente.  E di ciò non è l’uomo da biasimare, ché non esso, dico, fue di questo difetto fattore, anzi fece ciò la natura universale, cioè Dio, che volse in questa vita privare noi da questa luce; che, perché elli lo si facesse, presuntuoso sarebbe a ragionare.  Sì che, se la mia considerazione mi transportava in parte dove la fantasia venia meno allo ’ntelletto, se io non potea intendere, non sono da biasimare.

 Ancora: è posto fine al nostro ingegno in ciascuna sua operazione, non da noi ma dall’universale natura; e però è da sapere che più ampî sono li termini dello ’ngegno [a pensare] che a parlare, e più ampî a parlare che ad accennare. Dunque, se ’l pensiero nostro, non solamente quello che a perfetto intelletto non vène ma eziandio quello che a perfetto intelletto si termina, è vincente del parlare, non semo noi da biasimare, però che non semo di ciò fattori.  E però manifesto me veramente scusare quando dico:

di ciò si biasmi il debole intelletto

e ’l parlar nostro, che non ha valore

di ritrar tutto ciò che dice Amore:

ché assai si dee chiaramente vedere la buona volontade, alla quale avere si dee rispetto nelli meriti umani.

 E così omai s’intenda la prima parte principale di questa canzone che corre mo per mano.

V. Quando, ragionando per la prima parte, aperta è la sentenza di quella, procedere si conviene alla seconda; della quale, per meglio vedere, tre parti se ne vogliono fare, secondo che in tre versi si comprende. Ché nella prima parte io commendo questa donna interamente e comunemente sì nell’anima come nel corpo; nella seconda discendo a laude speziale dell’anima; nella terza a laude speziale del corpo.  La prima parte comincia:

Non vede il sol, che tutto ’l mondo gira;

la seconda comincia:

In lei discende la virtù divina;

la terza comincia:

Cose appariscon nello suo aspetto;

e queste parti secondo ordine sono da ragionare.

 Dice adunque:

Non vede il sol, che tutto ’l mondo gira:

dove è da sapere, a perfetta intelligenza avere, come lo mondo dal sole è girato. Prima dico che per lo mondo io non intendo qui tutto ’l corpo dell’universo, ma solamente questa parte del mare e della terra, seguendo la volgare voce, ché così s’usa chiamare: onde dice alcuno: ‘quelli hae tutto lo mondo veduto’, dicendo parte del mare e della terra.

 Questo mondo volse Pittagora e li suoi seguaci dicere che fosse una delle stelle, e che un’altra a lei fosse opposita, così fatta, e chiamava quella Anticthona; e dicea ch’erano ambe in una spera che si volvea da occidente in oriente (e per questa revoluzione si girava lo sole intorno a noi, e ora si vedea e ora non si vedea).  E dicea che ’l fuoco era nel mezzo di queste, ponendo quello essere più nobile corpo che l’acqua e che la terra, e ponendo lo mezzo nobilissimo intra li luoghi delli quattro corpi simplici: e però dicea che ’l fuoco, quando parea salire, secondo lo vero al mezzo discendea.

 Platone fu poi d’altra oppinione, e scrisse in uno suo libro che si chiama Timeo, che la terra col mare era bene lo mezzo di tutto, ma che ’l suo tondo tutto si girava a torno al suo centro seguendo lo primo movimento del cielo; ma tardi molto, per la sua grossa materia e per la massima distanza da quello.

 Queste oppinioni sono riprovate per false nel secondo Di Cielo e Mondo da quello glorioso filosofo al quale la natura più aperse li suoi segreti; e per lui quivi è provato, questo mondo, cioè la terra, stare in sé stabile e fissa in sempiterno. E le sue ragioni, che Aristotile dice a rompere costoro ed affermare la veritade, non è mia intenzione qui narrare, perché assai basta alla gente a cu’ io parlo, per la sua grande autoritade sapere che questa terra è fissa e non si gira, e che essa col mare è centro del cielo.

 Questo cielo si gira intorno a questo centro continuamente, sì come noi vedemo: nella cui girazione conviene di necessitade essere due poli fermi, e uno cerchio equalmente distante da quelli, che massimamente giri. Di questi due poli, l’uno è manifesto quasi a tutta la terra discoperta, cioè questo settentrionale; l’altro è quasi a tutta la discoperta terra celato, cioè lo meridionale. Lo cerchio che nel mezzo di questi s’intende, si è quella parte del cielo sotto la quale si gira lo sole, quando va coll’Ariete e colla Libra.

 Onde è da sapere che se una pietra potesse cadere da questo nostro polo, ella caderebbe là oltre nel mare Occeano, a punto in su quel dosso del mare dove se fosse uno uomo, la stella [li] sarebbe sempre in sul mezzo del capo. E credo che da Roma a questo luogo, andando diritto per tramontana, sia spazio quasi di dumilia se[tte]cento miglia, o poco dal più al meno.  Imaginando adunque, per meglio vedere, [che] in questo luogo ch’io dissi sia una cittade e abbia nome Maria, dico ancora che se dall’altro polo, cioè meridionale, cadesse una pietra, ch’ella caderebbe in su quel dosso del mare Occeano ch’è a punto in questa palla opposito a Maria. E credo che da Roma là dove caderebbe questa seconda pietra, diritto andando per mezzogiorno, sia spazio di settemilia cinquecento miglia, [o] poco dal più al meno.  E qui[vi] imaginiamo un’altra cittade, che abbia nome Lucia. Èli, tra l’una e l’altra, mezzo lo cerchio di tutta questa palla, ed ispazio, da qualunque lato si tira la corda, di diecemilia dugento miglia, sì che li cittadini di Maria tengono le piante contra le piante di quelli di Lucia.

 Imaginisi anche uno cerchio in su questa palla, che sia in ciascuna parte sua tanto lungi da Maria quanto da Lucia. Credo che questo cerchio - secondo ch’io comprendo per le sentenze delli astrologi e per quella d’Alberto della Magna nel libro della Natura dei luoghi e [in quello] delle Propietadi delli elementi, e anco per la testimonianza di Lucano nel nono suo libro - dividerebbe questa terra discoperta dal mare Occeano, là nel mezzo die, quasi per tutta l’estremità del primo climate, dove sono intra l’altre genti li Garamanti, che stanno sempre quasi nudi; alli quali venne Catone col popolo di Roma, la segnoria di Cesare fuggendo.

 Segnati questi tre luoghi sopra questa palla, leggiermente si può vedere come lo sole la gira. Dico adunque che ’l cielo del sole si rivolge da occidente in oriente, non dirittamente contra lo movimento diurno, cioè del die e della notte, ma tortamente contra quello; sì che ’l suo mezzo cerchio, che equalmente è ’n tra li suoi poli, nel quale è lo corpo del sole, sega in due parti opposite lo [mezzo] cerchio delli due primi poli, cioè nel principio dell’Ariete e nel principio della Libra, e partesi per due archi da esso, uno ver settentrione e un altro ver mezzogiorno. Li punti [di mezzo] delli quali archi si dilungano equalmente dal primo cerchio, da ogni parte, per ventitré gradi e uno punto più; e l’uno punto è lo principio del Cancro, e l’altro è lo principio del Capricorno.

 Però conviene che Maria veggia nel principio dell’Ariete, quando lo sole va sotto lo mezzo cerchio delli primi [due] poli, esso sole gira[r] lo mondo intorno giù alla terra o vero al mare, come una mola del[la] quale non paia più che mezzo lo corpo suo; e questa veggia venire montando a guisa d’una vite d’un torno, tanto che compia novanta e una rota e poco più.  E quando queste rote sono compiute, lo suo montare è a Maria quasi tanto quanto esso monta a noi nella mezza terra, ched è ’l giorno della mezza notte iguale. E se uno uomo fosse dritto in Maria e sempre al sole volgesse lo viso, vedrebbesi quello andare ver lo braccio destro.  Poi per la medesima via par discendere altre novanta e una rota e poco più, tanto ch’elli gira intorno giù alla terra o vero al mare, sé non tutto mostrando; e poi si cela, e comincialo a vedere Lucia, la quale montare e discendere intorno sé allor [lo] vede con altrettante rote quante vede Maria. E se uno uomo fosse in Lucia dritto, sempre che volgesse la faccia in ver lo sole, vedrebbe quello andarsi nello braccio sinistro.  Per che si può vedere che questi luoghi hanno un dì l’anno di sei mesi, e una notte d’altrettanto tempo; e quando l’uno ha lo giorno, l’altro ha la notte.

 Conviene anche che lo cerchio dove sono li Garamanti, come detto è, in su questa palla, veggia lo sole a punto sopra sé girare, non a modo di mola, ma di rota; la quale non può in alcuna parte vedere se non mezza, quando va sotto l’Ariete. E poi lo vede partire da sé e venire verso Maria novanta e uno die e poco più, e per altrettanti a sé tornare; e poi, quando è tornato, va sotto la Libra, e anche si parte e va ver Lucia novanta e uno die e poco più, e in altrettanti ritorna.  E questo luogo lo quale tutta la palla cerchia, sempre ha lo die iguale colla notte, o di qua o di là che ’l sole li vada; e due volte l’anno ha la state grandissima di calore, e due piccioli verni.

 Conviene anche che li due spazii che sono in mezzo delle due cittadi imaginate e [del]lo cerchio del mezzo, veggiano lo sole disvariatamente, secondo che sono remoti e propinqui [a] questi luoghi: sì come omai, per quello che detto è, puote vedere chi ha nobile ingegno, al quale è bello un poco di fatica lasciare.

 Per che vedere omai si puote che per lo divino provedimento lo mondo è sì ordinato che, volta la spera del sole e tornata ad uno punto, questa palla dove noi siamo in ciascuna parte di sé riceve tanto tempo di luce quanto di tenebre.  O ineffabile sapienza che così ordinasti, quanto è povera la nostra mente a te comprendere! E voi a cui utilitade e diletto io scrivo, in quanta cechitade vivete, non levando li occhi suso a queste cose, tenendoli fissi nel fango della vostra stoltezza!

VI. Nel precedente capitolo è mostrato per che modo lo sole gira; sì che omai si puote procedere a dimostrare la sentenza della parte alla quale s’intende. Dico adunque che in questa parte prima comincio a commendare questa donna per comparazione all’altre cose; e dico che ’l sole, girando lo mondo, non vede alcuna cosa così gentile come costei: per che segue che questa sia, secondo le parole, gentilissima di tutte le cose che ’l sole allumina.

 E dice: "in quell’ora": onde è da sapere che ‘ora’ per due modi si prende dalli astrologi. L’uno si è che del die e della notte fanno ventiquattr’ore, cioè dodici del die e dodici della notte, quanto che ’l die sia grande o picciolo; e queste ore si fanno picciole e grandi nel dì e nella notte, secondo che ’l dì e la notte cresce e menoma. E queste ore usa la Chiesa, quando dice Prima, Terza, Sesta e Nona, e chiamansi ore temporali.

 L’altro modo si è che, faccendo del dì e della notte ventiquattr’ore, tal volta ha lo die le quindici ore e la notte le nove; tal volta ha la notte le sedici e lo die le otto, secondo che cresce e menoma lo die e la notte: e chiamansi ore equali. E nello equinozio sempre queste e quelle che temporali si chiamano sono una cosa: però che, essendo lo dì equale della notte, conviene così avenire.

 Poi quando dico:

Ogni Intelletto di là su la mira,

commendo lei non avendo rispetto ad altra cosa. E dico che le Intelligenze del cielo la mirano, e che la gente di qua giù gentile pensano di costei, quando più hanno di quello che loro diletta.  E qui è da sapere che ciascuno Intelletto di sopra, secondo che è scritto nel libro delle Cagioni, conosce quello che è sopra sé e quello che è sotto sé. Conosce adunque Iddio sì come sua cagione, [e] conosce quello che è sotto sé sì come suo effetto; e però che Dio è universalissima cagione di tutte le cose, conoscendo lui, tutte le cose conosce in sé, secondo lo modo della Intelligenza. Per che tutte le Intelligenze conoscono la forma umana, in quanto ella è per intenzione regolata nella divina mente; [e] massimamente conoscono quella [le] Intelligenze motrici, però che sono spezialissime cagioni di quella e d’ogni forma generata, e conoscono quella perfettissima, tanto quanto essere puote, sì come loro regola ed essemplo.  E se essa umana forma, essemplata e individuata, non è perfetta, non è manco dello detto essemplo, ma della materia la quale individua. Però quando dico:

Ogni Intelletto di là su la mira,

non voglio altro dire se non ch’ella è così fatta come l’essemplo intenzionale che della umana essenzia è nella divina mente e, per quella, in tutte l’altre, massimamente in quelle menti angeliche che fabricano col cielo queste cose di qua giuso.

 E a questo affermare soggiungo quando dico:

e quella gente che qui s’innamora.

Dove è da sapere che ciascuna cosa massimamente desidera la sua perfezione, e in quella si queta ogni suo desiderio, e per quella ogni cosa è desiderata. E questo è quello desiderio che sempre ne fa parere ogni dilettazione manca: ché nulla dilettazione è sì grande in questa vita che all’anima nostra possa [sì] tòrre la sete, che sempre lo desiderio che detto è non rimagna nel pensiero.  E però che questa è veramente quella perfezione, dico che quella gente che qua giù maggiore diletto riceve quando più hanno di pace, allora rimane questa ne’ loro pensieri, per questa, dico, tanto essere perfetta quanto sommamente essere puote la umana essenzia.

 Poi quando dico:

Suo esser tanto a Quei che lel dà piace,

mostro che non solamente questa donna è perfettissima nella umana generazione, ma più che perfettissima, in quanto riceve della divina bontade oltre lo debito umano.  Onde ragionevolemente si puote credere che, sì come ciascuno maestro ama la sua opera ottima più che l’altre, così Dio ama più la persona umana ottima che tutte l’altre; e però che la sua larghezza non si stringe da necessitade d’alcuno termine, non ha riguardo lo suo amore al debito di colui che riceve, ma soperchia quello in dono e in beneficio di vertù e di grazia. Onde dico qui che esso Dio, che dà l’essere a costei, per caritade della sua perfezione infonde in essa della sua bontade oltre li termini del debito della nostra natura.

 Poi quando dico:

La sua anima pura,

pruovo ciò che detto è [per] sensibile testimonianza. Ove è da sapere che, sì come dice lo Filosofo nel secondo dell’Anima, l’anima è atto del corpo; e se ella è suo atto, è sua cagione; e però che, sì come è scritto nel libro allegato delle Cagioni, ogni cagione infonde nel suo effetto della bontade che riceve dalla cagione sua, infonde e rende al corpo suo della bontade della cagione sua, ch’è Dio.  Onde, con ciò sia cosa che in costei si veggiano, quanto è dalla parte del corpo, maravigliose cose, tanto che fanno ogni guardatore disioso di quelle vedere, manifesto è che la sua forma, cioè la sua anima, che lo conduce sì come cagione propia, riceva miracolosamente la graziosa bontade di Dio.

 E così [si] pruova, per questa apparenza, che è oltre lo debito della natura nostra (la quale in lei è perfettissima, come detto è di sopra) questa donna da Dio beneficiata e fatta nobile cosa.

 E questa è tutta la sentenza litterale della prima parte della seconda parte principale.

VII. Commendata questa donna comunemente sì secondo l’anima come secondo lo corpo, io procedo a commendare lei spezialmente secondo l’anima; e prima la commendo secondo che ’l suo bene è grande in sé, poi la commendo secondo che ’l suo bene è grande in altrui e utile al mondo. E comincia questa parte seconda quando dico:

Di costei si può dire.

 Dunque dico prima:

In lei discende la vertù divina.

Ove è da sapere che la divina bontade in tutte le cose discende, e altrimenti essere non potrebbero; ma avegna che questa bontade si mova da simplicissimo principio, diversamente si riceve, secondo più e meno, dalle cose riceventi. Onde scritto è nel libro delle Cagioni: "La prima bontade manda le sue bontadi sopra le cose con uno discorrimento". Veramente ciascuna cosa riceve da quello discorrimento secondo lo modo della sua vertù e dello suo essere.

 E di ciò sensibile essemplo avere potemo dal sole: vedemo la luce del sole, la quale è una, da uno fonte derivata, diversamente dalle corpora essere ricevuta, sì come dice Alberto in quello libro che fa dello Intelletto: ché certi corpi, per molta chiaritade di diafano avere in sé mista, tosto che ’l sole li vede, diventano tanto luminosi, che per multiplicamento di luce in quelli è lo loro aspetto [vincente], e rendono alli altri di sé grande splendore, sì come è l’oro e alcuna pietra.  Certi sono che, per essere del tutto diafani, non solamente ricevono la luce ma quella non impediscono, anzi rendono lei del loro colore colorata nell’altre cose. E certi sono tanto vincenti nella purità del diafano, che divegnono sì raggianti, che vincono l’armonia dell’occhio e non si lasciano vedere sanza fatica del viso, sì come sono li specchi. Certi altri sono tanto sanza diafano, che quasi poco della luce ricevono, com’è la terra.  Così la bontà di Dio è ricevuta altrimenti dalle sustanze separate, cioè dalli Angeli, che sono sanza grossezza di materia, quasi diafani per la purità della loro forma; e altrimenti dall’anima umana, che, avegna che da una parte sia da materia libera, da un’altra è impedita, sì com’è l’uomo ch’è tutto nell’acqua fuor del capo, del quale non si può dire che tutto sia nell’acqua né tutto fuor da quella; e altrimenti dalli animali, la cui anima tutta in materia è compresa, ma, tanto dico, alquanto [è] nobilitata; e altrimenti dalle piante, e altrimenti dalle minere, e altrimenti dalla terra che dalli altri, però che è materialissima, e però remotissima e improporzionalissima alla prima simplicissima e nobilissima vertute che sola è intellettuale, cioè Dio.

 E avegna che posti siano qui gradi generali, nondimeno si possono porre gradi singulari: cioè che quella riceve, dell’anime umane, altrimenti una che un’altra. E però che [nel]l’ordine intellettuale dell’universo si sale e discende per gradi quasi continui dalla infima forma all’altissima [e dall’altissima] alla infima, sì come vedemo nell’ordine sensibile; e tra l’angelica natura, che è cosa intellettuale, e l’anima umana non sia grado alcuno, ma sia quasi l’uno all’altro continuo per li ordini delli gradi; e tra l’anima umana e l’anima più perfetta delli bruti animali ancor mezzo alcuno non sia; e noi veggiamo molti uomini tanto vili e di sì bassa condizione, che quasi non pare [loro] essere altro che bestia: e così è da porre e da credere fermamente che sia alcuno tanto nobile e di sì alta condizione che quasi non sia altro che angelo.  Altrimenti non si continuerebbe l’umana spezie da ogni parte, che essere non può. E questi cotali chiama Aristotile, nel settimo dell’Etica, divini; e cotale dico io che è questa donna, sì che la divina virtude, a guisa che discende nell’angelo, discende in lei.

 Poi quando dico:

E qual donna gentil questo non crede,

pruovo questo per la esperienza che aver di lei si può in quelle operazioni che sono propie dell’anima razionale, dove la divina luce più espeditamente raggia; cioè nel parlare e nelli atti che reggimenti e portamenti sogliono essere chiamati.

 Onde è da sapere che solamente l’uomo intra li animali parla, ed ha reggimenti ed atti che si dicono razionali, però che solo elli ha in sé ragione. E se alcuno volesse dire contra, dicendo che alcuno uccello parli, sì come pare di certi, massimamente della gazza e del pappagallo, e che alcuna bestia fa atti o vero reggimenti, sì come pare della scimia e d’alcuna altra, rispondo che non è vero che parlino né che abbiano reggimenti, però che non hanno ragione, dalla quale queste cose convegnono procedere; né è in loro lo principio di queste operazioni, né conoscono che sia ciò, né intendono per quello alcuna cosa significare, ma solo quello che veggiono e odono ripresentare.  Onde, sì come la imagine delle corpora in alcuno corpo lucido si rappresenta, sì come nello specchio, così la imagine [............... E sì come la imagine] corporale che lo specchio dimostra non è vera, così la imagine della ragione, cioè li atti e lo parlare che l’anima bruta ripresenta o vero dimostra, non è vera.

 Dico che ‘qual donna gentile non crede quello ch’io dico, che vada con lei, e miri li suoi atti’ - non dico quale uomo, però che più onestamente per le donne [di donna] si prende esperienza che per l’uomo -; e dico quello che di lei con lei sentirà, dicendo quello che fa lo suo parlare, e che fanno li suoi reggimenti.  Ché ’l suo parlare, per l’altezza e per la dolcezza sua, genera nella mente di chi l’ode uno pensiero d’amore, lo quale io chiamo spirito celestiale, però che là su è lo suo principio e di là su viene la sua sentenza, sì come di sopra è narrato: del qual pensiero si procede in ferma oppinione che questa sia miraculosa donna di vertude.  E suoi atti, per la loro soavitade e per la loro misura, fanno amore disvegliare e risentire là dovunque è della sua potenza seminata per buona natura. La quale natura[l] semenza si fa come nel seguente trattato si mostr[er]à.

 Poi quando dico:

Di costei si può dire,

intendo narrare come la bontà e la vertù della sua anima è alli altri buona e utile. E prima, com’ella è utile all’altre donne, dicendo:

Gentile è in donna ciò che in lei si trova:

dove manifesto essemplo rendo alle donne, nel quale mirando possano [sé] fare parere gentili, quello seguitando.

 Secondamente narro come ella è utile a tutte le genti, dicendo che l’aspetto suo aiuta la nostra fede, la quale più che tutte l’altre cose è utile a tutta l’umana generazione, sì come quella per la quale campiamo da etternale morte e acquistiamo etternale vita.  E la nostra fede aiuta: però che, con ciò sia cosa che principalissimo fondamento della fede nostra siano [li] miracoli fatti per colui che fu crucifisso - lo quale creò la nostra ragione, e volse che fosse minore del suo potere -, e fatti poi nel nome suo per li santi suoi; e molti siano sì ostinati che di quelli miracoli per alcuna nebbia siano dubiosi, e non possano credere miracolo alcuno sanza visibilemente avere di ciò esperienza; e questa donna sia una cosa visibilemente miraculosa, della quale li occhi delli uomini cotidianamente possono esperienza avere, [e]d a noi faccia possibili li altri; manifesto è che questa donna col suo mirabile aspetto la nostra fede aiuta.  E però ultimamente dico che "da etterno", cioè etternalmente, "fu ordinata" nella mente di Dio in testimonio della fede a coloro che in questo tempo vivono.

 E così termina la seconda parte [della seconda principal parte] secondo la litterale sua sentenza.

VIII. Intra li effetti della divina sapienza l’uomo è mirabilissimo, considerando come in una forma la divina virtute tre nature congiunse, e come sottilmente armoniato conviene esser lo corpo suo, a cotal forma essendo organizzato per tutte quasi sue vertudi. Per che, per la molta concordia che ’n tra tanti organi [essere] conviene a bene rispondersi, pochi perfetti uomini in tanto numero sono.  E se così è mirabile questa creatura, certo non pur colle parole è da temere di trattare di sue condizioni, ma eziandio col pensiero, secondo quelle parole dello Ecclesiastico: "La sapienza di Dio, precedente tutte le cose, chi cercava?", e quell’altre dove dice: "Più alte cose di te non dimanderai e più forti cose di te non cercherai; ma quelle cose che Dio ti comandò, pensa [sempre], e in più sue opere non sie curioso", cioè sollicito.  Io adunque, che in questa terza particola d’alcuna condizione di cotal creatura parlare intendo, in quanto nel suo corpo per bontade dell’anima sensibile bellezza appare, temorosamente non sicuro comincio, intend[end]o, e se non a pieno, almeno alcuna cosa di tanto nodo disnodare.

 Dico adunque che, poi che aperta è la sentenza di quella particola nella quale questa donna è commendata dalla parte dell’anima, da procedere e da vedere è come, quando dico:

Cose appariscon nello suo aspetto,

io commendo lei dalla parte del corpo.  E dico che nello suo aspetto apariscono cose le quali dimostrano de’ piaceri di Paradiso; ed intra li altri di quelli, lo più nobile, e quello che è frutto e fine di tutti li altri, si è contentarsi, e questo si è essere beato; e questo piacere è veramente, avegna che per altro modo, nell’aspetto di costei. Ché, guardando costei, la gente si contenta, tanto dolcemente ciba la sua bellezza li occhi de’ riguardatori; ma per altro modo che per lo contentare in Paradiso, [ché lo contentare in Paradiso] è perpetuo, che non può ad alcuno essere questo.

 E però che potrebbe alcuno avere domandato dove questo mirabile piacere appare in costei, distinguo nella sua persona due parti, nelle quali l’umana piacenza e dispiacenza più appare. Onde è da sapere che in qualunque parte l’anima più adopera del suo officio, che quella più fissamente intende ad adornare, e più sottilmente quivi adopera.  Onde vedemo che nella faccia dell’uomo, là dove fa più del suo officio che in alcuna parte di fuori, tanto sottilmente intende, che, per sottigliarsi quivi tanto quanto nella sua materia puote, nullo viso ad altro viso è simile: perché l’ultima potenza della materia, la quale [è] in tutti quasi dissimile, quivi si riduce in atto.

 E però che nella faccia massimamente in due luoghi opera l’anima - però che in quelli due luoghi quasi tutte e tre le nature dell’anima hanno giurisdizione - cioè nelli occhi e nella bocca, quelli massimamente adorna e quivi pone lo ’ntento tutto a fare bello, se puote. E in questi due luoghi dico io che appariscono questi piaceri dicendo: "nelli occhi e nel suo dolce riso".  Li quali due luoghi, per bella similitudine, si possono appellare balconi della donna che nel dificio del corpo abita, cioè l’anima: però che quivi, avegna che quasi velata, spesse volte si dimostra.

 Dimostrasi nelli occhi tanto manifesta, che conoscer si può la sua presente passione, chi bene là mira. Onde, con ciò sia cosa che sei passioni siano propie dell’anima umana, delle quali fa menzione lo Filosofo nella sua Rettorica, cioè grazia, zelo, misericordia, invidia, [amore] e vergogna, di nulla di queste puote l’anima essere passionata che alla finestra delli occhi non vegna la sembianza, se per grande vertù dentro non si chiude. Onde alcuno già si trasse li occhi, perché la vergogna [di] dentro non paresse di fuori: sì come dice Stazio poeta del tebano Edipo, quando dice che "con etterna notte solvette lo suo dannato pudore".

 Dimostrasi nella bocca quasi come colore dopo vetro. E che è ridere se non una corruscazione della dilettazione dell’anima, cioè uno lume apparente di fuori secondo sta dentro? E però si conviene all’uomo, a dimostrare la sua anima nell’alegrezza moderata, moderatamente ridere, con onesta severitade e con poco movimento della sua faccia; sì che [la] donna che allora si dimostra, come detto è, paia modesta e non dissoluta.  Onde ciò fare ne comanda lo Libro delle quattro vertù cardinali: "Lo tuo riso sia sanza cachinno", cioè sanza schiamazzare come gallina. Ahi mirabile riso della mia donna, di cu’ io parlo, che mai non si sentia se non dell’occhio!

 E dico che Amore le reca queste cose quivi, sì come a luogo suo. Dove si può amore doppiamente considerare: prima l’amore dell’anima, speziale a questi luoghi; secondamente l’amore universale che le cose dispone ad amare e ad essere amate, che ordina l’anima ad adornare queste parti.

 Poi, quando dico:

Elle soverchian lo nostro intelletto,

escuso me di ciò, che di tanta eccellenza di biltade poco pare che io tratti sovrastando a quella; e dico che poco ne dico per due ragioni. L’una si è che queste cose che paiono nel suo aspetto soverchiano lo ’ntelletto nostro, cioè umano: e dico come questo soverchiare è fatto, che è fatto per lo modo che soverchia lo sole lo fragile viso, non pur lo sano e forte; l’altra si è che fissamente in esse guardare non può, perché quivi s’inebria l’anima, sì che incontanente, dopo di sguardare, disvia in ciascuna sua operazione.

 Poi quando dico:

Sua bieltà piove fiammelle di foco,

ricorro a ritrattare del suo effetto, poi che di lei trattare interamente non si può. Onde è da sapere che di tutte quelle cose che lo ’ntelletto nostro vincono, sì che non può vedere quello che sono, convenevolissimo trattare [è] per li loro effetti: onde di Dio e delle sustanze separate e della prima materia, così trattando, potemo avere alcuna conoscenza.  E però dico che la biltade di quella "piove fiammelle di foco", cioè ardore d’amore e di caritade;

animate d’un spirito gentile,

cioè informato ardore d’uno gentile spirito, cioè diritto appetito, per lo quale e del quale nasce origine di buono pensiero. E non solamente fa questo, ma disfà e distrugge lo suo contrario - delli buoni pensieri -, cioè li vizii innati, li quali massimamente sono delli buoni pensieri nemici.

 E qui è da sapere che certi vizii sono nell’uomo, alli quali naturalmente elli è disposto - sì come certi per complessione collerica sono ad ira disposti -, e questi cotali vizii sono innati, cioè connaturali. Altri sono vizii consuetudinarii, alli quali non ha colpa la complessione ma la consuetudine, sì come la intemperanza, e massimamente del vino: e questi vizii si fuggono e si vincono per buona consuetudine, e fassi l’uomo per essa virtuoso sanza fatica avere nella sua moderazione, sì come dice lo Filosofo nel secondo dell’Etica.

 Veramente questa differenza è intra le passioni connaturali e le consuetudinarie: che le consuetudinarie per buona consuetudine del tutto vanno via, però che lo principio loro, cioè la mala consuetudine, per lo suo contrario si corrompe; ma le connaturali, lo principio delle quali è [nel]la natura del passionato, tutto che molto per buona consuetudine si facciano lievi, del tutto non se ne vanno, quanto al primo movimento (ma vannosene bene del tutto quanto a durazione), però che la consuetudine non è equabile alla natura, nella quale è lo principio di quelle.  E però è più laudabile l’uomo che dirizza sé e regge sé mal naturato contra l’impeto della natura, che colui che, ben naturato, si sostiene in buono reggimento o disviato si rinvia: sì come è più laudabile uno mal cavallo reggere che un altro non reo.

 Dico adunque che queste fiammelle che piovono dalla sua biltade, come detto è, rompono li vizii innati, cioè connaturali, a dare a intendere che la sua bellezza ha podestade in rinnovare natura in coloro che la mirano: ch’è miracolosa cosa. E questo conferma quello che detto è di sopra nell’altro capitolo, quando dico che ella è aiutatrice della fede nostra.

 Ultimamente, quando dico:

Però qual donna sente sua bieltate,

conchiudo, sotto colore d’ammonire altrui, lo fine a che fatta fue tanta biltade; e dico che qual donna sente per manco [di umilitade] la sua biltade biasimare, guardi in questo perfettissimo essemplo. Dove s’intende che non pur a migliorare lo bene è fatta, ma eziandio a fare della mala cosa buona cosa.

 E soggiungo in fine:

costei pensò chi mosse l’universo,

cioè Dio, per dare a intendere che per divino proponimento la natura cotale effetto produsse.

 E così termina tutta la seconda parte principale di questa canzone.

IX. L’ordine del presente trattato richiede - poi che le due parti di questa canzone per me sono, secondo che fu la mia intenzione, ragionate - che alla terza si proceda, nella quale io intendo purgare la canzone da una riprensione, la quale a lei potrebbe essere stata contraria, e a questo che io [parlo. Ché io], prima che alla sua composizione venisse, parendo a me questa donna fatta contra me fiera e superba alquanto, feci una ballatetta nella quale chiamai questa donna orgogliosa e dispietata: che pare essere contra quello che qui si ragiona di sopra.  E però mi volgo alla canzone, e sotto colore d’insegnare a lei come scusare la conviene, scuso quella: ed è una figura questa, quando alle cose inanimate si parla, che si chiama dalli rettorici prosopopeia: ed usanla molto spesso li poeti. [E comincia questa parte terza]:

Canzone, e’ par che tu parli contraro.

 Lo ’ntelletto della quale a più agevolemente dare a intendere, mi conviene in tre particole dividere: ché prima si propone a che la scusa fa mestiere; poi si procede colla scusa, quando dico: "Tu sai che ’l ciel"; ultimamente parlo alla canzone sì come a persona amaestrata di quello che dee fare, quando dico:

Così ti scusa, se ti fa mestero.

 Dico dunque in prima: ‘O canzone, che parli di questa donna cotanta loda, e’ par che tu sii contraria ad una tua sorella’. Per similitudine dico ‘sorella’; ché, sì come sorella è detta quella femmina che da uno medesimo generante è generata, così puote l’uomo dire ‘sorella’ dell’opera che da uno medesimo operante è operata: ché la nostra operazione in alcuno modo è generazione. E dico che par che parli contrara a quella, dicendo: ‘tu fai costei umile, e quella [la] fa superba’, cioè "fera e disdegnosa", che tanto vale.  Proposta questa acusa, procedo alla scusa per essemplo nello quale alcuna volta la veritade si discorda dall’aparenza, e allora per diverso rispetto si puote trattare. Dico:

Tu sai che ’l ciel sempr’è lucente e chiaro,

cioè sempr’è con chiaritade; ma per alcuna cagione alcuna volta è licito di dire quello essere tenebroso.

 Dove è da sapere che propiamente è visibile lo colore e la luce, sì come Aristotile vuole nel secondo dell’Anima e nel libro del Senso e Sensato. Ben è altra cosa visibile, ma non propiamente, però che [anche] altro senso sente quella, sì che non si può dire che sia propiamente visibile né propiamente tangibile: sì come è la figura, la grandezza, lo numero, lo movimento e lo stare fermo, che sensibili [comuni] si chiamano: le quali cose con più sensi comprendiamo. Ma lo colore e la luce sono propiamente; perché solo col viso comprendiamo ciò, e non con altro senso.  Queste cose visibili, sì le propie come le comuni in quanto sono visibili, vengono dentro all’occhio - non dico le cose, ma le forme loro - per lo mezzo diafano, non realmente ma intenzionalmente, sì quasi come in vetro transparente.  E nell’acqua ch’è nella pupilla dell’occhio, questo discorso che fa la forma visibile per lo mezzo, sì si compie, perché quell’acqua è terminata - quasi come specchio, che è vetro terminato con piombo -, sì che passar più non può, ma quivi a modo d’una palla, percossa si ferma: sì che la forma, che nel mezzo transparente non pare, [nella parte pare] lucida e terminata. E questo è quello per che nel vetro piombato la imagine appare, e non in altro. Di questa pupilla lo spirito visivo, che si continua da essa alla parte del cerebro dinanzi dov’è la sensibile vertude sì come in principio fontale, [quivi] subitamente sanza tempo la ripresenta, e così vedemo.  Per che, acciò che la visione sia verace, cioè cotale qual è la cosa visibile in sé, conviene che lo mezzo per lo quale all’occhio viene la forma sia sanza ogni colore, e l’acqua della pupilla similemente; altrimenti si macolerebbe la forma visibile del color del mezzo e di quello della pupilla. E però coloro che vogliono fare parere le cose nello specchio d’alcuno colore, interpongono di quello colore tra ’l vetro e ’l piombo, sì che ’l vetro ne rimane compreso.

 Veramente Plato e altri filosofi dissero che ’l nostro vedere non era perché lo visibile venisse all’occhio, ma perché la virtù visiva andava fuori al visibile: e questa oppinione è riprovata per falsa dal Filosofo in quello del Senso e Sensato.

 Veduto questo modo della vista, vedere si può leggiermente che, avegna che la stella sempre sia d’un modo lucente e chiara, e non riceva mutazione alcuna se non di movimento locale, sì come in quello Di Cielo e Mondo è provato, per più cagioni puote parere non chiara e non lucente.  Però puote parere così per lo mezzo che continuamente si transmuta. Transmutasi questo mezzo di molta luce in poca luce, sì come alla presenza del sole e alla sua assenza; e alla presenza lo mezzo, che è diafano, è tanto pieno di lume che è vincente della stella, e però pare più lucente. Transmutasi anche questo mezzo di sottile in grosso, di secco in umido, per li vapori della terra che continuamente salgono: lo quale mezzo, così transmutato, transmuta la imagine della stella che viene per esso, per la grossezza in oscuritade, e per l’umido e per lo secco in colore.

 Però puote anche parere così per l’organo visivo, cioè l’occhio, lo quale per infertade e per fatica si transmuta in alcuno coloramento e in alcuna debilitade; sì come aviene molte volte che, per essere la tunica della pupilla sanguinosa molto per alcuna corruzione d’infertade, le cose paiono quasi tutte rubicunde, e però la stella ne pare colorata.  E per essere lo viso debilitato, incontra in esso alcuna disgregazione di spirito, sì che le cose non paiono unite ma disgregate, quasi a guisa che fa la nostra lettera in sulla carta umida: e questo è quello per che molti, quando vogliono leggere, si dilungano le scritture dalli occhi, perché la imagine loro vegna dentro più lievemente e più sottile; e in ciò più rimane la lettera discreta nella vista; e però puote anche la stella parere turbata.  E io fui esperto di questo l’anno medesimo che nacque questa canzone, che per affaticare lo viso molto a studio di leggere, in tanto debilitai li spiriti visivi che le stelle mi pareano tutte d’alcuno albore ombrate. E per lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo corpo dell’occhio coll’acqua chiara, riuni’ sì la vertù disgregata che tornai nel primo buono stato della vista.

 E così appaiono molte cagioni, per le ragioni notate, per che la stella puote parere non com’ella è.

X. Partendomi da questa disgressione che mestiere è stata a vedere la veritade, ritorno al proposito e dico che, sì come li nostri occhi "chiamano", cioè giudicano, la stella talora altrimenti che sia la vera sua condizione, così quella ballatetta considerò questa donna secondo l’apparenza, discordante dal vero per infertade dell’anima, che di troppo disio era passionata. E ciò manifesto quando dico:

ché l’anima temea,

sì che fiero mi parea ciò che vedea nella sua presenza.

 Dove è da sapere che quanto l’agente più al paziente sé unisce, tanto e più forte è però la passione, sì come per la sentenza del Filosofo in quello Di Generazione si può comprendere; onde, quanto la cosa desiderata più appropinqua al desiderante, tanto lo desiderio è maggiore, e l’anima, più passionata, più sé unisce alla parte concupiscibile e più abandona la ragione. Sì che allora non giudica come uomo la persona, ma quasi come altro animale, pur secondo l’apparenza, non discernendo la veritade.  E questo è quello per che lo sembiante, onesto secondo lo vero, ne pare ‘disdegnoso e fero’; e secondo questo cotale sensuale giudicio parlò quella ballatetta. E in ciò s’intende assai che questa canzone considera questa donna secondo la veritade, per la discordanza che ha con quella.

 E non sanza cagione dico: "là ’v’ella mi senta", e non ‘là dov’io la senta’; ma in ciò voglio dare a intendere la grande virtù che li suoi occhi aveano sopra me: ché, come se [io] fosse stato [vetro], così per ogni lato mi passava lo raggio loro. E qui si potrebbero ragioni naturali e sovranaturali assegnare; ma basti qui tanto avere detto: altrove ragionerò più convenevolemente.

 Poi quando dico:

Così ti scusa, se ti fa mestero,

impongo alla canzone come per le ragioni assegnate ‘sé iscusi là dove è mestiero’, cioè là dove alcuno dubitasse di questa contrarietade: che non è altro a dire se non che qualunque dubitasse in ciò, che questa canzone da quella ballatetta si discorda, miri in questa ragione che detta è.

 E questa cotale figura in rettorica è molto laudabile, e anco necessaria, cioè quando le parole sono a una persona e la ’ntenzione è a un’altra; però che l’amonire [lo vizioso] è sempre necessario e laudabile, e non sempre sta convenevolemente nella bocca di ciascuno.  Onde, quando lo figlio è conoscente del vizio del padre, e quando lo suddito è conoscente del vizio del segnore, e quando l’amico conosce che vergogna crescerebbe al suo amico quello amonendo o menomerebbe suo onore, o conosce l’amico suo non paziente ma iracundo all’amonizione, questa figura è bellissima e utilissima, e puotesi chiamare ‘dissimulazione’.  Ed è simigliante all’opera di quello savio guerrero che combatte lo castello da uno lato per levare la difesa dall’altro, che non vanno ad una parte la ’ntenzione dell’aiutorio e la battaglia.

 E impongo anche a costei che domandi a questa donna parola di parlare di lei. Dove si puote intendere che l’uomo non dee essere presuntuoso a lodare altrui, non ponendo bene prima mente s’elli è piacere della persona laudata; per che molte volte, credendosi alcuno dare loda, sì dà biasimo, o per difetto dello dicitore o per difetto di quello che ode. Onde molta discrezione in ciò avere si conviene; la qual discrezione è quasi uno domandare licenza, per lo modo ch’io dico che domandi questa canzone.

 E così termina tutta la litterale sentenza di questo trattato; per che l’ordine dell’opera domanda all’allegorica esposizione omai, seguendo la veritade, procedere.

XI. Sì come l’ordine vuole ancora dal principio ritornando, dico che questa donna è quella donna dello ’ntelletto che Filosofia si chiama. Ma però che naturalmente le lode danno desiderio di conoscere la persona laudata; e conoscere la cosa sia sapere quello che ella è, in sé considerata e per tutte le sue cause, sì come dice lo Filosofo nel principio della Fisica; e ciò non dimostri lo nome, avegna che ciò significhi, sì come si dice nel quarto della Metafisica (dove si dice che la diffinizione è quella ragione che ’l nome significa), convienesi qui, prima che più oltre si proceda per le sue laude mostrare, dire che è questo che si chiama Filosofia, cioè quello che questo nome significa.  E poi dimostrata essa, più efficacemente si tratterà la presente allegoria. E prima dirò chi questo nome prima diede; poi procederò alla sua significanza.

 Dico adunque che anticamente in Italia, quasi dal principio della constituzione di Roma - che fu se[tte]cento cinquanta anni [innanzi, o] poco dal più al meno, che ’l Salvatore venisse, secondo che scrive Paulo Orosio -, nel tempo quasi che Numma Pompilio, secondo re delli Romani, vivea uno filosofo nobilissimo che si chiamò Pittagora. E che ello fosse in quel tempo, pare che ne tocchi alcuna cosa Tito Livio nella prima parte del suo volume incidentemente.  E dinanzi da costui erano chiamati [li] seguitatori di scienza non filosofi ma sapienti, sì come furono quelli sette savi antichissimi che la gente ancora nomina per fama: lo primo delli quali ebbe nome Solon, lo secondo Chilon, lo terzo Periandro, lo quarto Cleobulo, lo quinto Li[n]dio, lo sesto Biante e lo settimo Prieneo.  Questo Pittagora, domandato se elli si riputava sapiente, negò a sé questo vocabulo e disse sé essere non sapiente, ma amatore di sapienza. E quinci nacque poi, ciascuno studioso in sapienza che fosse ‘amatore di sapienza’ chiamato, cioè ‘filosofo’; ché tanto vale in greco ‘philos’ che a dire ‘amore’ in latino, e quindi dicemo noi ‘philos’ quasi amore, e ‘sophia’ quasi sapienza: onde ‘philos’ e ‘sophia’ tanto vale quanto ‘amatore di sapienza’. Per che vedere si può che questi due vocabuli fanno questo nome di ‘filosofo’, che tanto vale a dire quanto ‘amatore di sapienza’. Per che notar si puote che non d’arroganza ma d’umilitade è vocabulo.  Da questo nasce lo vocabulo del suo propio atto, [cioè] Filosofia, sì come dello amico nasce lo vocabulo del suo propio atto, cioè Amicizia. Onde si può vedere, considerando la significanza del primo e del secondo vocabulo, che Filosofia non è altro che amistanza a sapienza o vero a sapere: onde in alcuno modo si può dicere catuno filosofo, secondo lo naturale amore che in ciascuno genera lo disiderio di sapere.

 Ma però che l’essenziali passioni sono comuni a tutti, non si ragiona di quelle per vocabulo distinguente alcuno participante quella essenzia: onde non diciamo Gianni amico di Martino, intendendo solamente la naturale amistà significare per la quale tutti a tutti semo amici, ma l’amistà sopra la naturale generata, che è propia e distinta in singulari persone. Così non si dice filosofo alcuno per lo comune amore [al sapere].

 [N]ella ’ntenzione d’Aristotile nell’ottavo dell’Etica, quelli si dice amico la cui amistà non è celata alla persona amata e a cui la persona amata è anche amica, sì che la benivolenza sia da ogni parte; e questo conviene essere o per utilitade o per diletto o per onestade. E così, acciò che sia filosofo, conviene essere l’amore alla sapienza che fa l’una delle parti benivolente; conviene essere lo studio e la sollicitudine che fa l’altra parte anche benivolente; sì che familiaritade e manifestamento di benivolenza nasce tra loro. Per che sanza amore e sanza studio non si può dire filosofo, ma conviene che l’uno e l’altro sia.

 E sì come l’amistà per diletto fatta, o per utilitade, non è amistà vera ma per accidente, sì come l’Etica ne dimostra, così la filosofia per diletto o per utilitade non è vera filosofia ma per accidente. Onde non si dee dicere vero filosofo alcuno che per alcuno diletto colla sapienza in alcuna sua parte sia amico: sì come sono molti che si dilettano in intendere canzoni ed istudiare in quelle, e che si dilettano studiare in Rettorica o in Musica, e l’altre scienze fuggono e abandonano, che sono tutte membra di sapienza.

 Né si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, medici e quasi tutti religiosi, che non per sapere studiano ma per acquistare moneta o dignitade; e chi desse loro quello che acquistare intendono, non sovrastarebbero allo studio. E sì come intra le spezie dell’amistà quella che per utilitade è meno amistà si può dicere, così questi cotali meno participano del nome del filosofo che alcuna altra gente.

 Per che, sì come l’amistà per onestade fatta è vera e perfetta e perpetua, così la filosofia è vera e perfetta [e perpetua], che è generata per onestade solamente, sanza altro rispetto, e per bontade dell’anima amica, che è per diritto apetito e per diritta ragione.  Sì ch’omai qui si può dire [che], come la vera amistà delli uomini intra sé [è] che ciascuno ami tutto ciascuno, che ’l vero filosofo ciascuna parte della sapienza ama, e la sapienza ciascuna parte del filosofo, in quanto tutto a sé lo reduce e nullo suo pensiero ad altre cose lascia distendere. Onde essa Sapienza dice nelli Proverbi di Salomone: "Io amo coloro che amano me".

 E sì come la vera amistade, astratta dell’animo, solo in sé considerata, ha per subietto la conoscenza della operazione buona, e per forma l’appetito di quella; così la filosofia, fuori d’anima, in sé considerata, ha per subietto lo ’ntendere, e per forma uno quasi divino amore allo ’ntelletto. E sì come della vera amistade è cagione efficiente la vertude, così della filosofia è cagione efficiente la veritade.  E sì come fine dell’amistade vera è la buona dile[tta]zione che procede dal convivere secondo l’umanitade propiamente, cioè secondo ragione, sì come pare sentire Aristotile nel nono dell’Etica; così fine della Filosofia è quella eccellentissima dile[tta]zione che non pate alcuna intermissione o vero difetto, cioè vera felicitade che per contemplazione della veritade s’acquista.

 E così si può vedere chi è omai questa mia donna, per tutte le sue cagioni e per la sua ragione, e perché Filosofia si chiama, e chi è vero filosofo e chi è per accidente.

 Ma però che [per] alcuno fervore d’animo talvolta l’uno e l’altro termine delli atti e delle passioni si chiamano e per lo vocabulo dell’atto medesimo e della passione (sì come fa Virgilio nel secondo dello Eneidos, che chiama E[ttore], [parlando in persona di] [E]nea: "O luce", che è atto, "o speranza de’ Troiani", che è passione, che non era esso luce né speranza, ma era termine onde venia loro la luce del consiglio, ed era termine in che si posava tutta la speranza della loro salute; e sì come dice Stazio nel quinto del Tebaidos, quando Isifile dice ad Archimoro: "O consolazione delle cose e della patria perduta, o onore del mio servigio"; sì come cotidianamente dicemo, mostrando l’amico, ‘vedi l’amistade mia’, e ’l padre dice al figlio ‘amor mio’), per lunga consuetudine le scienze nelle quali più ferventemente la Filosofia termina la sua vista, sono chiamate per lo suo nome.  Sì come la Scienza Naturale, la Morale, e la Metafisica, la quale, perché più necessariamente in quella [la Filosofia] termina lo suo viso e con più fervore, [Prima] Filosofia è chiamata. Onde [vedere] si può come secondamente le scienze sono Filosofia appellate.

 Poi che è veduto come la primaia e vera filosofia è in suo essere - la quale è quella donna di cu’ io dico - e come lo suo nobile nome per consuetudine è comunicato alle scienze, procederò oltre colle sue lode.

XII. Nel primo capitolo di questo trattato è sì compiutamente ragionata la cagione che mosse me a questa canzone, che non è più mestiere di ragionar[n]e; ché assai leggiermente a questa esposizione ch’è detta ella si può reducere. E però secondo le divisioni fatte la litterale sentenza transcorrerò, per questa volgendo lo senso della lettera là dove sarà mestiere.

 Dico:

Amor che nella mente mi ragiona.

Per Amore io intendo lo studio lo quale io mettea per acquistare l’amore di questa donna: ove si vuole sapere che studio si può qui doppiamente considerare. È uno studio lo quale mena l’uomo all’abito dell’arte e della scienza; è un altro studio lo quale nell’abito acquistato adopera, usando quello.  E questo primo è quello ch’io chiamo qui Amore, lo quale nella mia mente informava continue, nuove e altissime considerazioni di questa donna che di sopra è dimostrata: sì come suole fare lo studio che si mette in acquistare un’amistade, che di quella amistade grandi cose prima considera, desiderando quella.  Questo è quello studio e quella affezione che suole procedere nelli uomini la generazione dell’amistade, quando già dall’una parte è nato amore, e desiderasi e procurasi che sia dall’altra; ché, sì come di sopra si dice, Filosofia è quando l’anima e la sapienza sono fatte amiche, sì che l’una sia tutta amata dall’altra per lo modo che detto è di sopra.  Né più è mestiere di ragionare per la presente sposizione questo primo verso, che [per] proemio fu nella litterale esposizione ragionato, però che per la prima sua ragione assai di leggiero a questa seconda si può volgere lo ’ntendimento.

 Onde al secondo verso, lo quale è cominciatore del trattato, è da procedere, là ove io dico:

Non vede il sol, che tutto ’l mondo gira.

Qui è da sapere che, sì come trattando di insensibile cosa per cosa sensibile si tratta convenevolemente, così di cosa [non] intelligibile per cosa intelligibile trattare si conviene. E però, sì come nella litterale si parlava cominciando dal sole corporale e sensibile, così ora è da ragionar[n]e per lo sole spirituale e intelligibile, che è Iddio.

 Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che ’l sole. Lo quale di sensibile luce sé prima e poi tutte le corpora celestiali e [le] elementali allumina: così Dio prima sé con luce intellettuale allumina, e poi le [creature] celestiali e l’altre intelligibili.  Lo sole tutte le cose col suo calore vivifica, e se alcuna [se] ne corrompe, non è della ’ntenzione della cagione, ma è accidentale effetto: così Iddio tutte le cose vivifica in bontade, e se alcuna n’è rea, non è della divina intenzione, ma conviene quello per accidente essere [nel]lo processo dello inteso effetto.  Ché se Dio fece li angeli buoni e li rei, non fece l’uno e l’altro per intenzione, ma solamente li buoni. Seguitò poi fuori d’intenzione la malizia de’ rei, ma non sì fuori d’intenzione, che Dio non sapesse dinanzi in sé predire la loro malizia; ma tanta fu l’affezione a producere la creatura spirituale, che la pres[ci]enza d’alquanti che a malo fine doveano venire, non dovea né potea Iddio da quella produzione rimuovere.  Ché non sarebbe da laudare la Natura, se, sappiendo prima che li fiori d’un’arbore in certa parte perdere si dovessero, non producesse in quella fiori, e per li vani abandonasse la produzione delli fruttiferi.

 Dico adunque che Dio, che tutto intende (ché suo ‘girare’ è suo ‘intendere’), non vede tanto gentil cosa quanto elli vede quando mira là dove è questa Filosofia. Ché, avegna che Dio, esso medesimo mirando, veggia insiememente tutto, in quanto la distinzione delle cose è in lui per [lo] modo che lo effetto è nella cagione, vede quelle distinte.  Vede adunque questa nobilissima di tutte assolutamente, in quanto perfettissima in sé la vede e in sua essenzia. Ché se a memoria si reduce ciò che detto è di sopra, filosofia è uno amoroso uso di sapienza, lo quale massimamente è in Dio, però che in lui è somma sapienza e sommo amore e sommo atto: che non può essere altrove se non in quanto da esso procede.  È adunque la divina filosofia della divina essenzia, però che in esso non può essere cosa alla sua essenzia aggiunta; ed è nobilissima, però che nobilissima è la essenzia divina; [ed] è in lui per modo perfetto e vero, quasi per etterno matrimonio. Nell’altre intelligenze è per modo minore, quasi come druda della quale nullo amadore prende compiuta gioia, ma nel suo aspetto [mirando], contenta[se]ne la loro vaghezza.  Per che dire si può che Dio non vede, cioè non intende, cosa alcuna tanto gentile quanto questa: dico cosa alcuna, in quanto l’altre cose vede e distingue, come detto è, veggendosi essere cagione di tutte. Oh nobilissimo ed eccellentissimo cuore, che nella sposa dello Imperadore del cielo s’intende, e non solamente sposa, ma suora e figlia dilettissima!

XIII. Veduto come, nel principio delle laude di costei, sottilmente si dice essa essere della divina sustanza, in quanto primieramente si considera, da procedere e da vedere è come seconda[ria]mente dico essa essere nelle causate intelligenze.  Dico adunque:

Ogni Intelletto di là su la mira:

dove è da sapere che ‘di là su’ dico, faccendo relazione a Dio che dinanzi è menzionato; e per questo escludo le Intelligenze che sono in essilio della superna patria, le quali filosofare non possono, però che amore in loro è del tutto spento, e a filosofare, come già detto è, è necessario amore. Per che si vede che le infernali Intelligenze dallo aspetto di questa bellissima sono private. E però che essa è beatitudine dello ’ntelletto, la sua privazione è amarissima e piena d’ogni tristizia.

 Poi quando dico:

E quella gente che qui s’innamora,

discendo a mostrare come nell’umana intelligenza essa secondariamente ancora vegna; della quale filosofia umana séguito poi per lo trattato, essa commendando. Dico adunque che la gente che s’innamora ‘qui’, cioè in questa vita, la sente nel suo pensiero, non sempre, ma quando Amore fa della sua pace sentire. Dove sono da vedere tre cose che in questo testo sono toccate.

 La prima si è quando si dice: la "gente che qui s’innamora", per che pare farsi distinzione nella umana generazione. E di necessitate fare si conviene, ché, secondo che manifestamente appare, e nel seguente trattato per intenzione si ragionerà, grandissima parte delli uomini vivono più secondo lo senso che secondo ragione; e quelli che secondo lo senso vivono di questa innamorare è impossibile, però che di lei avere non possono alcuna apprensione.

 La seconda si è quando dice: "Quando Amor fa sentir", dove si par fare distinzione di tempo. La quale cosa anco [fare si conviene, ché], avegna che le Intelligenze separate questa donna mirino continuamente, l’umana intelligenza ciò fare non può; però che l’umana natura - fuori della speculazione, della quale s’appaga lo ’ntelletto e la ragione - abisogna di molte cose a suo sustentamento; per che la nostra sapienza è tal volta abituale solamente, e non attuale: che non incontra ciò nell’altre intelligenze, che solo di natura intellettiva sono perfette.  Onde, quando l’anima nostra non hae atto di speculazione, non si può dire veramente che sia in filosofia se non in quanto ha l’abito di quella e la potenza di potere lei svegliare; e però tal volta è con quella [la] gente che qui s’innamora, e tal volta no.

 La terza è quando dice l’ora che quella gente è con essa, cioè quando Amore della sua pace fa sentire; che non vuole altro dire se non: quando l’uomo è in ispeculazione attuale, però che della pace di questa donna non fa lo studio sen[tire] [se] [n]on nell’atto della speculazione. E così si vede come questa è donna primieramente di Dio e secondariamente dell’altre intelligenze separate per continuo sguardare; e appresso dell’umana intelligenza per riguardare discontinuato.

 Veramente, sempre è l’uomo che ha costei per donna da chiamare filosofo, non ostante che tuttavia non sia nell’ultimo atto di filosofia, però che dall’abito maggiormente è altri da denominare. Onde dicemo d’alcuno virtuoso, non solamente virtute operando, ma l’abito della virtù avendo; e dicemo l’uomo facundo eziandio non parlando, per l’abito della facundia, cioè del bene parlare. E di questa filosofia, in quanto dall’umana intelligenza è participata, saranno omai le seguenti commendazioni, a mostrare come grande parte del suo bene all’umana natura è conceduto.

 Dico adunque appresso: ‘Suo essere piace tanto a chi liele dàe’ (dal quale, sì come da fonte primo, si diriva), ‘che sempre [infonde in lei la sua vertute] oltre la capacitade della nostra natura’, la quale fa bella e virtuosa. Onde, avegna che all’abito di quella per alquanti si vegna, non vi si viene sì per alcuno, che propiamente abito dire si possa: però che ’l primo studio, cioè quello per lo quale l’abito si genera, non puote quello perfettamente acquistare.  E qui si vede l’umile sua loda: ché, perfetta e imperfetta, nome di perfezione non perde. E per questa sua dismisuranza si dice che l’anima della filosofia

lo manifesta in quel ch’ella conduce,

cioè che Dio metta sempre in lei del suo lume. Dove si vuole a memoria reducere che di sopra è detto che amore è forma di Filosofia, e però qui si chiama anima di lei.  Lo quale amore manifesto è nel viso della Sapienza, [nel]lo quale essa conduce mirabili bellezze, cioè contentamento in ciascuna condizione di tempo e dispregiamento di quelle cose che li altri fanno loro signori. Per che aviene che li altri miseri che ciò mirano, ripensando lo loro difetto, dopo lo desiderio della perfezione caggiono in fatica di sospiri; e questo è quello che dice:

che li occhi di color dov’ella luce

ne mandan messi al cor pien di disiri,

che prendon aire e diventan sospiri.

XIV. Sì come nella litterale esposizione dopo le generali laude alle speziali si discende, prima dalla parte dell’anima, poi dalla parte del corpo, così ora intende lo testo dopo le generali commendazioni a speziali discendere.

 Sì come detto è di sopra, Filosofia per subietto materiale qui ha la sapienza, e per forma ha amore, e per composto dell’uno e dell’altro l’uso di speculazione. Onde in questo verso che seguentemente comincia:

In lei discende la vertù divina,

io intendo commendare l’amore che è parte della filosofia.

 Ove è da sapere che discendere la vertude d’una cosa in altra non è altro che redure quella in sua similitudine, sì come nelli agenti naturali vedemo manifestamente: ché, discendendo la loro virtù nelle pazienti cose, recano quelle a loro similitudine tanto quanto possibili sono a venire ad essa. Onde vedemo lo sole che, discendendo lo raggio suo qua giù, reduce le cose a sua similitudine di lume quanto esse per loro disposizione possono dalla [sua] vertude lume ricevere. Così dico che Dio questo amore a sua similitudine reduce quanto esso è possibile a lui assimigliarsi. E ponsi la qualitade della reduzione, dicendo:

sì come face in angelo che ’l vede.

 Ove ancora è da sapere che lo primo agente, cioè Dio, pinge la sua vertù in cose per modo di diritto raggio, e in cose per modo di splendore reverberato; onde nelle Intelligenze [separate] raggia la divina luce sanza mezzo, nell’altre si ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate.

 Ma però che qui è fatta menzione di luce e di splendore, a perfetto intendimento mostrerò [la] differenza di questi vocabuli, secondo che Avicenna sente. Dico che l’usanza de’ filosofi è di chiamare ‘luce’ lo lume in quanto esso è nel suo fontale principio; di chiamare ‘raggio’ in quanto esso è per lo mezzo, dal principio al primo corpo dove si termina; di chiamare ‘splendore’ in quanto esso è in altra parte alluminata ripercusso.

 Dico adunque che la divina vertù sanza mezzo questo amore tragge a sua similitudine. E ciò si può fare manifesto massimamente in ciò, che sì come lo divino amore è tutto etterno, così conviene che sia etterno lo suo obietto di necessitate, sì che etterne cose siano quelle che esso ama. E così face a questo amore amare; ché la sapienza, nella quale questo amore fère, etterna è. Onde è scritto di lei: "Dal principio [e] dinanzi dalli secoli creata sono, e nel secolo che dee venire non verrò meno"; e nelli Proverbi di Salomone essa Sapienza dice: "Etternalmente ordinata sono"; e nel principio di Giovanni, nell’Evangelio, si può la sua etternitade apertamente notare.

 E quinci nasce che là dovunque questo amore splende, tutti li altri amori si fanno oscuri e quasi spenti, imperò che lo suo obietto etterno improporzionalmente li altri obietti vince e soperchia.  Per che li filosofi eccellentissimi nelli loro atti apertamente lo ne dimostraro, per li quali sapemo essi tutte l’altre cose, fuori che la sapienza, avere messe a non calere. Onde Democrito, della propia persona non curando, né barba né capelli né unghie si tollea; Platone, delli beni temporali non curando, la reale dignitade mise a non calere, ché figlio di re fue; Aristotile, d’altro amico non curando, contra lo suo migliore amico - fuori di quella - combatteo, sì come contra lo nomato Platone. E perché di questi parliamo, quando troviamo li altri che per questi pensieri la loro vita disprezzaro, sì come Zeno, Socrate, Seneca e molti altri? E però è manifesto che la divina virtù, a guisa che in angelo, in questo amore nelli uomini discende.

 E per dare esperienza di ciò, grida sussequentemente lo testo:

e qual donna gentil questo non crede,

vada con lei.

Per donna gentile s’intende la nobile anima d’ingegno, e libera nella sua propia potestate, che è la ragione.  Onde l’altre anime dire non si possono donne, ma ancille, però che non per loro sono ma per altrui; e lo Filosofo dice, nel secondo della Metafisica, che quella cosa è libera, ch’è per sua cagione, e non per altrui.

 Dice:

vada con lei e miri li atti sui,

cioè acompagnisi di questo amore, e guardi a quello che dentro da lui troverà. E in parte ne tocca, dicendo:

Quivi dov’ella parla, si dichina,

cioè, dove la filosofia è in atto, si dichina un celestiale pensiero, nel quale si ragiona questa essere più che umana operazione; e dice ‘del cielo’ a dare a intendere che non solamente essa, ma li pensieri amici di quella sono astratti dalle basse e terrene cose.  Poi sussequentemente dice com’ell’avalora e accende amore dovunque ella si mostra, colla soavitade delli atti, ché sono tutti li suoi sembianti onesti, dolci e sanza soverchio alcuno. E sussequentemente, a maggiore persuasione della sua compagnia fare, dice:

gentile [è] in donna ciò che in lei si trova,

e bello è tanto quanto lei simiglia.

 Ancora soggiunge:

E puossi dir che ’l suo aspetto giova:

dove è da sapere che lo sguardo di questa donna fu a noi così largamente ordinato, non pur per la faccia che ella ne dimostra, vedere, ma per le cose che ne tiene celate desiderare ad acquistare.  Onde, sì come per lei molto di quello si vede per ragione, e per consequente si vede poter essere, che sanza lei pare maraviglia, così per lei si crede ogni miracolo in più alto intelletto pote[r] avere ragione, e per consequente pote[r] essere. Onde la nostra buona fede ha sua origine; dal[la] quale viene la speranza, ch’è ’l proveduto desiderare; e per quella nasce l’operazione della caritade.  Per le quali tre virtudi si sale a filosofare a quelle Atene celestiali dove li Stoici e Peripatetici e Epicurî, per la luce della veritade etterna, in uno volere concordevolemente concorrono.

XV. Nello precedente capitolo questa gloriosa donna è commendata secondo l’una delle sue parti componenti, cioè amore. Ora in questo, nello quale io intendo esponere quel verso che comincia:

Cose appariscon nello suo aspetto,

si conviene trattare commendando l’altra parte sua, cioè sapienza.

 Dice adunque lo testo che ‘nella faccia di costei appaiono cose che mostrano de’ piaceri di Paradiso’; e distingue lo loco dove ciò appare, cioè nelli occhi e nello riso. E qui si conviene sapere che li occhi della Sapienza sono le sue dimostrazioni, colle quali si vede la veritade certissimamente; e lo suo riso sono le sue persuasioni, nelle quali si dimostra la luce interiore della Sapienza sotto alcuno velamento: e in queste due cose si sente quel piacere altissimo di beatitudine lo quale è massimo bene in Paradiso.  Questo piacere in altra cosa di qua giù essere non può, se non nel guardare in questi occhi e in questo riso. E la ragione è questa: che, con ciò sia cosa che ciascuna cosa naturalmente disia la sua perfezione, sanza quella essere non può [l’uomo] contento, che è essere beato; ché quantunque l’altre cose avesse, sanza questa rimarrebbe in lui desiderio: lo quale essere non può colla beatitudine, acciò che la beatitudine sia perfetta cosa, e lo desiderio sia cosa defettiva: ché nullo desidera quello che ha, ma quello che non ha, che è manifesto difetto.  E in questo sguardo solamente l’umana perfezione s’acquista, cioè la perfezione della ragione, dalla quale, sì come da principalissima parte, tutta la nostra essenzia depende; e tutte l’altre nostre operazioni - sentire, nutrire, e tutte - sono per questa sola, e questa è per sé, e non per altre, sì che, perfetta sia questa, perfetta è quella, tanto cioè che l’uomo, in quanto ello è uomo, [v]ede terminato ogni [suo] desiderio, e così è beato.  E però si dice nel libro di Sapienza: "Chi gitta via la sapienza e la dottrina, è infelice": che è privazione dell’essere felice. [Essere felice] per l’abito della sapienza séguita che s’acquista, e ‘felice [essere]’ è ‘essere contento’, secondo la sentenza del Filosofo. Dunque si vede come nell’aspetto di costei delle cose di Paradiso appaiono. E però si legge nel libro allegato di Sapienza, di lei parlando: "Essa è candore della etterna luce e specchio sanza macula della maestà di Dio".

 Poi, quando si dice:

Elle soverchian lo nostro intelletto,

escuso me di ciò, che poco parlar posso di quelle per la loro soperchianza. Dove è da sapere che in alcuno modo queste cose nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose [si] affermano essere, che lo ’ntelletto nostro guardare non può, cioè Dio e la etternitate e la prima materia: che certissimamente si veggiono e con tutta fede si credono essere, e pur quello che sono intender noi non potemo, se non cose negando si può apressare alla sua conoscenza, e non altrimenti.

 Veramente può qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la sapienza possa fare l’uomo beato, non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare; con ciò sia cosa che ’l naturale desiderio sia [nel]l’uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non possa.

 A ciò si può chiaramente rispondere che lo desiderio naturale in ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade della cosa desiderante: altrimenti anderebbe in contrario di se medesimo, che impossibile è; e la Natura l’averebbe fatto indarno, che è anche impossibile.

 In contrario anderebbe: ché, desiderando la sua perfezione, desiderrebbe la sua imperfezione; imperò che desiderrebbe sé sempre desiderare e non compiere mai suo desiderio (e in questo errore cade l’avaro maladetto, e non s’acorge che desidera sé sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giugnere). Averebbe[lo] anco la Natura fatto indarno, però che non sarebbe ad alcuno fine ordinato. E però l’umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione.  E così è misurato nella natura angelica e terminato, in quanto, in quella sapienza che la natura di ciascuno può apprendere. E questa è la ragione per che li Santi non hanno tra loro invidia, però che ciascuno aggiugne lo fine del suo desiderio, lo quale desiderio è colla bontà della natura misurato. Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio, e di certe altre cose, quello esso è, non sia possibile alla nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere. E per questo è la dubitazione soluta.

 Poi quando dico:

Sua bieltà piove fiammelle di foco,

discendo ad un altro piacere di Paradiso, cioè della felicitade secondaria a questa prima, la quale della sua biltade procede. Dove è da sapere che la moralitade è bellezza della Filosofia: ché così come la bellezza del corpo resulta dalle membra in quanto sono debitamente ordinate, così la bellezza della sapienza, che è corpo di Filosofia come detto è, resulta dall’ordine delle vertudi morali, che fanno quella piacere sensibilemente.  E però dico che sua bieltà, cioè moralitade, piove fiammelle di foco, cioè appetito diritto, che s’ingenera nel piacere della morale dottrina: lo quale appetito ne diparte eziandio dalli vizii naturali, non che dalli altri. E quinci nasce quella felicitade la quale diffinisce Aristotile nel primo dell’Etica, dicendo che è operazione secondo vertù in vita perfetta.

 E quando dice:

Però qual donna sente sua bieltate,

procede in loda di costei, grid[and]o alla gente che la séguiti, dicendo loro lo suo beneficio, cioè che per seguitare lei diviene ciascuno buono. Però dice: "qual donna", cioè quale anima, sente sua biltate biasimare per non parere quale parere si conviene, miri in questo essemplo.

 Ove è da sapere che li costumi sono beltà dell’anima, cioè le vertudi massimamente, le quali tal volta per vanitadi o per superbia si fanno men belle e men gradite, sì come nell’ultimo trattato vedere si potrà. E però dico che, a fuggire questo, si guardi in costei, cioè colà dov’ella è essemplo d’umiltà; cioè in quella parte di sé [che] morale filosofia si chiama. E soggiungo che, mirando costei - dico la sapienza - in questa parte, ogni viziato tornerà diritto e buono; e però dico:

Questa è colei ch’umilia ogni perverso,

cioè volge dolcemente chi fuori di debito ordine è piegato.

 Ultimamente, in massima laude di sapienza, dico lei essere di tutto madre [e prima di] qualunque principio, dicendo che con lei Dio cominciò lo mondo e spezialmente lo movimento del cielo, lo quale tutte le cose genera e dal quale ogni movimento è principiato e mosso: dicendo:

costei pensò chi mosse l’universo.

Ciò è a dire che nel divino pensiero, ch’è esso intelletto, essa era quando lo mondo fece; onde séguita che ella lo facesse.  E però disse Salomone in quello de’ Proverbi in persona della Sapienza: "Quando Dio apparecchiava li cieli, io era presente; quando con certa legge e con certo giro vallava li abissi, quando suso fermava [l’etera] e suspendeva le fonti dell’acque, quando circuiva lo suo termine al mare e poneva legge all’acque che non passassero li suoi confini, quando elli appendeva li fondamenti della terra, con lui e io era, disponente tutte le cose, e dilettavami per ciascuno die".

 O peggio che morti che l’amistà di costei fuggite, aprite li occhi vostri e mirate: ché, innanzi che voi foste, ella fu amatrice di voi, aconciando e ordinando lo vostro processo; e poi che fatti foste, per voi dirizzare in vostra similitudine venne a voi.  E se tutti al suo conspetto venire non potete, onorate lei ne’ suoi amici e seguite li comandamenti loro, sì come [quelli] che nunziano la volontà di questa etternale imperadrice; non chiudete li orecchi a Salomone che ciò vi dice, dicendo che "la via de’ giusti è quasi luce splendiente, che procede e cresce infino al die della beatitudine": andando loro dietro, mirando le loro operazioni, che essere debbono a voi luce nel cammino di questa brevissima vita.

 E qui si può terminare la vera sentenza della presente canzone. Veramente l’ultimo verso, che per tornata è posto, per la litterale esposizione assai leggiermente qua si può redure, salvo in tanto [in] quanto dice che io sì chiamai questa donna "fera e disdegnosa". Dove è da sapere che dal principio essa filosofia parea me, quanto dalla parte del suo corpo, cioè sapienza, fiera, ché non mi ridea, in quanto le sue persuasioni ancora non intendea; e disdegnosa, ché non mi volgea l’occhio, cioè ch’io non potea vedere le sue dimostrazioni: e di tutto questo lo difetto era dal mio lato.  E per questo, e per quello che nella sentenza litterale è detto, è manifesta l’allegoria della tornata; sì che tempo è, per più oltre procedere, di porre fine a questo trattato.

TRATTATO QUARTO

CANZONE TERZA

Le dolci rime d’amor ch’i’ solia

cercar ne’ miei penseri,

convien ch’io lasci; non perch’io non speri

ad esse ritornare,

ma perché li atti disdegnosi e feri

che nella donna mia

sono appariti, m’han chiusa la via

dell’usato parlare.

E poi che tempo mi par d’aspettare,

diporrò giù lo mio soave stile

ch’i’ ho tenuto nel trattar d’amore;

e dirò del valore

per lo qual veramente omo è gentile,

con rima aspra e sottile;

riprovando ’l giudicio falso e vile

di quei che voglion che di gentilezza

sia principio ricchezza.

E cominciando, chiamo quel signore

ch’alla mia donna nelli occhi dimora,

per ch’ella di se stessa s’innamora.

Tale imperò che gentilezza volse,

secondo ’l suo parere,

che fosse antica possession d’avere

con reggimenti belli;

ed altri fu di più lieve savere,

che tal detto rivolse,

e l’ultima particola ne tolse,

ché non l’avea fors’elli!

Di retro da costui van tutti quelli

che fan gentile per ischiatta altrui,

che lungiamente in gran ricchezza è stata;

ed è tanto durata

la così falsa oppinïon tra nui,

che l’uom chiama colui

omo gentil, che può dicere: ‘Io fui

nepote’ o ‘figlio di cotal valente’,

benché sia da nïente.

Ma vilissimo sembra, a chi ’l ver guata,

cui è scorto ’l cammino e poscia l’erra:

e tocca a tal, ch’è morto e va per terra!

Chi diffinisce: ‘Omo è legno animato’,

prima dice non vero,

e dopo ’l falso parla non intero;

ma più forse non vede.

Similemente fu chi tenne impero

in diffinire errato,

ché prima puose il falso, e d’altro lato

con difetto procede:

ché le divizie, sì come si crede,

non posson gentilezza dar né tòrre,

però che vili son da lor natura;

poi, chi pinge figura,

se non può esser lei, non la può porre;

né la diritta torre

fa piegar rivo che da lungi corre.

Che siano vili appare ed imperfette,

ché, quantunque collette,

non posson quïetar, ma dan più cura;

onde l’animo ch’è dritto e verace

per lor discorrimento non si sface.

Né voglion che vil uom gentil divegna,

né di vil padre scenda

nazion che per gentil già mai s’intenda:

questo è da lor confesso;

onde lor ragion par che sé offenda

in tanto [in] quanto assegna

che tempo a gentilezza si convegna,

diffinendo con esso.

Ancor, segue di ciò che innanzi ho messo,

che siàn tutti gentili o ver villani,

o che non fosse ad uom cominciamento;

ma ciò io non consento,

néd ellino altressì, se son cristiani!

Per che a ’ntelletti sani

è manifesto i lor diri esser vani;

e io così per falsi li riprovo,

e da lor mi rimovo;

e dicer voglio omai, sì com’io sento,

che cosa è gentilezza, e da che vène,

e dirò i segni che ’l gentile uom tène.

Dico ch’ogni vertù principalmente

vien da una radice:

vertute, dico, che fa l’uom felice

in sua operazione.

Questo è, secondo che l’Etica dice,

un abito eligente

lo qual dimora in mezzo solamente;

e tai parole pone.

Dico che nobiltate in sua ragione

importa sempre ben del suo subietto,

come viltate importa sempre male;

e vertute cotale

dà sempre altrui di sé buono intelletto:

per che in medesmo detto

convegnono ambedue, ch’èn d’uno effetto.

Onde convien dall’altra vegna l’una,

o d’un terzo ciascuna;

ma se l’una val ciò che l’altra vale,

ed ancor più, da lei verrà più tosto.

[E] ciò ch’i’ ho detto qui sia per supposto.

È gentilezza dovunqu’è vertute,

ma non vertute ov’ella;

sì com’è ’l cielo dovunqu’è la stella,

ma ciò non e converso.

E noi in donna ed in età novella

vedem questa salute,

in quanto vergognose son tenute:

ch’è da vertù diverso.

Dunque verrà, come dal nero il perso,

ciascheduna vertute da costei,

o vero il gener lor, ch’io misi avanti.

Però nessun si vanti

dicendo: ‘Per ischiatta io son con lei’,

ch’elli son quasi dèi

quei c’han tal grazia fuor di tutti rei;

ché solo Iddio all’anima la dona

che vede in sua persona

perfettamente star: sì ch’ad alquanti

ch’è ’l seme di felicità, si acosta,

messo da Dio nell’anima ben posta.

L’anima cui adorna esta bontate

non la si tène ascosa,

ché dal principio ch’al corpo si sposa

la mostra infin la morte.

Ubidente, soave e vergognosa

è nella prima etate,

e sua persona aconcia di bieltate

colle sue parti acorte;

in giovinezza, temperata e forte,

piena d’amore e di cortesi lode,

e solo in lealtà far si diletta;

è nella sua senetta

prudente e giusta, [e] larghezza se n’ode,

e ’n se medesma gode

d’udire e ragionar dell’altrui prode;

poi nella quarta parte della vita

a Dio si rimarita,

contemplando la fine ch’ell’aspetta,

e benedice li tempi passati.

Vedete omai quanti son li ’ngannati!

Contra-li-erranti mia, tu te n’andrai;

e quando tu sarai

in parte dove sia la donna nostra,

non le tenere il tuo mestier coverto:

tu le puoi dir per certo:

"Io vo parlando dell’amica vostra".

I. Amore, secondo la concordevole sentenza delli savi di lui ragionanti, e secondo quello che per esperienza continuamente vedemo, è che congiunge e unisce l’amante colla persona amata; onde Pittagora dice: "Nell’amistà si fa uno di più".  E però che le cose congiunte comunicano naturalmente intra sé le loro qualitadi, in tanto che talvolta è che l’una torna del tutto nella natura dell’altra, incontra che le passioni della persona amata entrano nella persona amante, sì che l’amore dell’una si comunica nell’altra, e così l’odio e lo desiderio e ogni altra passione. Per che li amici dell’uno sono dall’altro amati, e li nimici odiati; per che in greco proverbio è detto: "Delli amici essere deono tutte le cose comuni".

 Onde io, fatto amico di questa donna di sopra nella verace esposizione nominata, cominciai ad amare e odiare secondo l’amore e l’odio suo. Cominciai adunque ad amare li seguitatori della veritade e odiare li seguitatori dello errore e della falsitade, com’ella face.  Ma però che ciascuna cosa per sé è da amare, e nulla è da odiare se non per sopravenimento di malizia, ragionevole ed onesto è, non le cose, ma le malizie delle cose odiare e procurare da esse di partire. E a ciò s’alcuna persona intende, la mia eccellentissima donna intende massimamente: a partire, dico, la malizia delle cose, la quale cagione è d’odio; però che in lei è tutta ragione e in lei è fontalmente l’onestade.  Io, lei seguitando nell’opera sì come nella passione quanto potea, li errori della gente abominava e dispregiava, non per infamia o vituperio delli erranti, ma delli errori: li quali biasimando credea fare dispiacere, e dispiaciuti, partire da coloro che per essi eran da me odiati.

 Intra li quali errori uno io massimamente riprendea, lo quale non solamente è dannoso e pericoloso a coloro che in esso stanno, ma eziandio alli altri, che lui riprendano, porta dolore e danno.  Questo è l’errore dell’umana bontade in quanto in noi è dalla natura seminata e che ‘nobilitade’ chiamare si dee; che [per] mala consuetudine e per poco intelletto era tanto fortificato, che [l’]oppinione quasi di tutti n’era falsificata; e della falsa oppinione nascevano li falsi giudicii, e de’ falsi giudicii nascevano le non giuste reverenze e vilipensioni: per che li buoni erano in villano despetto tenuti, e li malvagi onorati ed essaltati. La qual cosa era pessima confusione del mondo; sì come vedere puote chi mira quello che di ciò può seguitare, sottilmente.

 Il perché, con ciò fosse cosa che questa mia donna un poco li suoi dolci sembianti transmutasse a me, massimamente in quelle parti dove io mirava, e cercava se la prima materia delli elementi era da Dio intesa, - per la qual cosa un poco dal frequentare lo suo aspetto mi sostenni -, quasi nella sua assenzia dimorando, entrai a riguardare col pensiero lo difetto umano intorno al detto errore.  E per fuggire oziositade, che massimamente di questa donna è nemica, e per istinguere questo errore che tanti amici le toglie, propuosi di gridare alla gente che per mal cammino andavano, acciò che per diritto calle si dirizzasse[ro]; e cominciai una canzone nel cui principio dissi:

Le dolci rime d’amor ch’i’ solia.

Nella quale io intendo riducer la gente in diritta via sopra la propia conoscenza della verace nobilitade; sì come per la conoscenza del suo testo, alla esposizione del quale ora s’intende, vedere si potrà.

 E però che in questa canzone s’intese a rimedio così necessario, non era buono sotto alcuna figura parlare, ma convennesi per via tostana questa medicina [dare], acciò che fosse tostana la sanitade; la quale corrotta, a così laida morte si correa.

 Non sarà dunque mestiere nella esposizione di costei alcuna allegoria aprire, ma solamente [l]a sentenza secondo la lettera ragionare. Per mia donna intendo sempre quella che nella precedente ragione è ragionata, cioè quella luce virtuosissima, Filosofia, li cui raggi fanno [dal]li fiori rifronzire e fruttificare la verace delli uomini nobilitade, della quale trattare la proposta canzone pienamente intende.

II. Nel principio della impresa esposizione, per meglio dare a intendere la sentenza della proposta canzone, convienesi quella partire prima in due parti: ché nella prima parte proemialmente, si parla; nella seconda si séguita lo trattato; e comincia la seconda parte nel cominciamento del secondo verso, dove dice:

Tale imperò che gentilezza volse.

 La prima parte ancora in tre membra si può comprendere: nel primo si dice perché dallo parlare usato mi parto; nel secondo dico quello che è di mia intenzione a trattare; nel terzo domando aiutorio a quella cosa che più aiutare mi può, cioè alla veritade. Lo secondo membro comincia:

E poi che tempo mi par d’aspettare.

Lo terzo comincia:

E cominciando, chiamo quel signore.

 Dico adunque che ‘a me conviene lasciare le dolci rime d’amore le quali sogliono cercare li miei pensieri’; e la cagione assegno, perché dico che ciò non è per intendimento di più non rimare d’amore, ma però che nella donna mia nuovi sembianti sono appariti, li quali m’hanno tolta materia di dire al presente d’amore.  Ove è da sapere che non si dice qui li atti di questa donna essere "disdegnosi e feri" se non secondo l’apparenza; sì come nel decimo capitolo del precedente trattato si può vedere, dove altra volta dico che l’apparenza della veritade si discordava. E come ciò può essere, che una medesima cosa sia dolce e paia amara, o vero sia chiara e paia oscura, qui[vi] sufficientemente vedere si può.

 Apresso, quando dico:

E poi che tempo mi par d’aspettare,

dico, sì come detto è, questo che trattare intendo. E qui non è da trapassare con piede secco ciò che si dice in ‘tempo aspettare’, imperò che potissima cagione è della mia mossa; ma da vedere è come ragionevolemente quel tempo in tutte le nostre operazioni si dee attendere, e massimamente nel parlare.

 Lo tempo, secondo che dice Aristotile nel quarto della Fisica, è "numero di movimento secondo prima e poi", e "numero di movimento celestiale", lo quale dispone le cose di qua giù diversamente a ricevere alcuna informazione.  Ché altrimenti è disposta la terra nel principio della primavera a ricevere in sé la informazione dell’erbe e delli fiori, e altrimenti lo verno; e altrimenti è disposta una stagione a ricevere lo seme che un’altra. E così la nostra mente, in quanto ella è fondata sopra la complessione del corpo, che [ha] a seguitare la circulazione del cielo, altrimenti è disposta uno tempo e altrimenti un altro.  Per che le parole, che sono quasi seme d’operazione, si deono molto discretamente sostenere e lasciare, [sì] perché bene siano ricevute e fruttifere vegnano, sì perché dalla loro parte non sia difetto di sterilitade. E però lo tempo è da provedere, sì per colui che parla come per colui che dee udire: ché se ’l parladore è mal disposto, [le] più volte sono le sue parole dannose; e se l’uditore è mal disposto, mal sono quelle ricevute che buone siano. E però Salomone dice nello Ecclesiaste: "Tempo è da parlare, e tempo è da tacere".  Il perché io sentendo [in] me turbata disposizione, per la cagione che detta è nel precedente capitolo, a parlare d’amore, parve a me che fosse d’aspettare tempo, lo quale seco porta lo fine d’ogni desiderio, e appresenta, quasi come donatore, a coloro a cui non incresce d’aspettare.  Onde dice santo Iacopo apostolo nella sua Pistola: "Ecco lo agricola aspetta lo prezioso frutto della terra, pazientemente sostenendo infino che riceva lo temporaneo e lo serotino". E tutte le nostre brighe, se bene venimo a cercare li loro principii, procedono quasi dal non conoscere l’uso del tempo.

 Dico: ‘poi che d’aspettare mi pare, diporroe’, cioè lascerò stare, ‘lo mio stilo’, cioè modo, ‘soave’ che d’amore parlando [ho]e tenuto; e dico di dicere di quello ‘valore’ per lo quale uomo è gentile veracemente. E avegna che ‘valore’ intender si possa per più modi, qui si prende ‘valore’ quasi potenza di natura, o vero bontade da quella data, sì come di sotto si vedrà.

 E prometto di trattare di questa materia "con rima aspra e sottile". Per che sapere si conviene che ‘rima’ si può doppiamente considerare, cioè largamente e strettamente: strettamente s’intende pur per quella concordanza che nell’ultima e penultima sillaba fare si suole; quando largamente s’intende, [s’intende] per tutto quel parlare che [in] numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade; e così qui in questo proemio prendere e intendere s[i] [v]uole.  E però dice "aspra" quanto al suono del dittato, che a tanta materia non conviene essere leno; e dice "sottile" quanto alla sentenza delle parole, che sottilmente argomentando e disputando procedono.  E soggiungo:

riprovando ’l giudicio falso e vile:

ove si promette ancora di riprovare lo giudicio della gente piena d’errore; "falso", cioè rimosso dalla veritade, e "vile", cioè da viltà d’animo affermato e fortificato.

 Ed è da guardare a ciò, che in questo proemio prima si promette di trattare lo vero, e poi di riprovare lo falso, e nel trattato si fa l’opposito, ché prima si ripruova lo falso, e poi si tratta lo vero: che pare non convenire alla promessione. Però è da sapere che, tutto che e all’uno e all’altro s’intenda, al trattare lo vero s’intende principalmente; a riprovare lo falso s’intende in tanto in quanto la veritade meglio si fa apparire.  E qui prima si promette lo trattare del vero, sì come principale intento, lo quale alli animi delli auditori porta desiderio d’udire: nel trattato prima si [ri]pruova lo falso, acciò che, fugate le male oppinioni, la veritade poi più liberamente sia ricevuta. E questo modo tenne lo maestro dell’umana ragione, Aristotile, che sempre prima combatteo colli avversari della veritade e poi, quelli convinti, la veritade mostroe.

 Ultimamente, quando dico:

E cominciando, chiamo quel signore,

chiamo la veritade che sia meco, la quale è quello signore che nelli occhi, cioè nelle dimostrazioni della Filosofia dimora; e bene è signore, ché a lei disposata l’anima è donna, e altrimenti è serva fuori d’ogni libertade.  E dice:

per ch’ella di se stessa s’innamora,

però che essa Filosofia, che è, sì come detto è nel precedente trattato, amoroso uso di sapienza, se medesima riguarda quando apparisce la bellezza delli occhi suoi a lei; che altro [non] è a dire se non che l’anima filosofante non solamente contempla essa veritade, ma ancora contempla lo suo contemplare medesimo e la bellezza di quello, rivolgendosi sovra se stessa e di se stessa innamorando per la bellezza del suo primo guardare.

 E così termina ciò che proemialmente per tre membri porta lo testo del presente trattato.

III. Veduta la sentenza del proemio, è da seguire lo trattato; e per meglio quello mostrare, partire si conviene per le sue parti principali, che sono tre: ché nella prima si tratta della nobilitade secondo oppinioni d’altri; nella seconda si tratta di quella secondo la propia oppinione; nella terza si volge lo parlare alla canzone, ad alcuno adornamento di ciò che detto è.  La seconda parte comincia:

Dico ch’ogni vertù principalmente.

La terza comincia:

Contra-li-erranti mia, tu te n’andrai.

E appresso queste [tre] parti generali, e altre divisioni fare si convegnono, a bene prendere lo ’ntelletto che mostrare s’intende.  Però nullo si maravigli se per molte divisioni si procede, con ciò sia cosa che grande e alta opera sia per le mani al presente e dalli autori poco cercata, e che lungo convegna essere lo trattato e sottile, nel quale per me ora s’entra, a distrigare lo testo perfettamente secondo la sentenza che esso porta.

 Dunque dico che ora questa prima parte si divide in due: ché nella prima si pongono l’oppinioni altrui, nella seconda si ripruovano quelle; e comincia questa seconda parte:

Chi diffinisce: ‘Omo è legno animato’.

 Ancora la prima parte che rimane sì ha due membra: lo primo è la narrazione dell’oppinione dello imperadore; lo secondo è la narrazione dell’oppinione della gente volgare, che è d’ogni ragione ignuda. E comincia questo secondo membro:

ed altri fu di più lieve savere.

 Dico dunque: "Tale imperò", cioè tale usò l’officio imperiale: dove è da sapere che Federigo di Soave, ultimo imperadore delli Romani - ultimo dico per rispetto al tempo presente, non ostante che Ridolfo e Andolfo e Alberto poi eletti siano, apresso la sua morte e delli suoi discendenti -, domandato che fosse gentilezza, rispuose ch’era antica ricchezza e belli costumi.

 E dico che "altri fu di più lieve savere": ché, pensando e rivolgendo questa diffinizione in ogni parte, levò via l’ultima particola, cioè li belli costumi, e tennesi alla prima, cioè all’antica ricchezza; e secondo che ’l testo pare dubitare, forse per non avere li belli costumi non volendo perdere lo nome di gentilezza, diffinio quella secondo che per lui facea, cioè possessione d’antica ricchezza.  E dico che questa oppinione è quasi di tutti, dicendo che dietro da costui vanno tutti coloro che fanno altrui gentile per essere di progenie lungamente stata ricca, con ciò sia cosa che quasi tutti così latrano.

 Queste due oppinioni - avegna che l’una, come detto è, del tutto sia da non curare - due gravissime ragioni pare che abbiano in aiuto: la prima è che dice lo Filosofo che quello che pare alli più, impossibile è del tutto essere falso; la seconda ragione è l’autoritade della diffinizione dello imperadore.  E perché meglio si veggia poi la vertude della veritade, che ogni autoritade convince, ragionare intendo quanto l’una e l’altra di queste ragioni aiutatrice e possente è. E prima, [poi che] della imperiale autoritade sapere non si può se non si ritruovano le sue radici, di quelle per intenzione in capitolo speziale è da trattare.

IV. Lo fondamento radicale della imperiale maiestade, secondo lo vero, è la necessità della umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice; alla quale nullo per sé è sufficiente a venire sanza l’aiutorio d’alcuno, con ciò sia cosa che l’uomo abisogna di molte cose, alle quali uno solo satisfare non può. E però dice lo Filosofo che l’uomo naturalmente è compagnevole animale.  E sì come un uomo a sua sufficienza richiede compagnia domestica di famiglia, così una casa a sua sufficienza richiede una vicinanza: altrimenti molti difetti sosterrebbe che sarebbero impedimento di felicitade. E però che una vicinanza [a] sé non può in tutto satisfare, conviene a satisfacimento di quella essere la cittade. Ancora la cittade richiede alle sue arti e alle sue difensioni vicenda avere e fratellanza colle circavicine cittadi; e però fu fatto lo regno.

 Onde, con ciò sia cosa che l’animo umano in terminata possessione di terra non si queti, ma sempre desideri gloria d’acquistare, sì come per esperienza vedemo, discordie e guerre conviene surgere intra regno e regno, le quali sono tribulazioni delle cittadi, e per le cittadi delle vicinanze, e per le vicinanze delle case [e per le case] dell’uomo; e così s’impedisce la felicitade.  Il perché, a queste guerre e alle loro cagioni tòrre via, conviene di necessitade tutta la terra, e quanto all’umana generazione a possedere è dato, essere Monarchia, cioè uno solo principato, e uno prencipe avere; lo quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi tegna contenti nelli termini delli regni, sì che pace intra loro sia, nella quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze s’amino, [e] in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, l’uomo viva felicemente: che è quello per che esso è nato.

 E a queste ragioni si possono reducere parole del Filosofo ch’elli nella Politica dice, che quando più cose ad uno fine sono ordinate, una di quelle conviene essere regolante o vero reggente, e tutte l’altre rette e regolate. Sì come vedemo in una nave, che diversi officî e diversi fini di quella a uno solo fine sono ordinati, cioè a prendere loro desiderato porto per salutevole via: dove, sì come ciascuno ufficiale ordina la propia operazione nel propio fine, così è uno che tutti questi fini considera, e ordina quelli nell’ultimo di tutti; e questo è lo nocchiero, alla cui voce tutti obedire deono.  Questo vedemo nelle religioni, nelli esserciti, in tutte quelle cose che sono, come detto è, a fine ordinate. Per che manifestamente vedere si può che a perfezione della universale religione della umana spezie conviene essere uno, quasi nocchiero, che considerando le diverse condizioni del mondo, alli diversi e necessarii officî ordinare abbia del tutto universale e inrepugnabile officio di comandare.

 E questo officio per eccellenza imperio è chiamato, sanza nulla addizione, però che esso è di tutti li altri comandamenti comandamento. E così chi a questo officio è posto è chiamato Imperadore, però che di tutti li comandatori elli è comandatore, e quello che elli dice a tutti è legge, e per tutti dee essere obedito, e ogni altro comandamento da quello di costui prendere vigore e autoritade. E così si manifesta la imperiale maiestade e autoritade essere altissima nell’umana compagnia.

 Veramente potrebbe alcuno gavillare dicendo che, tutto che al mondo officio d’imperio si richeggia, non fa ciò l’autoritade dello romano principe ragionevolemente somma, la quale s’intende dimostrare: però che la romana potenza non per ragione né per decreto di convento universale fu acquistata, ma per forza, che alla ragione pare essere contraria.

 A ciò si può lievemente rispondere che la elezione di questo sommo ufficiale convenia primieramente procedere da quello consiglio che per tutti provede, cioè Dio; altrimenti sarebbe stata la elezione per tutti non iguale; con ciò sia cosa che, anzi l’ufficiale predetto, nullo a bene di tutti intendea.  E però che più dolce natura [in] segnoreggiando, e più forte in sostenendo, e più sottile in acquistando né fu né fia che quella della gente latina - sì come per esperienza si può vedere - e massimamente [di] quello popolo santo nel quale l’alto sangue troiano era mischiato, cioè Roma, Dio quello elesse a quello officio.  Però che, con ciò sia cosa che a quello ottenere non sanza grandissima vertude venire si potesse, e a quello usare grandissima e umanissima benignitade si richiedesse, questo era quello popolo che a ciò più era disposto. Onde non da forza fu principalmente preso per la romana gente, ma da divina provedenza, che è sopra ogni ragione. Ed in ciò s’acorda Virgilio nel primo dello Eneida, quando dice, in persona di Dio parlando: "A costoro - cioè alli Romani - né termine di cose né di tempo pongo; a loro hoe dato imperio sanza fine".  La forza dunque non fu cagione movente, sì come credeva chi gavillava, ma fu cagione instrumentale, sì come sono li colpi del martello cagione [instrumentale] del coltello, e l’anima del fabro è cagione efficiente e movente; e così non forza, ma ragione, [e ragione] ancora divina, [conviene] essere stata principio dello romano imperio.

 E che ciò sia, per due apertissime ragioni vedere si può, le quali mostrano quella civitade imperatrice, e da Dio avere speziale nascimento, e da Dio avere speziale processo.

14 Ma però che in questo capitolo sanza troppa lunghezza ciò trattare non si potrebbe, e li lunghi capitoli sono inimici della memoria, farò ancora digressione d’altro capitolo per le toccate ragioni mostrare: che non fia sanza utilitade e diletto grande.

V. Non è maraviglia se la divina provedenza, che del tutto l’angelico e lo umano acorgimento soperchia, occultamente a noi molte volte procede, con ciò sia cosa che spesse volte l’umane operazioni alli uomini medesimi ascondono la loro intenzione; ma da maravigliare è forte quando la essecuzione dello etterno consiglio tanto manifesto procede che la nostra ragione [la discerne].  E però io nel cominciamento di questo capitolo posso parlare colla bocca di Salomone, che in persona della Sapienza dice nelli suoi Proverbi: "Udite: però che di grandi cose io debbo parlare".

 Volendo la ’nmensurabile bontà divina l’umana creatura a sé riconformare, che per lo peccato della prevaricazione del primo uomo da Dio era partita e disformata, eletto fu in quello altissimo e congiuntissimo consistorio della Trinitade che ’l Figliuolo di Dio in terra discendesse a fare questa concordia.  E però che nella sua venuta lo mondo, non solamente lo cielo ma la terra, convenia essere in ottima disposizione; e la ottima disposizione della terra sia quando ella è monarchia, cioè tutta ad uno principe, come detto è di sopra; ordinato fu per lo divino provedimento quello popolo e quella cittade che ciò dovea compiere, cioè la gloriosa Roma.

 E però [che] anche l’albergo dove ’l celestiale rege intrare dovea, convenia essere mondissimo e purissimo, ordinata fu una progenie santissima, della quale dopo molti meriti nascesse una femmina ottima di tutte l’altre, la quale fosse camera del Figliuolo di Dio: e questa progenie fu quella di David, del qual discese la baldezza e l’onore dell’umana generazione, cioè Maria. E però è scritto in Isaia: "Nascerà virga della radice di Iesse, e fiore della sua radice salirà"; e Iesse fu padre del sopra detto David.

 E tutto questo fu in uno temporale, che David nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di Troia in Italia, che fu origine della cittade romana, sì come testimoniano le scritture. Per che assai è manifesto la divina elezione del romano imperio, per lo nascimento della santa cittade, che fu contemporaneo alla radice della progenie di Maria.

 E incidentemente è da toccare che, poi che esso cielo cominciò a girare, in migliore disposizione non fu che allora quando di là su discese Colui che l’ha fatto e che ’l governa: sì come ancora per virtù di loro arti li matematici possono ritrovare.  Né ’l mondo mai non fu né sarà sì perfettamente disposto come allora che alla voce d’un solo, principe del roma[n] populo e comandatore, si [descrisse, sì] come testimonia Luca evangelista. E però [che] pace universale era per tutto, che mai, più non fu né fia, la nave dell’umana compagnia dirittamente per dolce cammino a debito porto correa.  Oh ineffabile e incomprensibile sapienza di Dio, che a una ora, per la tua venuta, in Siria suso e qua in Italia tanto dinanzi ti preparasti! E oh stoltissime e vilissime bestiuole che a guisa d’uomo voi pascete, che presummete contra nostra fede parlare e volete sapere, filando e zappando, ciò che Iddio con tanta prudenza hae ordinato! Maladetti siate voi, e la vostra presunzione, e chi a voi crede!

 E come detto è di sopra nel fine del precedente [capitolo del presente] trattato, non solamente speziale nascimento, ma speziale processo ebbe da Dio; ché brievemente, da Romolo cominciando, che fu di quella primo padre, infino alla sua perfettissima etade, cioè al tempo del predetto suo imperadore, non pur per umane ma per divine operazioni andò lo suo processo.  Ché se consideriamo li sette regi che prima la governaro, cioè Romolo, Numma, Tulio, Anco e li re Tarquini, che furono quasi baiuli e tutori della sua puerizia, noi trovare potremo per le scritture delle romane istorie, massimamente per Tito Livio, coloro essere stati di diverse nature, secondo la oportunitade del procedente tempo.

 Se noi consideriamo poi lei per la maggiore adolescenza sua, poi che dalla reale tutoria fu emancipata, da Bruto primo consolo infino a Cesare primo prencipe sommo, noi troveremo lei essaltata non con umani cittadini ma con divini, nelli quali non amore umano ma divino era inspirato in amare lei. E ciò non potea né dovea essere se non per ispeziale fine, da Dio inteso in tanta celestiale infusione.  E chi dirà che fosse sanza divina inspirazione, Fabrizio infinita quasi moltitudine d’oro rifiutare, per non volere abandonare sua patria? Curio, dalli Sanniti tentato di corrompere, grandissima quantità d’oro per carità della patria rifiutare, dicendo che li romani cittadini non l’oro, ma li posseditori dell’oro possedere voleano? e Muzio la sua mano propia incendere, perché fallato avea lo colpo che per liberare Roma pensato avea?  Chi dirà di Torquato, giudicatore del suo figliuolo a morte per amore del publico bene, sanza divino aiutorio ciò avere sofferto? e Bruto predetto similemente? Chi dirà delli Decii e delli Drusi, che puosero la loro vita per la patria? Chi dirà del cattivato Regolo, da Cartagine mandato a Roma per commutare li presi Cartaginesi a sé e alli altri presi Romani, avere contra sé per amore di Roma, dopo la legazione ritratta, consigliato, solo da [umana, e non da] divina natura mosso?  Chi dirà di Quinzio Cincinnato, fatto dittatore e tolto dallo aratro, dopo lo tempo dell’officio, spontaneamente quello rifiutando, allo arare essere ritornato? Chi dirà di Cammillo, bandeggiato e cacciato in essilio, essere venuto a liberare Roma contra li suoi nimici, e dopo la sua liberazione spontaneamente essere ritornato in essilio per non offendere la senatoria autoritade, sanza divina instigazione?  O sacratissimo petto di Catone, chi presummerà di te parlare? Certo maggiormente di te parlare non si può che tacere, e seguire Ieronimo quando nel proemio della Bibbia, là dove di Paulo tocca, dice che meglio è tacere che poco dire.

 Certo e manifesto essere dee, rimembrando la vita di costoro e delli altri divini cittadini, non sanza alcuna luce della divina bontade, aggiunta sovra la loro buona natura, essere tante mirabili operazioni state; e manifesto essere dee, questi eccellentissimi essere stati strumenti colli quali procedette la divina provedenza nello romano imperio, dove più volte parve esse braccia di Dio essere presenti.  E non puose Iddio le mani propie alla battaglia dove li Albani colli Romani dal principio per lo campo del regno combattero, quando uno solo Romano nelle mani ebbe la franchigia di Roma? Non puose Iddio le mani propie, quando li Franceschi, tutta Roma presa, prendeano di furto Campidoglio di notte, e solamente una voce d’una oca fé ciò sentire?  E non puose Iddio le mani, quando per la guerra d’Annibale avendo perduti tanti cittadini che tre moggia d’anella in Africa erano portate, li Romani volsero abandonare la terra, se quel benedetto Scipione giovane non avesse impresa l’andata in Africa per la sua franchezza? E non puose Iddio le mani quando uno nuovo cittadino di picciola condizione, cioè Tulio, contra tanto cittadino quanto era Catellina la romana libertate difese? Certo sì.

 Per che più chiedere non si dee, a vedere che spezial nascimento e spezial processo, da Dio pensato e ordinato, fosse quello della santa cittade. Certo di ferma sono oppinione che le pietre che nelle mura sue stanno siano degne di reverenza, e lo suolo dov’ella siede sia degno oltre quello che per li uomini è predicato e aprovato.

VI. Di sopra, nel terzo capitolo di questo trattato, promesso fue di ragionare dell’altezza della imperiale autoritade e della filosofica; e però, ragionato della imperiale, procedere oltre si conviene la mia digressione a vedere di quella del Filosofo, secondo la promessione fatta.  E qui è prima da vedere che questo vocabulo vuole dire, però che qui è maggiore mestiere di saperlo che sopra lo ragionamento della imperiale, la quale per la sua maiestade non pare essere dubitata.

 È dunque da sapere che ‘autoritade’ non è altro che ‘atto d’autore’. Questo vocabulo, cioè ‘autore’, sanza quella terza lettera C, può discendere da due principii: l’uno si è uno verbo molto lasciato dall’uso in gramatica, che significa tanto quanto ‘legare parole’, cioè ‘auieo’. E chi ben guarda lui, nella sua prima voce apertamente vedrà che elli stesso lo dimostra, ché solo di legame di parole è fatto, cioè di sole cinque vocali, che sono anima e legame d’ogni parole, e composto d’esse per modo volubile, a figurare imagine di legame.  Ché, cominciando dall’A, nell’U quindi si rivolve, e viene diritto per I nell’E, quindi si rivolve e torna nell’O: sì che veramente imagina questa figura: A, E, I, O, U, la quale è figura di legame. E in quanto ‘autore’ viene e discende da questo verbo, si prende solo per li poeti, che coll’arte musaica le loro parole hanno legate; e di questa significazione al presente non s’intende.

 L’altro principio onde ‘autore’ discende, sì come testimonia Uguiccione nel principio delle sue Derivazioni, è uno vocabulo greco che dice ‘autentin’, che tanto vale in latino quanto ‘degno di fede e d’obedienza’. E così ‘autore’, quinci derivato, si prende per ogni persona degna d’essere creduta e obedita. E da questo viene questo vocabulo del quale al presente si tratta, cioè ‘autoritade’: per che si può vedere che ‘autoritade’ vale tanto quanto ‘atto degno di fede e d’obedienza’. [Onde, con ciò sia cosa che Aristotile sia dignissimo di fede e d’obedienza,] manifesto è che le sue parole sono somma e altissima autoritade.

 Che Aristotile sia dignissimo di fede e d’obedienza così provare si può. Intra operarii e artefici di diverse arti e operazioni ordinate a una operazione od arte finale, l’artefice o vero operatore di quella massimamente dee essere da tutti obedito e creduto, sì come colui che solo considera l’ultimo fine di tutti li altri fini. Onde al cavaliere dee credere lo spadaio, lo frenaio, lo sellaio, lo scudaio, e tutti quelli mestieri che all’arte di cavalleria sono ordinati.  E però che tutte l’umane operazioni domandano uno fine, cioè quello dell’umana vita, al quale l’uomo è ordinato in quanto elli è uomo, lo maestro e l’artefice che quello ne dimostra e considera, massimamente obedire e credere si dee. Questi è Aristotile: dunque esso è dignissimo di fede e d’obedienza.

 E a vedere come Aristotile è maestro e duca della ragione umana in quanto intende alla sua finale operazione, si convene sapere che questo nostro fine, che ciascuno disia naturalmente, antichissimamente fu per li savi cercato. E però che li desideratori di quello sono in tanto numero e li apetiti sono quasi tutti singularmente diversi, avegna che universalmente siano pur [uno], malagevole fu molto a scernere quello dove dirittamente ogni umano apetito si riposasse.

 Furono filosofi molto antichi, delli quali primo e prencipe fu Zenone, che videro e credettero questo fine della vita umana essere solamente la rigida onestade: cioè rigidamente, sanza respetto alcuno la verità e la giustizia seguire, di nulla mostrare dolore, di nulla mostrare allegrezza, di nulla passione avere sentore.  E diffiniro così questo onesto: ‘quello che sanza utilitade e sanza frutto, per sé di ragione è da laudare’. E costoro e la loro setta chiamati furono Stoici, e fu di loro quello glorioso Catone di cui non fui di sopra oso di parlare.

 Altri filosofi furono, che videro e credettero altro che costoro, e di questi fu primo e prencipe uno filosofo che fu chiamato Epicuro; che, veggendo che ciascuno animale, tosto ch’è nato, è quasi da natura dirizzato nel debito fine, che fugge dolore e domanda allegrezza, quelli disse questo nostro fine essere voluptade (non dico ‘voluntade’, ma scrivola per P), cioè diletto sanza dolore.  E però [che] tra ’l diletto e lo dolore non ponea mezzo alcuno, dicea che ‘voluptade’ non era altro che ‘non dolore’, sì come pare Tulio recitare nel primo di Fine di Beni. E di questi, che da Epicuro sono Epicurei nominati, fu Torquato nobile romano, disceso del sangue del glorioso Torquato del quale feci menzione di sopra.

 Altri furono, e cominciamento ebbero da Socrate e poi dal suo successore Platone, che aguardando più sottilmente, e veggendo che nelle nostre operazioni si potea peccare e peccavasi nel troppo e nel poco, dissero che la nostra operazione sanza soperchio e sanza difetto, misurata col mezzo per nostra elezione preso, ch’è vertù, era quel fine di che al presente si ragiona; e chiamarlo ‘operazione con vertù’.  E questi furono Academici chiamati, sì come fue Platone e Speusippo suo nepote: chiamati per [lo] luogo così dove Plato studiava, cioè Academia; né da Socrate presero vocabulo, però che nella sua filosofia nulla fu affermato.

 Veramente Aristotile, che Stagirite ebbe sopranome, e Zenocrate Calcedonio suo compagnone, per lo ’ngegno [singulare] e quasi divino che la natura in Aristotile messo avea, questo fine conoscendo per lo modo socratico quasi e academico, limaro e a perfezione la filosofia morale redussero, e massimamente Aristotile. E però che Aristotile cominciò a disputare andando in qua e in làe, chiamati furono - lui, dico, e li suoi compagni - Peripatetici, che tanto vale quanto ‘deambulatori’.  E però che la perfezione di questa moralitade per Aristotile terminata fue, lo nome delli Academici si spense, e tutti quelli che a questa setta si presero Peripatetici sono chiamati; e tiene questa gente oggi lo reggimento del mondo in dottrina per tutte parti, e puotesi appellare quasi catolica oppinione. Per che vedere si può, Aristotile essere additatore e conduttore della gente a questo segno. E questo mostrare si volea. Per che, tutto ricogliendo, è manifesto lo principale intento, cioè che l’autoritade del filosofo sommo di cui s’intende sia piena di tutto vigore.

 E non repugna [la filosofica] autoritade alla imperiale; ma quella sanza questa è pericolosa, e questa sanza quella è quasi debile, non per sé ma per la disordinanza della gente: sì che l’una coll’altra congiunta utilissime e pienissime sono d’ogni vigore.  E però si scrive in quello di Sapienza: "Amate lo lume della sapienza, voi tutti che siete dinanzi a’ populi", cioè a dire: congiungasi la filosofica autoritade colla imperiale, a bene e perfettamente reggere.  Oh miseri che al presente reggete! e oh miserissimi che retti siete! ché nulla filosofica autoritade si congiunge colli vostri reggimenti né per propio studio né per consiglio; sì che a tutti si può dire quella parola dello Ecclesiaste: "Guai a te, terra, lo cui re è fanciullo e li cui principi la domane mangiano!"; e a nulla terra si può dire quella che séguita: "Beata la terra lo cui re è nobile e li cui principi si cibano nel suo tempo, a bisogno, e non a lussuria!".  Ponetevi mente, nemici di Dio, a’ fianchi, voi che le verghe de’ reggimenti d’Italia prese avete - e dico a voi, Carlo e Federigo regi, e a voi altri principi e tiranni -; guardate chi a lato vi siede per consiglio, e annumerate quante volte lo die questo fine dell’umana vita per li vostri consiglieri v’è additato! Meglio sarebbe a voi come rondine volare basso, che come nibbio altissime rote fare sopra le cose vilissime!

VII. Poi che veduto è quanto è da reverire l’autoritade imperiale e la filosofica, che deono aiutare le proposte oppinioni, è da ritornare al diritto calle dello inteso processo.

 Dico dunque che questa ultima oppinione del vulgo è tanto durata, che sanza altro respetto, sanza inquisizione d’alcuna ragione, gentile è chiamato ciascuno che figlio sia o nepote d’alcuno valente uomo, tutto che esso sia da niente. E questo è quello che dice:

ed è tanto durata

la così falsa oppinïon tra nui,

che l’uom chiama colui

omo gentil, che può dicere: ‘Io fui

nepote’ o ‘figlio di cotal valente’,

benché sia da nïente.

 Per che è da notare che pericolosissima negligenza è lasciare la mala oppinione prendere piede: ché così come l’erba multiplica nel campo non cultato, e sormonta e cuopre la spiga del frumento sì che, disparte aguardando, lo frumento non pare, e perdesi lo frutto finalmente, così la mala oppinione nella mente, non gastigata e corretta, sì cresce e multiplica sì che le spighe della ragione, cioè la vera oppinione, si nasconde e quasi sepulta si perde.  Oh come è grande la mia impresa in questa canzone, a volere omai così trifoglioso campo sarchiare, come quello della comune sentenza, sì lungamente da questa cultura abandonato! Certo non del tutto questo mondare intendo, ma solo in quelle parti dove le spighe della ragione non sono del tutto sorprese: cioè coloro dirizzare intendo ne’ quali alcuno lumetto di ragione per buona loro natura vive ancora; ché delli altri tanto è da curare quanto di bruti animali: però che non minore maraviglia mi sembra reducere a ragione [quelli in cui è ragione] del tutto spenta, che reducere in vita colui che quattro dì è stato nel sepulcro.

 Poi che la mala condizione di questa populare oppinione è narrata, subitamente, quasi come cosa orribile quella percuoto, fuori di tutto l’ordine della riprovagione, dicendo:

Ma vilissimo sembra, a chi ’l ver guata,

a dare ad intendere la sua intollerabile malizia, dicendo costoro mentire massimamente; però che non solamente colui è vile, cioè non gentile, che disceso di buoni è malvagio, ma eziandio è vilissimo: e pongo essemplo del cammino mostrato.

 Dove, [a] ciò mostrare, fare mi conviene una questione, e rispondere a quella, in questo modo. Una pianura è con certi sentieri: campo con siepi, con fossati, con pietre, con legname, con tutti quasi impedimenti fuori delli suoi stretti sentieri. Nevato è sì che tutto cuopre la neve, e rende una figura in ogni parte, sì che d’alcuno sentiero vestigio non si vede.  Viene alcuno dall’una parte della campagna e vuole andare a una magione che è dall’altra parte; e per sua industria, cioè per acorgimento e per bontade d’ingegno, solo da sé guidato, per lo diritto cammino si va là dove intende, lasciando le vestigie delli suoi passi diretro da sé. Viene un altro apresso costui, e vuole a questa magione andare, e non li è mestiere se non seguire li vestigi lasciati; e per suo difetto lo cammino, che altri sanza scorta ha saputo tenere, questo, scorto, erra, e tortisce per li pruni e per le ruvine, e alla parte dove dee non va.  Quale di costoro si dee dicere valente? Rispondo: quelli che andò dinanzi. Questo altro come si chiamerà? Rispondo: vilissimo. Perché non si chiama non valente, cioè vile? Rispondo: perché non valente, cioè vile, sarebbe da chiamare colui che, non avendo alcuna scorta, non fosse ben camminato; ma però che questi l’ebbe, lo suo errore [e] lo suo difetto non può salire, e però è da dire non vile ma vilissimo.

 E così quelli che dal padre o d’alcuno suo maggiore [..................], non solamente è vile, ma vilissimo e degno d’ogni despetto e vituperio più che altro villano. E perché l’uomo da questa infima viltade si guardi, comanda Salomone a colui che ’l valente antecessore hae avuto, nel vigesimo secondo capitolo delli Proverbi: "Non trapasserai li termini antichi che puosero li padri tuoi"; e dinanzi dice, nel quarto capitolo del detto libro: "La via de’ giusti", cioè de’ valenti, "quasi luce splendiente procede, e quella delli malvagi è oscura. Elli non sanno dove rovinano".

 Ultimamente quando si dice:

e tocca a tal, ch’è morto e va per terra,

a maggiore detrimento dico questo cotale vilissimo essere morto, parendo vivo. Onde è da sapere che veramente morto lo malvagio uomo dire si puote, e massimamente quelli che dalla via del buono suo antecessore si parte.  E ciò si può così mostrare. Sì come dice Aristotile nel secondo dell’Anima, "vivere è l’essere delli viventi"; e per ciò che vivere è per molti modi (sì come nelle piante vegetare, nelli animali vegetare e sentire e muovere, nelli uomini vegetare, sentire, muovere e ragionare o vero intelligere), e le cose si deono denominare dalla più nobile parte, manifesto è che vivere nelli animali è sentire - animali, dico, bruti -, vivere nell’uomo è ragione usare.  Dunque, se vivere è l’essere [delli viventi, e vivere nell’uomo è ragione usare, ragione usare è l’essere] dell’uomo, e così da quello uso partire è partire da essere, e così è essere morto. E non si parte dall’uso del ragionare chi non ragiona lo fine della sua vita? e non si parte dall’uso della ragione chi non ragiona lo cammino che far dee? Certo si parte; e ciò si manifesta massimamente in colui che ha le vestigie inanzi, e non le mira.  E però dice Salomone nel quinto capitolo delli Proverbi: "Quelli morirà che non ebbe disciplina, e nella moltitudine della sua stoltezza sarà ingannato". Ciò è a dire: colui è morto che non si fé discepolo, che non segue lo maestro; e questo vilissimo è quello.

 Potrebbe alcuno dicere: Come? è morto e va? Rispondo che è morto [uomo] e rimaso bestia. Ché, sì come dice lo Filosofo nel secondo dell’Anima, le potenze dell’anima stanno sopra sé come la figura dello quadrangulo sta sopra lo triangulo, e lo pentangulo, cioè la figura che ha cinque canti, sta sopra lo quadrangulo: e così la sensitiva sta sopra la vegetativa, e la intellettiva sta sopra la sensitiva. 15 Dunque, come levando l’ultimo canto del pentangulo rimane quadrangulo e non più pentangulo, così levando l’ultima potenza dell’anima, cioè la ragione, non rimane più uomo, ma cosa con anima sensitiva solamente, cioè animale bruto.

 E questa è la sentenza del secondo verso della canzone impresa, nel quale si pongono l’altrui oppinioni.

VIII. Lo più bello ramo che della radice razionale consurga si è la discrezione. Ché, sì come dice Tommaso sopra lo prologo dell’Etica, "conoscere l’ordine d’una cosa ad altra è propio atto di ragione", e[d] [è] questa discrezione. Uno de’ più belli e dolci frutti di questo ramo è la reverenza che dee lo minore allo maggiore.  Onde Tulio, nel primo delli Officii, parlando della bellezza che in sull’onestade risplende, dice la reverenza essere di quella; e così come questa è bellezza d’onestade, così lo suo contrario è turpezza e menomanza dell’onesto, lo quale contrario inreverenza o vero tracontanza dicere in nostro volgare si può.  E però esso Tulio nel medesimo luogo dice: "Mettere a negghienza di sapere quello che li altri sentano di lui, non solamente è di persona arrogante, ma di dissoluta": che non vuole altro dire, se non che arroganza e dissoluzione è se medesimo non conoscere, ché [se medesimo conoscere] principio è [e]d è la misura d’ogni reverenza.

 Per che io, volendo, con tutta reverenza e allo Principe e al Filosofo portando, la malizia d’alquanti della mente levare, per fondarvi poi suso la luce della veritade, prima che a riprovare le poste oppinioni proceda, mostrerò come, quelle riprovando, né contra [la] imperiale maiestade né contra lo Filosofo si ragiona inreverentemente.  Ché se in alcuna parte di tutto questo libro inreverente mi mostrasse, non sarebbe tanto laido quanto in questo trattato; nel quale, di nobilitade trattando, me nobile e non villano deggio mostrare. E prima mostrerò me non presummere [contra l’autoritade del Filosofo; poi mostrerò me non presummere] contra la maiestade imperiale.

 Dico adunque che quando lo Filosofo dice: "Quello che pare alli più, impossibile è del tutto esser falso", non intende dicere del parere di fuori, cioè sensuale, ma di quello [di] dentro, cioè razionale; con ciò sia cosa che ’l sensuale parere secondo la più gente, sia molte volte falsissimo, massimamente nelli sensibili comuni, là dove lo senso spesse volte è ingannato.  Onde sapemo che alla più gente lo sole pare di larghezza nel diametro d’un piede, e sì è ciò falsissimo. Ché, secondo lo cercamento e la invenzione che ha fatto l’umana ragione coll’altre sue arti, lo diametro del corpo del sole è cinque volte quanto quello della terra, e anche una mezza volta; [onde], con ciò sia cosa che la terra per lo diametro suo sia semilia cinquecento miglia, lo diametro del sole, che alla sensuale apparenza appare di quantità d’un piede, è trentacinque milia settecento cinquanta miglia.  Per che manifesto è Aristotile non avere inteso della sensuale apparenza; e però, se io intendo solo alla sensuale apparenza riprovare, non faccio contra la intenzione del Filosofo, e però nella reverenza che a lui si dee non offendo. E che io sensuale apparenza intenda riprovare è manifesto.  Ché costoro che così giudicano, non giudicano se non per quello che sentono di queste cose che la fortuna può dare e tòrre; ché, perché veggiono fare le parentele delli alti matrimonii, li edifici mirabili, le possessioni larghe, le segnorie grandi, credono quelle essere cagioni di nobilitade, anzi essa nobilitade credono quelle essere. Che s’elli giudicassero col parere razionale, dicerebbero lo contrario, cioè la nobilitade essere cagione di queste, sì come di sotto in questo trattato si vedrà.

 E come io, secondo che vedere si può, contra la reverenza del Filosofo non parlo ciò riprovando, così non parlo contra la reverenza dello Imperio: e la ragione mostrare intendo. Ma però che, dinanzi dall’aversario se ragiona, lo rettorico dee molta cautela usare nel suo sermone, acciò che l’aversario quindi non prenda materia di turbare la veritade; io, che al volto di tanti aversarii parlo in questo trattato, non posso lievemente parlare; onde, se le mie digressioni sono lunghe, nullo si maravigli.

 Dico adunque che, a mostrare me non essere inreverente alla maiestade dello Imperio, prima è da vedere che è ‘reverenza’. Dico che reverenza non è altro che confessione di debita subiezione per manifesto segno. E veduto questo, da distinguere è intra loro ‘inreverente’ [e ‘non reverente’. Lo inreverente] dice privazione, lo non reverente dice negazione. E però la inreverenza è disconfessare la debita subiezione per manifesto segno, dico, e la non reverenza è negare la debita subiezione.  Puote l’uomo disdicere la cosa doppiamente: per uno modo puote l’uomo disdicere offendendo alla veritade, quando della debita confessione si priva, e questo propiamente è ‘disconfessare’; per un altro modo puote l’uomo disdicere non offendendo alla veritade, quando quello che non è non si confessa, e questo è propio ‘negare’: sì come disdicere l’uomo sé essere del tutto mor[t]ale, è negare, propiamente parlando.  Per che, se io niego la reverenza dello Imperio, non sono inreverente, ma sono non reverente: che non è contro alla reverenza, con ciò sia cosa che quella non offenda; sì come lo non vivere non offende la vita, ma offende quella la morte, che è di quella privazione. Onde altro è morte e altro è non vivere; ché non vivere è nelle pietre.  E però che morte dice privazione, che non può essere se non nel subietto dell’abito, e le pietre non sono subietto di vita, però non ‘morte’, ma ‘non vive’ dicere si deono. Similemente io, che in questo caso allo Imperio reverenza avere non debbo, se la disdico, inreverente non sono, ma sono non reverente, che non è tracontanza né cosa da biasimare.  Ma tracontanza sarebbe l’essere reverente (se reverenza si potesse dicere), però ché in maggiore e in vera [in]reverenza si cadrebbe, cioè della natura e della veritade, sì come di sotto si vederà. E da questo fallo si guardò quello maestro delli filosofi, Aristotile, nel principio dell’Etica quando dice: "Se due sono li amici, e l’uno è la verità, alla verità è da consentire".

 Veramente, perché detto ho ch’i’ sono non reverente, che è la reverenza negare, cioè negare la debita subiezione per manifesto segno, da vedere è come questo è negare e non disconfessare, cioè da vedere come, in questo caso, io non sia debitamente alla imperiale maiestà subietto. E perché lunga conviene essere la ragione, per propio capitolo immediatamente intendo ciò mostrare.

IX. A vedere come in questo caso, cioè in riprovando o in aprovando l’oppinione dello Imperadore, a lui non sono tenuto a subiezione, reducere alla mente si conviene quello che dello imperiale officio di sopra, nel quarto capitolo di questo trattato, è ragionato, cioè che a perfezione della umana vita la imperiale auttoritade fu trovata, e che ella è regolatrice e rettrice di tutte le nostre operazioni, giustamente; che per tanto oltre quanto le nostre operazioni si stendono tanto la maiestade imperiale ha giurisdizione, e fuori di quelli termini non si sciampia.

 Ma sì come ciascuna arte e officio umano dallo imperiale è a certi termini limitato, così questo da Dio a certo termine è finito; e non è da maravigliare, ché l’officio e l’arte della natura finito in tutte sue operazioni vedemo. Ché se prendere volemo la natura universale di tutto, tanto ha giurisdizione quanto tutto lo mondo, dico lo cielo e la terra, si stende; e questo è a certo termine, sì come per lo terzo della Fisica e per lo primo Di Cielo e Mondo è provato.  Dunque la giurisdizione della natura universale è a certo termine finita - e per consequente [del]la particulare -; e anche di costei è limitatore colui che da nulla è limitato, cioè la prima bontade, che è Dio, che solo colla infinita capacitade infinito comprende.

 E a vedere li termini delle nostre operazioni, è da sapere che solo quelle sono operazioni nostre che subiacciono alla ragione e alla volontade; ché se in noi è l’operazione digestiva, questa non è umana ma naturale.  Ed è da sapere che la nostra ragione a quattro maniere d’operazioni, diversamente da considerare, è ordinata: ché operazioni sono che ella solamente considera, e non fa né può fare alcuna di quelle, sì come sono le cose naturali e le sopranaturali e le matematice; e operazioni che essa considera e fa nel propio atto suo, le quali si chiamano razionali, sì come sono arti di parlare; e operazioni sono che ella considera e fa in materia di fuori di sé, sì come sono arti meccanice.  E queste tutte operazioni, avegna che ’l considerare loro subiaccia alla nostra volontade, elle per loro a nostra volontade non subiacciono; ché, perché noi volessimo che le cose gravi salissero per natura suso, e perché noi volessimo che ’l silogismo con falsi principii conchiudesse veritade dimostrando, e perché noi volessimo che la casa sedesse così forte pendente come diritta, non sarebbe; però che di queste operazioni non fattori propiamente, ma li trovatori semo: altri l’ordinò e fece maggiore fattore.

 Sono anche operazioni che la nostra [ragione] considera nell’atto della volontade, sì come offendere e giovare, sì come star fermo e fuggire alla battaglia, sì come stare casto e lussuriare; e queste del tutto suggiacciono alla nostra volontade; e però semo detti da loro buoni e rei, perch’elle sono propie nostre del tutto, perché, quanto la nostra volontade ottenere puote, tanto le nostre operazioni si stendono.  E con ciò sia cosa che in tutte queste volontarie operazioni sia equitade alcuna da conservare e iniquitade da fuggire (la quale equitade per due cagioni si può perdere, o per non sapere quale essa si sia o per non volere quella seguitare), trovata fu la ragione scritta e per mostrarla e per comandarla. Onde dice Augustino: "Se questa - cioè equitade - li uomini la conoscessero, e conosciuta servassero, la ragione scritta non sarebbe mestiere"; e però è scritto nel principio del Vecchio Digesto: "La ragione scritta è arte di bene e d’equitade".

 A questa scrivere, mostrare e comandare, è questo ufficiale posto di cui si parla, cioè lo Imperadore, al quale tanto quanto le nostre operazioni propie che dette sono, si stendono, siamo subietti; e più oltre no.  Per questa ragione, in ciascuna arte e in ciascuno mestiere li artefici e li discenti sono, ed essere deono, subietti al prencipe e al maestro [.................] di quelle, in quello mestieri ed in quella arte; [e] fuori di quello la subiezione père, però che pere lo principato. Sì che quasi dire si può dello Imperadore, volendo lo suo officio figurare con una imagine, che elli sia lo cavalcatore della umana volontade. Lo quale cavallo come vada sanza lo cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e spezialmente nella misera Italia, che sanza mezzo alcuno alla sua gubernazione è rimasa!

 E da considerare è che quanto la cosa è più propia dell’arte o del maestro, tanto è maggiore in quella la subiezione: ché, multiplicata la cagione, multiplica l’effetto. Onde è da sapere che cose sono che sono sì pure arti, che la natura è instrumento dell’arte: sì com’è vogare con remo, dove l’arte fa suo instrumento della impulsione, che è naturale moto; sì com’è nel trebbiare lo frumento, che l’arte fa suo instrumento del caldo, che è naturale qualitade. E in queste massimamente [al]lo prencipe e maestro dell’arte essere si dee subietto.  E cose sono dove l’arte è instrumento della natura, e queste sono meno arti, e in esse sono meno subietti li artefici a loro prencipe: sì com’è dare lo seme alla terra (qui si vuole attendere la volontà della natura); sì come è uscire di porto (qui si vuole attendere la naturale disposizione del tempo). E però vedemo in queste cose spesse volte contenzione tra li artefici, e domandare consiglio lo maggiore al minore.

 Altre cose sono che non sono dell’arte, e paiono avere con quella alcuna parentela, e quinci sono li uomini molte volte ingannati; e in queste lo discente e lo artefice a loro maestro subietti non sono, né credere a lui sono tenuti quanto è per l’arte: sì come pescare pare avere parentela col navicare, e conoscere la vertù dell’erbe pare avere parentela coll’agricultura: che non hanno insieme alcuna regola, con ciò sia cosa che ’l pescare sia sotto l’arte della venagione e sotto suo comandare, e lo conoscere la vertù nell’erbe sia sotto la medicina o vero sotto più nobile dottrina.

 Queste cose simigliantemente, che dell’altre arti sono ragionate, vedere si possono nell’arte imperiale: ché regole sono in quella che sono pure arti, sì come sono le leggi de’ matrimonii, delli servi, delle milizie, delli successori in dignitade, e di queste in tutto siamo allo Imperadore subietti, sanza dubio e sospetto alcuno. Altre leggi sono che sono quasi seguitatrici di natura, sì com’è constituire l’uomo d’etade sufficiente a ministrare, e di queste non semo in tutto subietti.

 Altre molte sono, che paiono avere alcuna parentela coll’arte imperiale - e qui fu ingannato ed è chi crede che la sentenza imperiale sia in questa parte autentica -: sì come [diffinire di] giovinezza e gentilezza, sovra le quali nullo imperiale giudicio è da consentire in quanto elli è imperadore: però quello che è di [Cesare sia renduto a Cesare, e quello che è di] Dio sia renduto a Dio.  Onde non è da credere né da consentire a Nerone imperadore, che disse che giovinezza era bellezza e fortezza del corpo, ma a colui che dicesse che giovinezza è colmo della naturale vita, che sarebbe filosofo. E però è manifesto che diffinire di gentilezza non è dell’arte imperiale; e se non è dell’arte [dello Imperadore], trattando di quella a lui non siamo subietti; e se non [siamo a lui] subietti, reverire lui in ciò non siamo tenuti: e questo è quello eziandio [che cercando] s’andava.  Per che omai con tutta licenza [e] con tutta franchezza d’animo è da fedire nel petto alle viziate oppinioni, quelle per terra versando, acciò che la verace, per questa mia vittoria, tegna lo campo della mente di coloro [...............] per ciò fa questa luce avere vigore.

X. Poi che poste sono l’altrui oppinioni di nobilitade, e mostrato è quelle riprovare a me esser licito, verrò a quella parte ragionare che ciò ripruova; che comincia, sì come detto è di sopra:

Chi diffinisce: ‘Omo è legno animato’.

E però è da sapere che l’oppinione dello Imperadore - avegna che "con difetto" quella ponga - nell’una particola, cioè là dove disse "belli costumi", toccò delli costumi di nobilitade, e però in quella parte riprovare non s’intende.  L’altra particola, che di natura di nobilitade è del tutto diversa, s’intende riprovare; la quale due cose pare dicere quando dice "antica ricchezza", cioè tempo e divizie, le quali a nobilitade sono del tutto diverse, come detto è [e] come di sotto si mostrerà. E però riprovando si fanno due parti: prima si pruovano le divizie, e poi si ripruova, lo tempo essere cagione di nobilitade. La seconda parte comincia:

Né voglion che vil uom gentil divegna.

 E da sapere è che, riprovate le divizie, è riprovata non solamente l’oppinione dello Imperadore in quella parte che le divizie tocca, ma eziandio quella del vulgo interamente, che solo nelle divizie si fondava. La prima parte in due si divide: ché nella prima generalmente si dice lo ’mperadore essere stato erroneo nella diffinizione di nobilitade; secondamente si mostra ragione perché. E comincia questa seconda parte:

ché le divizie, sì come si crede.

 Dico adunque:

Chi diffinisce: ‘Omo è legno animato’,

che

prima dice non vero,

cioè falso, in quanto dice ‘legno’; e poi "parla non intero", cioè con difetto, in quanto dice ‘animato’, non dicendo ‘razionale’, che è differenza per la quale [l’]uomo dalla bestia si parte.  Poi dico che per questo modo fu erroneo in diffinire quelli che "tenne impero": non dicendo ‘imperadore’ ma ‘quelli che tenne imperio’, a mostrare, come detto è di sopra, questa cosa diterminare essere fuori d’imperiale officio. Poi dico similemente lui errare, che puose della nobilitade falso subietto, cioè ‘antica ricchezza’, e poi procedette a ‘defettiva forma’ o vero differenza, cioè ‘belli costumi’, che non comprendono ogni formalitade di nobilitade, ma molto picciola parte, sì come di sotto si mostrerà.

 E non è da lasciare, tutto che ’l testo si taccia, che messere lo Imperadore in questa parte non errò pur nelle parti della diffinizione, ma eziandio nel modo del diffinire, avegna che, secondo la fama che di lui grida, elli fosse loico e cherico grande: [acciò] che la diffinizione della nobilitade più degnamente si faccia dalli effetti che da’ principii, con ciò sia cosa che essa paia avere ragione di principio, che non si può notificare per cose prime, ma per posteriori.

 Poi quando dico:

ché le divizie, sì come si crede,

mostro come elle non possono [pro]curare nobilitade, perché sono vili; e mostro quelle non poterla tòrre, perché sono disgiunte molto da nobilitade. E pruovo quelle essere vili per uno loro massimo e manifestissimo difetto; e questo fo quando dico: "Che siano vili appare".

 Ultimamente conchiudo, per virtù di quello che detto è di sopra, l’animo diritto non mutarsi per loro transmutazione: ch’è pruova di quello che detto è di sopra, quelle essere da nobilitade disgiunte, per non seguire lo effetto della congiunzione. Ove è da sapere che, sì come vuole lo Filosofo, tutte le cose che fanno alcuna cosa, conviene essere prima quelle perfettamente in quello essere: onde dice nel settimo della Metafisica: "Quando una cosa si genera da un’altra, generasi di quella essendo in quello essere".  Ancora è da sapere che ogni cosa che si corrompe, sì si corrompe precedente alcuna alterazione, e ogni cosa che è alterata conviene essere congiunta coll’alterante, sì come vuole lo Filosofo nel settimo della Fisica e nel primo Di Generazione.

 Queste cose proposte, così procedo, e dico che le divizie, come altri credea, non possono dare nobilitade; e a mostrare maggiore diversitade avere con quella, dico che non la possono tòrre a chi l’hae. Dare non la possono, con ciò sia cosa che naturalmente siano vili, e per la viltade siano contrarie alla nobilitade. E qui s’intende viltade per degenerazione, la quale alla nobilitade s’oppone; con ciò sia cosa che l’uno contrario non sia fattore dell’altro né possa essere, per la prenarrata cagione, la quale brievemente s’aggiunge allo testo, dicendo:

poi chi pinge figura,

[se non può esser lei, non la può porre].

 Onde nullo dipintore potrebbe porre alcuna figura, se intenzionalmente non si facesse prima tale quale la figura essere dee. Ancora: tòrre non la possono, però che da lungi sono di nobilitade, e per la ragione prenarrata, che [ciò che] àltera o corrompe alcuna cosa, convegna essere congiunto con quella.  E però soggiunge:

né la diritta torre

fa piegar rivo che da lungi corre:

che non vuole altro dire se non rispondere a ciò che detto è dinanzi, che le divizie non possono tòrre nobilitade, dicendo quasi quella, [cioè] nobilitade, essere torre diritta, e le divizie fiume da lungi corrente.

XI. Resta omai solamente a provare come le divizie sono vili, e come disgiunte sono e lontane da nobilitade; e ciò si pruova in due particulette del testo alle quali si conviene al presente intendere. E poi quelle esposte, sarà manifesto ciò che detto ho, cioè le divizie essere vili e lontane da nobilitade; e per questo saranno le ragioni di sopra contra le divizie perfettamente provate.

 Dico adunque:

Che siano vili appare ed imperfette.

E a manifestare ciò che dire s’intende, è da sapere che la viltade di ciascuna cosa dalla imperfezione di quella si prende, e così la nobilitade dalla perfezione: onde tanto quanto la cosa è perfetta, tanto è in sua natura nobile; quanto imperfetta, tanto vile. E però, se le divizie sono imperfette, manifesto è che siano vili.  E che elle siano imperfette, brievemente pruova lo testo quando dice:

ché, quantunque collette,

non posson quïetar, ma dan più cura:

in che non solamente la loro imperfezione è manifesta, ma la loro condizione essere imperfettissima, e per[ò] essere quelle vilissime. E ciò testimonia Lucano quando dice, a quelle parlando: "Sanza contenzione periro le leggi; e voi, ricchezze, vilissima parte delle cose, moveste battaglia".

 Puotesi brievemente la loro imperfezione in tre cose vedere apertamente: e prima, nello indiscreto loro avenimento; secondamente, nel pericoloso loro acrescimento; terziamente, nella dannosa loro possessione.

 E prima ch’io ciò dimostri, è da dichiarare un dubio che pare consurgere: che, con ciò sia cosa che l’oro, le margherite e li campi perfettamente forma e atto abbiano in loro essere, non pare vero dicere che siano [cose] imperfette. E però si vuole sapere che, quanto è per esse, in loro considerate, cose perfette sono, e non sono ricchezze, ma oro e margherite [e campi]; ma in quanto sono ordinate alla possessione dell’uomo, sono ricchezze, e per questo modo sono piene d’imperfezione. Ché non è inconveniente, una cosa, secondo diversi rispetti, essere perfetta e imperfetta.

 Dico che la loro imperfezione primamente si può notare nella indiscrezione del loro avenimento, nel quale nulla distributiva giustizia risplende, ma tutta iniquitade quasi sempre: la quale iniquitade è propio effetto d’imperfezione.  Ché se si considerano li modi per li quali esse vegnono, tutti si possono in tre maniere ricogliere: ché o vegnono da pura fortuna, sì come quando sanza intenzione o speranza vegnono per invenzione alcuna non pensata; o vegnono da fortuna che è da ragione aiutata, sì come per testamenti o per mutua successione; o vegnono da fortuna aiutatrice di ragione, sì come quando per licito o per illicito procaccio: licito dico, quando è per arte o per mercatantia o per servigio meritante; illicito dico, quando è per furto o per rapina.

 E in ciascuno di questi tre modi si vede quella iniquitade che io dico, ché più volte alli malvagi che alli buoni le celate ricchezze che si truovano o che si ritruovano si rapresentano; e questo è sì manifesto, che non ha mestiere di pruova. Veramente io vidi lo luogo, nelle coste d’uno monte che si chiama Falterona, in Toscana, dove lo più vile villano di tutta la contrada, zappando, più d’uno staio di santalene d’argento finissimo vi trovò, che forse più di dumilia anni l’aveano aspettato.  E per vedere questa iniquitade, disse Aristotile che "quanto l’uomo più subiace allo ’ntelletto, tanto meno subiace alla fortuna".

 E dico che più volte alli malvagi che alli buoni pervegnono li retaggi, legati e caduci; e di ciò non voglio recare innanzi alcuna testimonianza, ma ciascuno volga li occhi per la sua vicinanza, e vedrà quello che io mi taccio per non abominare alcuno. Così fosse piaciuto a Dio che quello che adomandò lo Provenzale fosse stato, che chi non è reda della bontade perdesse lo retaggio dell’avere!

 E dico che più volte alli malvagi che alli buoni pervegnono apunto li procacci: ché li non liciti alli buoni mai non pervegnono, però che li rifiutano. E quale buono uomo mai per forza o per fraude procaccerà? Impossibile sarebbe ciò, ché solo per la elezione della illicita impresa più buono non sarebbe. E li liciti rade volte pervegnono alli buoni, perché, con ciò sia cosa che molta sollicitudine quivi si richeggia, e la sollicitudine del buono sia diritta a maggiori cose, rade volte sofficientemente quivi lo buono è sollicito.

 Per che è manifesto in ciascuno modo quelle ricchezze iniquamente avenire; e però Nostro Segnore inique le chiamò, quando disse: "Fatevi amici della pecunia della iniquitade", invitando e confortando li uomini a liber[ali]tade di beneficî, che sono generatori d’amici.  E quanto fa bello cambio chi di queste imperfettissime cose dà, per avere e per acquistare cose perfette, sì come li cuori delli valenti uomini! Lo cambio ogni die si può fare. Certo nuova mercatantia è questa dell’altre, che, credendo comperare uno uomo per lo beneficio, mille e mille ne sono comperati.  E cui non è ancora nel cuore Alessandro per li suoi reali beneficî? Cui non è ancora lo buono re di Castella o il Saladino o il buono Marchese di Monferrato o il buono Conte di Tolosa o Beltramo dal Bornio o Galasso di Montefeltro? Quando delle loro messioni si fa menzione, certo non solamente quelli che ciò farebbero volentieri, ma quelli [che] prima morire vorrebbero che ciò fare, amore hanno alla memoria di costoro.

XII. Come detto è, la imperfezione delle ricchezze non solamente nel loro [indiscreto] avenimento si può comprendere, ma eziandio nel pericoloso loro acrescimento; e però che in ciò più si può vedere di loro difetto, solo di questo fa menzione lo testo, dicendo quelle, "quantunque collette", non solamente non quietare, ma dare più sete e rendere altrui più defettivo e insufficiente.

 E qui si vuole sapere che le cose defettive possono avere li loro difetti per modo che nella prima faccia non paiono, ma sotto pretesto di perfezione la imperfezione si nasconde; e possono avere quelli sì che del tutto sono discoperti, sì che apertamente nella prima faccia si conosce la imperfezione.  E quelle cose che prima non mostrano li loro difetti sono più pericolose, però che di loro molte fiate prendere guardia non si può: sì come vedemo nel traditore, che nella faccia dinanzi si mostra amico, sì che fa di sé fede avere, e sotto pretesto d’amistade chiude lo difetto della inimistade. E per questo modo le ricchezze pericolosamente nel loro acrescimento sono imperfette, che, sommettendo ciò che promettono, apportano lo contrario.  Promettono le false traditrici sempre, in certo numero adunate, rendere lo raunatore pieno d’ogni appagamento; e con questa promessione conducono l’umana volontade in vizio d’avarizia. E per questo le chiama Boezio, in quello Di Consolazione, pericolose, dicendo: "Ohmè! chi fu quel primo che li pesi dell’oro coperto e le pietre che si voleano ascondere, preziosi pericoli, cavòe?".  Promettono le false traditrici, se bene si guarda, di tòrre ogni sete e ogni mancanza, e aportare ogni saziamento e bastanza; e questo fanno nel principio a ciascuno uomo, questa promessione in certa quantità di loro acrescimento affermando; e poi che quivi sono adunate, in loco di saziamento e di refrigerio danno e recano sete di casso febricante intollerabile; e in loco di bastanza recano nuovo termine, cioè maggiore quantitate a[l] desiderio, e con questa, paura grande [e] sollicitudine sopra l’acquisto. Sì che veramente non quietano, ma più danno cura, la qual prima sanza loro non si avea.  E però dice Tulio in quello Di Paradosso, abominando le ricchezze: "Io in nullo tempo per fermo né le pecunie di costoro, né le magioni magnifiche né le ricchezze né le segnorie né l’allegrezze delle quali massimamente sono astretti, tra cose buone o desiderabili essere dissi: con ciò sia cosa che certo io vedesse li uomini nell’abondanza di queste cose massimamente desiderare quelle di che abonda[va]no. Però che in nullo tempo si compie né si sazia la sete della cupiditate; né solamente per desiderio d’acrescere quelle cose che hanno si tormentano, ma eziandio tormento hanno nella paura di perdere quelle". E queste tutte parole sono di Tulio, e così giacciono in quello libro che detto è.  E a maggiore testimonianza di questa imperfezione, ecco Boezio in quello Di Consolazione dicente: "Se quanta rena volve lo mare turbato dal vento, se quante stelle rilucono, la dea della ricchezza largisca, l’umana generazione non cesserà di piangere".

 E perché più testimonianza a ciò redure per pruova si conviene, lascisi stare quanto contra esse Salomone e suo padre grida; quanto contra esse Seneca, massimamente a Lucillo scrivendo; quanto Orazio, quanto Giovenale e, brievemente, quanto ogni scrittore, ogni poeta; e quanto la verace Scrittura divina chiama contra queste false meretrici, piene di tutti difetti; e pongasi mente, per avere oculata fede, pur alla vita di coloro che dietro a esse vanno, come vivono sicuri quando di quelle hanno raunate, come s’apagano, come si riposano.  E che altro cotidianamente pericola e uccide le cittadi, le contrade, le singulari persone, tanto quanto lo nuovo raunamento d’avere appo alcuno? Lo quale raunamento nuovi desiderii discuopre, allo fine delli quali sanza ingiuria d’alcuno venire non si può. E che altro intende di medicare l’una e l’altra Ragione, Canonica dico e Civile, tanto quanto a riparare alla cupiditade che, raunando ricchezze, cresce? Certo assai lo manifesta e l’una e l’altra Ragione, se li loro cominciamenti, dico della loro scrittura, si leggono.

 Oh com’è manifesto, anzi manifestissimo, quelle in acrescendo essere del tutto imperfette, quando di loro altro che imperfezione nascere non può, quanto che acolte siano! E questo è quello che lo testo dice.

 Veramente qui surge in dubio una questione, da non trapassare sanza farla e rispondere a quella. Potrebbe dire alcuno calunniatore della veritade che se per crescere desiderio acquistando, le ricchezze sono imperfette e però vili, che per questa ragione sia imperfetta e vile la scienza, nell’acquisto della quale sempre cresce lo desiderio di quella; onde Seneca dice: "Se l’uno de’ piedi avesse nel sepulcro, aprendere vorrei".  Ma non è vero che la scienza sia vile per imperfezione: dunque, per la distruzione del consequente, lo crescere desiderio non è cagione di viltade alle ricchezze. Che sia perfetta, è manifesto per lo Filosofo nel sesto dell’Etica, che dice la scienza essere perfetta ragione di certe cose.

 A questa questione brevemente è da rispondere; ma prima è da vedere se nell’acquisto della scienza lo desiderio si sciampia come nella questione si pone, e se sia per ragione. Per che io dico che non solamente nell’acquisto della scienza e delle ricchezze, ma in ciascuno acquisto l’umano desiderio si dilata, avegna che per altro e altro modo.  E la ragione è questa: che lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima dalla natura dato, è lo ritornare allo suo principio. E però che Dio è principio delle nostre anime e fattore di quelle simili a sé (sì come è scritto: "Facciamo l’uomo ad imagine e simiglianza nostra"), essa anima massimamente desidera di tornare a quello.  E sì come peregrino che va per una via per la quale mai non fue, che ogni casa che da lungi vede crede che sia l’albergo, e non trovando ciò essere, dirizza la credenza all’altra, e così di casa in casa, tanto che all’albergo viene; così l’anima nostra, incontanente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra, dirizza li occhi al termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sé avere alcuno bene, crede che sia esso.  E perché la sua conoscenza prima è imperfetta per non essere esperta né dottrinata, piccioli beni le paiono grandi, e però da quelli comincia prima a desiderare. Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare uno augellino; e poi, più oltre, desiderare bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di queste cose truova quella che va cercando, e credela trovare più oltre.

 Per che vedere si può che l’uno desiderabile sta dinanzi all’altro alli occhi della nostra anima per modo quasi piramidale, che ’l minimo li cuopre prima tutti, ed è quasi punta dell’ultimo desiderabile, che è Dio, quasi base di tutti. Sì che, quanto dalla punta ver la base più si procede, maggiori apariscono li desiderabili; e questa è la ragione per che, acquistando, li desiderii umani si fanno più ampii, l’uno appresso dell’altro.

 Veramente così questo cammino si perde per errore come le strade della terra. Ché, sì come d’una cittade a un’altra di necessitade è una ottima e dirittissima via, e un’altra che sempre se ne dilunga (cioè quella che va nell’altra parte), e molte altre, quale meno alungandosi, quale meno appressandosi: così nella vita umana sono diversi cammini, delli quali uno è veracissimo e un altro è fallacissimo, e certi meno fallaci e certi meno veraci.  E sì come vedemo che quello che dirittissimo vae alla cittade, e compie lo desiderio e dà posa dopo la fatica, e quello che va in contrario mai nol compie e mai posa dare non può, così nella nostra vita aviene: lo buono camminatore giunge a termine e a posa; lo erroneo mai non l’aggiunge, ma con molta fatica del suo animo sempre colli occhi gulosi si mira innanzi.

 Onde, avegna che questa ragione del tutto non risponda alla questione mossa di sopra, almeno apre la via alla risposta, ché fa vedere non andare ogni nostro desiderio dilatandosi per uno modo.

 Ma perché questo capitolo è alquanto produtto, in capitolo nuovo alla questione è da rispondere, nel quale sia terminata tutta la disputazione che fare s’intende al presente contra le ricchezze.

XIII. Alla questione rispondendo, dico che propiamente crescere lo desiderio della scienza dire non si può, avegna che, come detto è, per alcuno modo si dilati. Ché quello che propiamente cresce, sempre è uno: lo desiderio della scienza non è sempre uno ma è molti, e finito l’uno, viene l’altro; sì che, propiamente parlando, non è crescere lo suo dilatare, ma successione di picciola cosa in grande cosa.  Ché se io desidero di sapere li principii delle cose naturali, incontanente che io so questi, è compiuto e terminato questo desiderio. E se poi io desidero di sapere che cosa e com’è ciascuno di questi principii, questo è un altro desiderio nuovo, né per l’avenimento di questo non mi si toglie la perfezione alla quale mi condusse l’altro; e questo cotale dilatare non è cagione d’imperfezione, ma di perfezione maggiore. Quello veramente della ricchezza è propiamente crescere, ché è sempre pur uno, sì che nulla successione quivi si vede, e per nullo termine e per nulla perfezione.

 E se l’avversario vuole dire che, sì come è altro desiderio quello di sapere li principii delle cose naturali, e altro di sapere che elli sono; così altro desiderio è quello delle cento marche, e altro è quello delle mille; rispondo che non è vero: ché ’l cento si è parte del mille, e ha ordine ad esso come parte d’una linea a tutta [la] linea, su per la quale si procede per uno moto solo, e nulla successione quivi è né perfezione di moto in parte alcuna.  Ma conoscere che siano li principii delle cose naturali, e conoscere quello che sia ciascheduno, non è parte l’uno dell’altro, e hanno ordine insieme come diverse linee, per le quali non [si] procede per uno moto, ma, perfetto lo moto dell’una, succede lo moto dell’altra.  E così appare che dal desiderio della scienza, la scienza non è da dire imperfetta sì come le ricchezze sono da dire per lo loro, come la questione ponea: ché nel desiderare della scienza successivamente finiscono li desiderii e vienesi a perfezione, e in quello della ricchezza no. Sì che la questione è soluta, e non ha luogo.

 Ben puote ancora calunniare l’aversario dicendo che, avegna che molti desiderii si compiano nello acquisto della scienza, mai non si viene all’ultimo: che è quasi simile alla [im]perfezione di quello che non si termina e che è pur uno.

 Ancora qui si risponde che non è vero ciò che si oppone, cioè che mai non si viene all’ultimo: ché li nostri desiderii naturali, sì come di sopra nel terzo trattato è mostrato, sono a certo termine discendenti; e quello della scienza è naturale, sì che certo termine quello compie, avegna che pochi, per male camminare, compiano la giornata.  E chi intende lo Comentatore nel terzo dell’Anima, questo intende da lui. E però dice Aristotile nel decimo dell’Etica, contra Simonide poeta parlando, che "l’uomo si dee traere alle divine cose quanto può": in che mostra che a certo fine bada la nostra potenza. E nel primo dell’Etica dice che "‘l disciplinato chiede di sapere certezza nelle cose, secondo che la loro natura di certezza si riceva": in che mostra che non solamente dalla parte dell’uomo desiderante, ma deesi fine attendere dalla parte dello scibile desiderato.  E però Paolo dice: "Non più sapere che sapere si convegna, ma sapere a misura". Sì che, per qualunque modo lo desiderare della scienza si prende, o generalmente o particularmente, a perfezione viene. E però la scienza [ha] perfetta e nobile perfezione, e per suo desiderio sua perfezione non perde come le maladette ricchezze.

 Le quali come nella loro possessione siano dannose brievemente è da mostrare, che è la terza nota della loro imperfezione. Puotesi vedere la loro possessione essere dannosa per due ragioni: l’una, che è cagione di male; l’altra, che è privazione di bene.

 Cagione è di male, ché fa, pur vegliando, lo possessore timido e odioso. Quanta paura è quella di colui che appo sé sente ricchezza, in camminando, in soggiornando, non pur vegghiando ma dormendo, non pur di perdere l’avere ma la persona per l’avere! Ben lo sanno li miseri mercatanti che per lo mondo vanno, che le foglie che ’l vento fa menare, li fa[n] tremare quando seco ricchezze portano; e quando sanza esse sono, pieni di sicurtade, cantando e ragionando fanno loro cammino più brieve.  E però dice lo Savio: "Se vòto camminatore entrasse nel cammino, dinanzi alli ladroni canterebbe". E ciò vuol dire Lucano nel quinto libro, quando commenda la povertà di sicuranza, dicendo: "Oh sicura facultà della povera vita! oh stretti abitaculi e masserizie! oh non ancora intese ricchezze delli Dèi! A quali tempî o a quali muri poteo questo avenire, cioè non temere con alcuno tumulto, bussando la mano di Cesare?". E quello dice Lucano quando ritrae come Cesare di notte alla casetta del pescatore Amiclas venne, per passare lo mare Adriano.

 E quanto odio è quello che ciascuno al posseditore della ricchezza porta, o per invidia o per desiderio di prendere quella possessione! Certo tanto è, che molte volte contra la debita pietade lo figlio alla morte del padre intende: e di questo grandissime e manifestissime esperienze possono avere i Latini e dalla parte di Po e dalla parte di Tevero! E però Boezio, nel secondo della sua Consolazione dice: "Per certo l’avarizia fa li uomini odiosi".

 Anche è privazione di bene la loro possessione. Ché, possedendo quelle, larghezza non si fa, che è vertude [nel]la quale è perfetto bene e la quale fa li uomini splendienti e amati: che non può essere possedendo quelle, ma quelle lasciando di possedere. Onde Boezio nel medesimo libro dice: "Allora è buona la pecunia, quando, transmutata nelli altri per uso di larghezza, più non si possiede". Per che assai è manifesto la loro viltade per tutte le sue note.

 E però l’uomo di diritto appetito e di vera conoscenza quelle mai non ama, e non amandole, [mai] non si unisce ad esse, ma quelle sempre di lungi da sé essere vuole, se non in quanto ad alcuno necessario servigio sono ordinate. Ed è cosa ragionevole, però che lo perfetto collo imperfetto non si può congiugnere: onde vedemo che la torta linea colla diritta non si congiunge mai, e se alcuno congiungimento v’è, non è da linea a linea ma da punto a punto.  E però séguita che l’animo che è "diritto", cioè d’appetito, e "verace", cioè di conoscenza, per loro perdita non si disface; sì come lo testo pone nel fine di questa parte. E per questo effetto intende di provare lo testo che elle siano fiume corrente di lungi dalla diritta torre della ragione o vero di nobilitade; e per questo, che esse divizie non possono tòrre la nobilitade a chi l’ha.

 E per questo modo disputasi e ripruovasi contra le ricchezze per la presente canzone.

XIV. Riprovato l’altrui errore quanto è in quella parte che alle ricchezze s’appoggiava, [séguita che si ripruovi quanto è] in quella parte che tempo diceva essere cagione di nobilitade, dicendo ‘antica ricchezza’. E questa riprovagione si fa in quella parte che comincia:

Né voglion che vil uom gentil divegna.

 E in prima si ripruova ciò per una ragione di costoro medesimi che così errano; poi, a maggiore loro confusione, questa loro ragione anche si distrugge: e ciò si fa quando dice:

Ancor, segue di ciò che innanzi ho messo.

Ultimamente [si] conchiude manifesto essere lo loro errore, e però essere tempo d’intendere alla veritade: e ciò si fa quando dice:

Per che a ’ntelletti sani.

 Dico adunque:

Né voglion che vil uom gentil divegna.

Dove è da sapere che oppinione di questi erranti è che uomo prima villano mai gentile uomo dicer non si possa; né uomo che figlio sia di villano similemente dicere mai non si possa gentile. E ciò rompe la loro sentenza medesima, quando dicono che tempo si richiede a nobilitade, ponendo questo vocabulo ‘antico’: però ch’è impossibile per processo di tempo venire alla generazione di nobilitade per questa loro ragione che detta è, la quale toglie via che villano uomo mai non possa essere gentile per opera che faccia o per alcuno accidente, e toglie via la mutazione di villano padre in gentile figlio.  Ché se lo figlio del villano è pur villano, e lo figlio fia pur figlio di villano e così fia anche villano, e anche suo figlio, e così sempre, [e] mai non s’avrà [a] trovare là dove nobilitade per processo di tempo si cominci.

 E se l’aversario, volendosi difendere, dicesse che la nobilitade si comincerà in quel tempo che si dimenticherà lo basso stato degli antecessori, rispondo che ciò fia contro a loro medesimi, ché pur di necessitade quivi sarà transmutazione di viltade in gentilezza d’un uomo in altro o di padre a figlio: che è contro a ciò che essi pongono.

 E se l’aversario pertinacemente si difendesse, dicendo che bene vogliono questa transmutazione potersi fare quando lo basso stato delli antecessori corre in oblivione, avegna che ’l testo ciò non curi, degno è che la chiosa a ciò risponda. E però rispondo così: che di ciò che dicono seguitano quattro grandissimi inconvenienti, sì che buona ragione essere non può.

 L’uno si è che quanto la natura umana fosse migliore tanto sarebbe più malagevole e più tarda [la] generazione di gentilezza; - che è massimo inconveniente, con ciò sia cosa che quanto la cosa è migliore, tanto è più cagione di bene; e nobilitade intra li beni sia commemorata -. E che ciò fosse così si pruova.  Se la gentilezza o ver nobilitade (che per una cosa intendo) si generasse per oblivione, [quanto più tosto venisse l’oblivione], più tosto sarebbe generata la nobilitade; e quanto li uomini fossero più smemorati, tanto più tosto ogni oblivione verrebbe. Dunque, quanto li uomini smemorati più fossero, più tosto sarebbero nobili; e per contrario, quanto con più buona memoria, tanto più tardi nobili si farebbero.

 Lo secondo si è, che [in] nulla cosa, fuori delli uomini, questa distinzione si potrebbe fare, cioè nobile o vile: che è molto inconveniente, con ciò sia cosa che in ciascuna spezie di cose veggiamo l’imagine di nobilitade e di viltade; onde spesse volte diciamo uno nobile cavallo e uno vile, e uno nobile falcone e uno vile, e una nobile margarita e [una] vile. E che non si potesse fare questa distinzione, così si pruova.  Se la oblivione delli bassi antecessori è cagione di nobilitade, e là ovunque bassezza d’antecessori mai non fu, non può essere la oblivione di quelli, con ciò sia cosa che la oblivione sia corruzione di memoria, e in questi altri animali e piante e minere bassezza e altezza non si noti, però che in uno sono naturati solamente ed iguale stato; in loro generazione di nobilitade essere non può; e così né [di] viltade, con ciò sia cosa che l’una e l’altra si guardi come abito e privazione, che sono ad uno medesimo subietto possibili: e però in loro dell’una e dell’altra non potrebbe essere distinzione.

 E se l’aversario volesse dicere che nell’altre cose nobilità s’intende per la bontà della cosa, ma nelli uomini s’intende perché di sua bassa condizione non è memoria, rispondere si vorrebbe non colle parole ma col coltello a tanta bestilitade, quanta è dare alla nobilitade dell’altre cose bontade per cagione, e a quella delli uomini per principio dimenticanza.

 Lo terzo si è che molte volte verrebbe prima lo generato che lo generante: che è del tutto impossibile; e ciò si può così mostrare. Pognamo che Gherardo da Cammino fosse stato nepote del più vile villano che mai bevesse del Sile o del Cagnano, e la oblivione non fosse ancora del suo avolo venuta. Chi sarà oso di dire che Gherardo da Cammino fosse vile uomo? e chi non parlerà meco dicendo quello essere stato nobile? Certo nullo, quanto vuole sia presuntuoso, però che elli fu, e fia sempre la sua memoria.  E se la oblivione del suo basso antecessore non fosse venuta, sì come s[i] [s]uppone, ed ello fosse grande di nobilitade e la nobilitade in lui si vedesse così apertamente come aperta si vede, prima sarebbe stata in lui che ’l generante suo fosse stato: e questo è massimamente impossibile.

 Lo quarto si è che tale uomo sarebbe tenuto nobile morto che non fu nobile vivo: che più inconveniente essere non potrebbe; e ciò così si mostra. Pognamo che nella etade di Dardano de’ suoi antecessori bassi fosse memoria, e pognamo che nella etade di Laomedonte questa memoria fosse disfatta, e venuta l’oblivione. Secondo l’oppinione avversa, Laomedonte fu gentile e Dardano fu villano in loro vita. Noi, alli quali la memoria delli loro antecessori, dico di là da Dardano, [non è rimasa, teniamo Dardano essere stato nobile; di che segue che Dardano] vivendo fosse villano e morto sia nobile.  E non è contro a ciò, che si dice Dardano essere stato figlio di Giove, ché ciò è favola, della quale, filosoficamente disputando, curare non si dee; e pur se [si] volesse alla favola fermare l’aversario, di certo quello che la favola cuopre disfà tutte le sue ragioni.

 E così è manifesto, la ragione che ponea la oblivione causa di nobilitate essere falsa ed erronea.

XV. Da poi che per la loro medesima sentenza la canzone ha riprovato tempo non richiedersi a nobilitade, incontanente séguita a confondere la premessa loro oppinione, acciò che di loro false ragioni nulla ruggine rimagna nella mente che alla verità sia disposta; e questo fa quando dice:

Ancor, segue di ciò che innanzi ho messo.

 Ove è da sapere che, se uomo non si può fare di villano gentile o di vile padre non può nascere gentile figlio, sì come messo è dinanzi per loro oppinione, che delli due inconvenienti l’uno seguire conviene: l’uno si è che nulla nobilitade sia; l’altro si è che ’l mondo sempre sia stato con più uomini, sì che da uno solo la umana generazione discesa non sia. E [così] ciò si può mostrare.

 Se nobilitade non si genera di nuovo, sì come più volte è detto che la loro oppinione vuole (non generandosi di vile uomo in lui medesimo, né di vile padre in figlio), sempre è l’uomo tale quale nasce, e tale nasce quale è lo padre; e così questo processo d’una condizione è venuto infino dal primo parente: per che tale quale fu lo primo generante, cioè Adamo, conviene essere tutta l’umana generazione, ché da lui alli moderni non si puote trovare per quella ragione alcuna transmutanza.  Dunque, se esso Adamo fu nobile, tutti siamo nobili, e se esso fu vile, tutti siamo vili: che non è altro che tòrre via la distinzione di queste condizioni, e così è tòrre via quelle. E questo dice [quando dice] che di quello ch’è messo dinanzi séguita

che siàn tutti gentili o ver villani.

 E se questo non è, [e] pur alcuna gente è da dire nobile e alcuna è da dire vile; di necessitade, da poi che la transmutazione di viltade in nobilitade è tolta via, conviene l’umana generazione da diversi principii essere discesa, cioè da uno nobile e da uno vile. E ciò dice la canzone, quando dice:

o che non fosse ad uom cominciamento,

cioè uno solo: non dice ‘cominciamenti’. E questo è falsissimo appo lo Filosofo, appo la nostra Fede che mentire non puote, appo la legge e credenza antica delli gentili.  Ché, avegna che ’l Filosofo non pogna lo processo da uno primo uomo, pur vuole una sola essenzia essere in tutti li uomini, la quale diversi principii avere non puote; e Plato vuole che tutti li uomini da una sola Idea dependano, e non da più, che è dare loro uno solo principio. E sanza dubio forte riderebbe Aristotile udendo fare spezie due dell’umana generazione, sì come delli cavalli e delli asini; ché, perdonimi Aristotile, asini ben si possono dire coloro che così pensano.

 Che appo la nostra Fede, la quale del tutto è da conservare, sia falsissimo, per Salomone si manifesta, che là dove distinzione fa di tutti li uomini alli animali bruti, chiama quelli tutti figli d’Adamo; e ciò fa quando dice: "Chi sa se li spiriti delli figliuoli d’Adamo vadano suso, e quelli delle bestie vadano giuso?".

 E che appo li gentili falso fosse, ecco la testimonianza d’Ovidio nel primo del suo Metamorfoseos, dove tratta la mundiale constituzione secondo la credenza pagana o vero delli gentili, dicendo: "Nato è l’uomo"; non disse ‘li uomini’, disse: "Nato è l’uomo, o vero che questo l’artefice delle cose di seme divino fece, o vero che la recente terra, di poco dipartita dal nobile corpo sottile e diafano, li semi del cognato cielo ritenea. La quale, mista coll’acqua del fiume, lo figlio di Iapeto", cioè Prometeos, "compuose in imagine delli Dei che tutto governano". Dove manifestamente pone lo primo uomo uno solo essere stato.  E però dice la canzone:

ma ciò io non consento,

cioè che cominciamento ad uomo non fosse. E soggiunge la canzone:

néd ellino altressì, se son cristiani;

e dice cristiani, e non filosofi o vero gentili, [delli quali] le sentenze anco sono in contro, però che la cristiana sentenza è di maggiore vigore, ed è rompitrice d’ogni calunnia, mercé della somma luce del cielo che quella allumina.

 Poi quando dico:

Per che a ’ntelletti sani è manifesto i loro diri esser vani,

conchiudo lo loro errore essere confuso, e dico che tempo è d’aprire li occhi alla veritade; e questo dice quando dico:

e dicer voglio omai, sì com’io sento.

Dico adunque che, per quello che detto è, è manifesto alli sani intelletti che i detti di costoro sono vani, cioè sanza midolla di veritade. E dico sani non sanza cagione.

 Onde è da sapere che lo nostro intelletto si può dir sano e infermo: e dico ‘intelletto’ per la nobile parte dell’anima nostra che con uno vocabulo ‘mente’ si può chiamare. Sano dire si può quando per malizia d’animo o di corpo impedito non è nella sua operazione; che è conoscere quello che le cose sono, sì come vuole Aristotile nel terzo dell’Anima.  Ché, secondo la malizia dell’anima, tre orribili infermitadi nella mente delli uomini ho vedute. L’una è di naturale jattanza causata: ché sono molti tanto presuntuosi, che si credono tutto sapere, e per questo le non certe cose affermano per certe; lo qual vizio Tulio massimamente abomina nel primo delli Officii [e] Tommaso nel suo Contra li Gentili, dicendo: "Sono molti tanto di suo ingegno presuntuosi, che credono col suo intelletto potere misurare tutte le cose, estimando tutto vero quello che a loro pare, falso quello che a loro non pare".  E quinci nasce che mai a dottrina non vegnono; credendo da sé sufficientemente essere dottrinati, mai non domandano, mai non ascoltano, disiano essere domandati, e anzi la domandagione compiuta, male rispondono. E per costoro dice Salomone nelli Proverbii: "Vedesti l’uomo ratto a rispondere? Di lui stoltezza più che correzione è da sperare".

 L’altra è di naturale pusillanimitade causata: ché sono molti tanto vilmente ostinati, che non possono credere che né per loro né per altrui si possano le cose sapere; e questi cotali mai per loro non cercano né ragionano, mai quello che altri dice non curano. E contra costoro Aristotile parla nel primo dell’Etica, dicendo quelli essere insufficienti uditori della morale filosofia. Costoro sempre come bestie in grossezza vivono, d’ogni dottrina disperati.

 La terza è da levitade di natura causata: ché sono molti di sì lieve fantasia, che in tutte le loro ragioni transvanno, e anzi che silogizzino hanno conchiuso, e di quella conclusione vanno transvolando nell’altra, e pare loro sottilissimamente argomentare, e non si muovono da neuno principio, e nulla cosa veramente veggiono vera nel loro imagin[ar]e.  E di costoro dice lo Filosofo che non è da curare né d’avere con essi faccenda, dicendo nel primo della Fisica che "contra quelli che niega li principii disputare non si conviene". E di questi cotali sono molti idioti che non saperebbero l’a. b. c. e vorrebbero disputare in geometria, in astrologia e in fisica.

 E secondo malizia o vero difetto di corpo, può essere la mente non sana: quando per difetto d’alcuno principio dalla nativitade, sì come [sono] mentecatti; quando per l’alterazione del cerebro, sì come sono frenetici. E di questa infertade della mente intende la legge quando lo Inforzato dice: "In colui che fa testamento, di quel tempo nel quale lo testamento fa, sanitade di mente, non di corpo, è a domandare".

 Per che a quelli intelletti che per malizia d’animo o di corpo infermi non sono, liberi, espediti e sani alla luce della veritade, dico essere manifesto, l’oppinione della gente che detta è, essere vana, cioè sanza valore.

 Apresso soggiunge che io così li giudico falsi e vani, e così li ripruovo; e ciò si fa quando si dice:

e io così per falsi li riprovo.

E apresso dico che da venire è alla veritade mostrare; e dico che mostrerò quella, cioè che cosa è gentilezza, e come si può conoscere l’uomo in cui essa è. E ciò dico quivi:

e dicer voglio omai, sì com’io sento.

XVI. "Lo rege si letificherà in Dio, e saranno lodati tutti quelli che giurano in lui, però che serrata è la bocca di coloro che parlano le inique cose". Queste parole posso io qui veramente proponere; però che ciascuno vero rege dee massimamente amare la veritade. Onde è scritto nel libro di Sapienza: "Amate lo lume di sapienza, voi che siete dinanzi alli populi"; e lo lume di sapienza è essa veritade. Dico adunque che però si ralegrerà ogni rege che riprovata è la falsissima e dannosissima oppinione delli malvagi e ingannati uomini, che di nobilitade hanno infino a ora iniquamente parlato.

 Convienesi [omai] procedere al trattato della veritade, secondo la divisione fatta di sopra nel terzo capitolo del presente trattato. Questa seconda parte adunque, che comincia:

Dico ch’ogni vertù principalmente,

intende diterminare d’essa nobilitade secondo la veritade; e partesi questa parte in due: ché nella prima s’intende mostrare che è questa nobilitade; nella seconda s’intende mostrare come conoscere si puote colui dov’ella è; e comincia questa parte seconda:

L’anima cui adorna esta bontate.

 La prima parte ha due parti ancora: ché nella prima si cercano certe cose che sono mestiere a vedere la diffinizione di nobilitade; nella seconda si cerca della sua diffinizione; e comincia questa seconda parte:

È gentilezza dovunqu’è vertute.

 A perfettamente intrare per lo trattato è prima da vedere due cose: l’una [è], che per questo vocabulo ‘nobilitade’ s’intende, solo semplicemente considerato; l’altra è, per che via sia da camminare a cercare la prenominata diffinizione.

 Dico adunque che, se volemo riguardo avere alla comune consuetudine di parlare, per questo vocabulo ‘nobilitade’ s’intende ‘perfezione di propia natura in ciascuna cosa’. Onde non pur dell’uomo è predicata, ma eziandio di tutte cose: ché l’uomo chiama nobile pietra, nobile pianta, nobile cavallo, nobile falcone, [e così] qualunque [cosa] in sua natura si vede essere perfetta. E però dice Salomone nello Ecclesiastes: "Beata la terra lo cui rege è nobile", che non è altro a dire, se non: lo cui rege è perfetto secondo la perfezione dell’animo e del corpo; e ciò si manifesta per quello che dice dinanzi quando dice: "Guai a te, terra, lo cui rege è pargolo", cioè non perfetto uomo: e non è pargolo uomo pur per etade, ma per costumi disordinati e per difetto di vita, sì come n’amaestra lo Filosofo nel primo dell’Etica.

 Bene sono alquanti folli che credono che per questo vocabulo ‘nobile’ s’intenda ‘essere da molti nominato e conosciuto’, e dicono che viene da uno verbo che sta per conoscere, cioè ‘nosco’. E questo è falsissimo; ché se ciò fosse, quali cose più fossero nomate e conosciute in loro genere, più sarebbero in loro genere nobili: e così la guglia di San Piero sarebbe la più nobile pietra del mondo; e Asdente, lo calzolaio da Parma, sarebbe più nobile che alcuno suo cittadino; e Albuino della Scala sarebbe più nobile che Guido da Castello di Reggio: che ciascuna di queste cose è falsissima. E però è falsissimo che ‘nobile’ vegna da ‘conoscere’, ma viene da ‘non-vile’; onde ‘nobile’ è quasi ‘non vile’.

 Questa perfezione intende lo Filosofo nel settimo della Fisica quando dice: "Ciascuna [cosa] è massimamente perfetta quando tocca e aggiugne la sua vertude propia, e allora è massimamente secondo sua natura; onde allora lo circulo si può dicere perfetto quando veramente è circulo", cioè quando aggiugne la sua propia vertude; e allora è in tutta sua natura, e allora si può dire nobile circulo.  E questo è quando in esso è uno punto, lo quale equalmente distante sia dalla circunferenza, [..] sua virtute parte per lo circulo; ché [lo circulo che] ha figura d’uovo non è nobile, [n]é quello che ha figura di presso che piena luna, però che non è in quello sua natura perfetta. E così manifestamente vedere si può che generalmente questo vocabulo, cioè ‘nobilitade’, dice in tutte cose perfezione di loro natura: e questo è quello che primamente si cerca[va] per meglio entrare nel trattato della parte che esponere s’intende.

 Secondamente è da vedere come da camminare è a trovare la diffinizione dell’umana nobilitade, alla quale intende lo presente processo. Dico adunque che, con ciò sia cosa che in quelle cose che sono d’una spezie, sì come sono tutti li uomini, non si può per li principii essenziali la loro ottima perfezione diffinire, convienesi quella e diffinire e conoscere per li loro effetti.  E però si legge nel Vangelio di santo Mateo - quando dice Cristo: "Guardatevi dalli falsi profeti" -: "Alli frutti loro conoscerete quelli". E per lo cammino diritto è da vedere, questa diffinizione che cercando si vae, per li frutti: che sono morali vertù e intellettuali, delle quali essa nostra nobilitade è seme, sì come nella sua diffinizione sarà pienamente manifesto.

 E queste sono quelle due cose che vedere si convenia prima che ad altre si procedesse, sì come in questo capitolo di sopra si dice.

XVII. Apresso che vedute sono quelle due cose che parevano utili a vedere prima che sopra lo testo si procedesse, ad esso esponere è da procedere. E dice e comincia adunque:

Dico ch’ogni vertù principalmente

vien da una radice:

vertute, dico, che fa l’uom felice

in sua operazione.

E soggiungo:

Questo è, secondo che l’Etica dice,

un abito eligente,

ponendo tutta la diffinizione della morale vertù secondo che nel secondo dell’Etica è per lo Filosofo diffinito.  In che due cose principalmente s’intende: l’una è che ogni vertù vegna d’uno principio; l’altra sì è che queste "ogni vertù" siano le vertù morali, di cui si parla; e ciò si manifesta quando dice:

Questo è, secondo che l’Etica dice.

 Dove è da sapere che propiissimi nostri frutti sono le morali vertudi, però che da ogni canto sono in nostra podestade. E queste diversamente da diversi filosofi sono distinte e numerate; ma però che in quella parte dove aperse la bocca la divina sentenza d’Aristotile, da lasciare mi pare ogni altrui sentenza, volendo dire quali queste sono, brevemente secondo la sua sentenza trapasserò di quelle ragionando.

 Queste sono undici vertudi dal detto Filosofo nomate. La prima si chiama Fortezza, la quale è arme e freno a moderare l’audacia e la timiditade nostra nelle cose che sono corruzione della nostra vita. La seconda [si] è Temperanza, che è regola e freno della nostra gulositade e della nostra soperchievole astinenza nelle cose che conservano la nostra vita. La terza si è Liberalitade, la quale è moderatrice del nostro dare e del nostro ricevere le cose temporali.  La quarta si è Magnificenza, la quale è moderatrice delle grandi spese, quelle faccendo e sostenendo a certo termine. La quinta si è Magnanimitade, la quale è moderatrice e acquistatrice de’ grandi onori e fama. La sesta si è Amativa d’onore, la quale ordina noi alli onori di questo mondo. La settima si è Mansuetudine, la quale modera la nostra ira e la nostra troppa pazienza contra li mali esteriori.  L’ottava si è Affabilitade, la quale fa noi ben convivere colli altri. La nona si è chiamata Veritade, la quale modera noi dal vantare noi oltre che siamo e dallo diminuire noi oltre che siamo, in nostro sermone. La decima si è chiamata Eutrapelia, la quale modera noi nelli sollazzi, faccendo quelli [e] usando debitamente. La undecima si è Giustizia, la quale ordina noi ad amare e operare dirittura in tutte cose.

 E ciascuna di queste vertudi ha due inimici collaterali, cioè vizii, uno in troppo e un altro in poco; e queste tutte sono li mezzi intra quelli, e nascono tutte da uno principio, cioè dall’abito della nostra buona elezione: onde generalmente si può dicere di tutte che siano abito elettivo consistente nel mezzo.  E queste sono quelle che fanno l’uomo beato o vero felice nella loro operazione, sì come dice lo Filosofo nel primo dell’Etica quando diffinisce la Felicitade dicendo che "Felicitade è operazione secondo virtude in vita perfetta". Bene si pone Prudenza, cioè senno, per molti, essere morale vertù; ma Aristotile dinumera quella intra le intellettuali; avegna che essa sia conduttrice delle morali vertù e mostri la via per ch’elle si compongono, e sanza quella essere non possono.

 Veramente è da sapere che noi potemo avere in questa vita due felicitadi, secondo due diversi cammini, buono e ottimo, che a ciò ne menano: l’uno è la vita attiva, e l’altro la contemplativa; la quale, avegna che per l’attiva si pervegna, come detto è, a buona felicitade, ne mena ad ottima felicitade e beatitudine, secondo che pruova lo Filosofo nel decimo dell’Etica.  E Cristo l’afferma colla sua bocca nel Vangelio di Luca, parlando a Marta e rispondendo a quella: "Marta, Marta, sollicita se’ e turbiti intorno a molte cose: certamente una cosa è necessaria", cioè ‘quello che fai’. E soggiunge: "Maria ottima parte ha eletta, la quale non le sarà tolta". E Maria, secondo che dinanzi è scritto a queste parole del Vangelio, a’ piedi di Cristo sedendo, nulla cura del ministerio della casa mostrava, ma solamente le parole del Salvatore ascoltava. Che se moralmente ciò volemo esponere, volse lo nostro Segnore in ciò mostrare che la contemplativa vita fosse ottima, tutto che buona fosse l’attiva: ciò è manifesto a chi ben vuole porre mente alle evangeliche parole.

 Potrebbe alcuno però dire, contra me argomentando: poi che la felicitade della vita contemplativa è più eccellente che quella dell’attiva, e l’una e l’altra possa essere e sia frutto e fine di nobilitade, perché non anzi si procedette per la via delle virtù intellettuali che delle morali?

 A ciò si può brevemente rispondere che in ciascuna dottrina si dee avere rispetto alla facultà del discente, e per quella via menarlo che più a lui sia lieve. Onde, perciò che le virtù morali paiano essere e siano più comuni e più sapute e più richieste che l’altre e imitate nello aspetto di fuori, utile e convenevole fue più per quello cammino procedere che per l’altro: ché così bene [non] si verrebbe alla conoscenza delle api per lo frutto della cera ragionando come per lo frutto del mèle, tutto che l’uno e l’altro da loro procede.

XVIII. Nel precedente capitolo è diterminato come ogni vertù morale viene da uno principio, cioè buona e abituale elezione; e ciò importa lo testo presente infino a quella parte che comincia:

Dico che nobiltate in sua ragione.

 In questa parte adunque si procede per via probabile a sapere che ogni sopra detta vertude, singularmente o vero generalmente presa, proceda da nobilitade sì come effetto da sua cagione. E fondasi sopra una proposizione filosofica, che dice che, quando due cose si truovano convenire in una, che ambo queste si deono riducere ad alcuno terzo o vero l’una all’altra, sì come effetto a cagione: però che una cosa avuta prima e per sé non può essere se non da uno; e se quelle non fossero ambedue effetto d’un terzo, o vero l’una dell’altra, ambedue averebbero quella cosa prima e per sé, ch’è impossibile.

 Dice adunque che nobilitade e "vertute cotale", cioè morale, convegnono in questo, che l’una e l’altra importa loda di colui di cui si dice; e dico ciò quando dice:

per che in medesmo detto

convegnono ambedue, ch’èn d’uno effetto,

cioè lodare e rendere pregiato colui cui essere [si] dicono. E poi conchiude prendendo la vertude della sopra notata proposizione, e dice che però conviene l’una procedere dall’altra, o vero ambe da uno terzo; e soggiunge che più tosto è da presummere l’una venire dall’altra che ambe da [uno] terzo, s’elli appare che l’una vaglia quanto l’altra e più ancora; e ciò dice [quando dice]:

ma se l’una val ciò che l’altra vale.

 Ove è da sapere che qui non si procede per necessaria dimostrazione, sì come sarebbe a dire: ‘Se [..........................] lo freddo è generativo dell’acqua, e noi vedemo li nuvoli [............], sì di bella e convenevole induzione: che se in noi sono più cose laudabili, [e] in noi è lo principio delle nostre lode, ragionevole è queste a questo principio riducere; e quello che comprende più cose, più ragionevolemente si dee dire principio di quelle, che quelle principio di lui.  Ché lo piè dell’albero, che tutti li altri rami comprende, si dee principio dire [e] cagione di quelli, e non quelli di lui; e così nobilitade, [che] comprende ogni vertude sì come cagione effetto comprende, [e] molte altre nostre operazioni laudabili, si dee avere per tale che la vertude sia da redure ad essa prima che ad altro terzo che in noi sia.

 Ultimamente dice che quello ch’è detto (cioè, che ogni vertù morale vegna da una radice, e che vertù cotale e nobilitade convegnano in una cosa, come detto è di sopra; e che però si convegna l’una reducere all’altra, o vero ambe ad uno terzo; e che se l’una vale quello che l’altra e più, di quella [questa] proceda maggiormente che [ambe] d’altro terzo), tutto "sia per supposto", cioè ordito e apparecchiato a quello che per innanzi s’intende.

 E così termina questo verso e questa presente parte.

XIX. Poi che nella precedente parte sono pertrattate certe cose [e] determinate, ch’erano necessarie a vedere come diffinire si possa questa buona cosa di che si parla, procedere si conviene alla seguente parte, che comincia:

È gentilezza dovunqu’è vertute.

 E questa si vuole in due parti reducere: nella prima si pruova certa cosa che dinanzi è toccata e lasciata non provata; nella seconda, conchiudendo, si truova questa diffinizione che cercando si va. E comincia questa seconda parte:

Dunque verrà, come dal nero il perso.

 Ad evidenzia della prima parte, da reducere a memoria è che di sopra si dice che se nobilitade vale e si stende più che vertute, [vertute] più tosto procederà da essa. La quale cosa ora questa parte pruova, cio[è] che nobilitade più si stenda; e rende essemplo del cielo, dicendo che dovunque è vertude, quivi è nobilitade.

 E qui si vuole sapere che, sì come scritto è in Ragione e per regola di ragione si tiene, quelle cose che per sé sono manifeste non hanno mestiere di pruova: e nulla n’è più manifesta che nobilitade essere dove è vertude, [ché] ciascuna cosa volgarmente vedemo, in sua natura [virtuosa], nobile essere chiamata.

 Dice adunque:

si com’è ’l cielo dovunqu’è la stella,

e non è questo vero e converso, cioè rivolto, che dovunque è cielo sia la stella, così è nobilitade dovunque è virtute, e non virtute dovunque è nobilitade: e con bello e convenevole essemplo, ché veramente [nobilitade] è cielo nello quale molte e diverse stelle rilucono. Riluce in essa le intellettuali e le morali virtudi; riluce in essa le buone disposizioni da natura date, cioè pietade e religione, [e] le laudabili passioni, cioè vergogna e misericordia e altre molte; riluce in essa le corporali bontadi, cioè bellezza e fortezza e quasi perpetua valitudine.  E tante sono le sue stelle che del cielo risplendono, che certo non è da maravigliare se molti e diversi frutti fanno nella umana nobilitade: tante sono le nature e le potenze di quella, in una sotto una semplice sustanza comprese e adunate, nelle quali sì come in diversi rami fruttifica diversamente. Certo da dovero ardisco a dire che la nobilitade umana, quanto è dalla parte di molti suoi frutti, quella dell’angelo soperchia, tutto che l’angelica in sua unitade sia più divina.  Di questa nobilitade nostra, che in tanti e tali frutti fruttificava, s’accorse lo Salmista, quando fece quel Salmo che comincia: "Segnore nostro Dio, quanto è ammirabile lo nome tuo nell’universa terra", là dove commenda l’uomo, quasi maravigliandosi del divino affetto in essa umana creatura, dicendo: "Che cosa è l’uomo, che tu, Dio, lo visiti? Tu l’hai fatto poco minore che li angeli, di gloria e d’onore l’hai coronato, e posto lui sopra l’opere delle mani tue". Veramente dunque bella e convenevole comparazione fu del cielo all’umana nobilitade.

 Poi quando dice:

E noi in donna ed in età novella,

pruova ciò che dico, mostrando che la nobilitade si stenda in parte dove virtù non sia. E dice poi: "vedem questa salute"; [e] tocca nobilitade, che bene è vera salute, essere là dove è vergogna, cioè tema di disnoranza, sì come è nelle donne e nelli giovani, dove la vergogna è buona e laudabile; la quale vergogna non è vertù, ma certa passione buona.  E dice:

E noi in donna e in età novella,

cioè in giovani: però che, secondo che vuole lo Filosofo nel quarto dell’Etica, "vergogna non è laudabile né sta bene nelli vecchi e nelli uomini studiosi", però che a loro si conviene di guardare da quelle cose che a vergogna li conducano.  Alli giovani e alle donne non è tanto richesto di cotale [opera], e però in loro è laudabile la paura del disnore ricevere per la colpa: che da nobilitade viene e nobilitade si puote credere [e] in loro chiamare, sì come viltade e ignobilitade la sfacciatezza. Onde buono e ottimo segno di nobilitade è, nelli pargoli e imperfetti d’etade, quando dopo lo fallo nel viso loro vergogna si dipinge, che è allora frutto di vera nobilitade.

XX. Quando appresso séguita:

Dunque verrà, come dal nero il perso,

procede lo testo alla diffinizione di nobilitade, la quale si cerca, e per la quale si potrà vedere che è questa nobilitade di che tanta gente erroneamente parla. Dice adunque, conchiudendo da quello che dinanzi detto è: dunque ogni vertude, "o vero il gener lor", cioè l’abito elettivo consistente nel mezzo, verrà da questa, cioè nobilitade.  E rende essemplo nelli colori, dicendo: sì come lo perso dal nero discende, così questa, cioè vertude, discende da nobilitade. Lo perso è uno colore misto di purpureo e di nero, ma vince lo nero, e da lui si dinomina; e così la vertù è una cosa mista di nobilitade e di passione; ma perché la nobilitade vince [in] quella, è la vertù dinominata da essa, e appellata bontade.

 Poi appresso argomenta per quello che detto è, che nessuno per poter dire: ‘Io sono di cotale schiatta’, non dee credere essere con essa, se questi frutti non sono in lui. E rende incontanente ragione dicendo che quelli che hanno questa "grazia", cioè questa divina cosa, sono "quasi" come "dèi", sanza macula di vizio; e ciò dare non può se non Iddio solo, appo cui non è scelta di persone, sì come le divine Scritture manifestano.  E non paia troppo alto dire ad alcuno, quando si dice:

ch’elli son quasi dèi;

ché, sì come di sopra nel settimo capitolo del terzo trattato si ragiona, così come uomini sono vilissimi e bestiali, così uomini sono nobilissimi e divini; e ciò pruova Aristotile nel settimo dell’Etica per lo testo d’Omero poeta.  Sì che non dica quelli delli Uberti di Fiorenza, né quelli delli Visconti da Melano: ‘Perch’io sono di cotale schiatta, io sono nobile’; ché ’l divino seme non cade in ischiatta, cioè in istirpe, ma cade nelle singulari persone; e, sì come di sotto si proverà, la stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno nobile la stirpe.

 Poi, quando dice:

ché solo Iddio all’anima la dona,

ragione è del suscettivo, cioè del subietto dove questo divino dono discende: ché bene è divino dono, secondo la parola dell’Apostolo: "Ogni ottimo dato e ogni dono perfetto di suso viene, discendendo dal Padre de’ lumi".  Dice adunque che Dio solo porge questa grazia all’anima di quelli cui vede stare perfettamente nella sua persona, aconcio e disposto a questo divino atto ricevere. Ché, secondo che dice lo Filosofo nel secondo dell’Anima, "le cose convengono essere disposte alli loro agenti, e [a] ricevere li loro atti"; onde, se l’anima è imperfettamente posta, non è disposta a ricevere questa benedetta e divina infusione: sì come se una pietra margarita è male disposta o vero imperfetta, la vertù celestiale ricevere non può: sì come disse quel nobile Guido Guinizzelli in una sua canzone che comincia: "Al cor gentil ripara sempre Amore".  Puote adunque l’anima stare non bene nella persona per manco di complessione, o forse per manco di temporale: ed in questa cotale questo raggio divino mai non risplende. E possono dire questi cotali la cui anima è privata di questo lume, che essi siano sì come valli volte ad aquilone, o vero spelunche sotterranee, dove la luce del sole mai non discende se non repercussa da altra parte da quella illuminata.

 Ultimamente conchiude, e dice che, per quello che dinanzi detto è (cioè che le vertudi sono frutto di nobilitade, e che Dio questa metta nell’anima che ben siede), che "ad alquanti", cioè a quelli che hanno intelletto, che sono pochi, è manifesto che nobilitade umana non sia altro che ‘seme di felicitade’,

messo da Dio nell’anima ben posta,

cioè lo cui corpo è d’ogni parte disposto perfettamente. Ché se le vertudi sono frutto di nobilitade, e felicitade è dolcezza [per quelle] comparata, manifesto è essa nobilitade essere semente di felicitade, come detto è.

 E se bene si guarda, questa diffinizione tutte e quattro le cagioni, cioè materiale, formale, efficiente e finale, comprende: materiale in quanto dice: "nell’anima ben posta", che è materia e subietto di nobilitade; formale in quanto dice che è "seme"; efficiente in quanto dice: "messo da Dio nell’anima"; finale in quanto dice: "di felicitade".

 E così è diffinita questa nostra bontade, la quale in noi similemente discende da somma e spirituale virtude, come virtude in pietra da corpo nobilissimo celestiale.

XXI. Acciò che più perfettamente s’abbia conoscenza della umana bontade secondo che in noi è principio di tutto bene, la quale nobilitade si chiama, da chiarire è in questo speziale capitolo come questa bontade discende in noi; e prima per modo naturale, e poi per modo teologico, cioè divino e spirituale.

 In prima è da sapere che l’uomo è composto d’anima e di corpo; ma dell’anima è quella; sì come detto è che è a guisa di semente della vertù divina. Veramente per diversi filosofi della differenza delle nostre anime fue diversamente ragionato: ché Avicenna e Algazel volsero che esse da loro e per loro principio fossero nobili e vili; e Plato ed altri volsero che esse procedessero dalle stelle, e fossero nobili e più e meno secondo la nobilitade della stella.  Pittagora volse che tutte fossero d’una nobilitade, non solamente le umane, ma colle umane quelle delli animali bruti e delle piante, e le forme delle minere; e disse che tutta la differenza [era] delle corpora [.....................] e forme. Se ciascuno fosse a difendere la sua oppinione, potrebbe essere che la veritade si vederebbe essere in tutte; ma però che nella prima faccia paiono un poco lontane dal vero, non secondo quelle procedere si conviene, ma secondo l’oppinione d’Aristotile e delli Peripatetici.

 E però dico che quando l’umano seme cade nel suo recettaculo, cioè nella matrice, esso porta seco la vertù dell’anima generativa e la vertù del cielo e la vertù delli elementi legati, cioè la complessione; [e] matura e dispone la materia alla vertù formativa, la quale diede l’anima [del] generante; e la vertù formativa prepara li organi alla vertù celestiale, che produce della potenza del seme l’anima in vita.  La quale, incontanente produtta, riceve dalla vertù del motore del cielo lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato dalla prima Intelligenza è.

 Non si maravigli alcuno s’io parlo sì che pare forte ad intendere; ché a me medesimo pare maraviglia come cotale produzione si può pur conchiudere e collo intelletto vedere. Non è cosa da manifestare a lingua, lingua, dico veramente, volgare. Per che io voglio dire come l’Apostolo: "O altezza delle divizie della sapienza e della scienza di Dio, come sono incomprensibili li suoi giudicii e investigabili le sue vie!".

 E però che la complessione del seme puote essere migliore e men buona, e la disposizione del seminante puote essere migliore e men buona, e la disposizione del Cielo a questo effetto puote essere buona, migliore e ottima (la quale si varia [per] le constellazioni, che continuamente si transmutano), incontra che dell’umano seme e di queste vertudi più pura [e men pura] anima si produce; e secondo la sua puritade, discende in essa la vertude intellettuale possibile che detta è, e come detto è.

 E s’elli aviene che, per la puritade dell’anima ricevente, la intellettuale vertude sia bene astratta e assoluta da ogni ombra corporea, la divina bontade in lei multiplica sì come in cosa sufficiente a ricevere quella, e quindi sì multiplica nell’anima di questa intelligenza [dotata la divina influenza] secondo che ricevere puote. E questo è quel seme di felicitade, del quale al presente si parla.

 E ciò è concordevole alla sentenza di Tulio in quello Di Senettute, che, parlando in persona di Catone, dice: "Imperciò celestiale anima discese in noi, dell’altissimo abitaculo venuta in loco lo quale alla divina natura e alla etternitade è contrario". E in questa cotale anima è la vertude sua propia, e la intellettuale, e la divina, cioè quella influenza che detta è; [e] però è scritto nel libro delle Cagioni: "Ogni anima nobile ha tre operazioni, cioè animale, intellettuale e divina".

 E sono alcuni di tale oppinione che dicono [che], se tutte le precedenti vertudi s’accordassero sovra la produzione d’un’anima nella loro ottima disposizione, che tanto discenderebbe in quella della deitade, che quasi sarebbe un altro Dio incarnato. E quasi questo è tutto ciò che per via naturale dicere si puote.

 Per via teologica si può dire che, poi che la somma deitade, cioè Dio, vede apparecchiata la sua creatura a ricevere del suo beneficio, tanto largamente in quella ne mette quanto apparecchiata è a ricevere. E però che da ineffabile caritate vegnono questi doni, e la divina caritate sia appropiata allo Spirito Santo, quindi è che chiamati sono Doni di Spirito Santo.  Li quali, secondo che li distingue Isaia profeta, sono sette, cioè Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietade e Timore di Dio. Oh buone biade, e buona e amirabile sementa! e oh amirabile e benigno seminatore, che non attende se non che la natura umana li apparecchi la terra a seminare! e beati quelli che tal sementa coltivano come si conviene!

 Ove è da sapere che ’l primo e lo più nobile rampollo che germogli di questo seme, per essere fruttifero, si è l’appetito dell’animo, lo quale in greco è chiamato ‘hormén’. E se questo non è bene culto e sostenuto diritto per buona consuetudine, poco vale la sementa, e meglio sarebbe non essere seminato.  E però vuole santo Augustino, e ancora Aristotile nel secondo dell’Etica, che l’uomo s’ausi a ben fare e a rifrenare le sue passioni, acciò che questo tallo che detto è, per buona consuetudine induri e rifermisi nella sua rettitudine, sì che possa fruttificare, e del suo frutto uscire la dolcezza dell’umana felicitade.

XXII. Comandamento è delli morali filosofi che de’ beneficî hanno parlato, che l’uomo dee mettere ingegno e sollicitudine in porgere li suoi beneficî quanto puote [utili] più allo ricevitore: onde io, volendo a cotale imperio essere obediente, intendo questo mio convivio per ciascuna delle sue parti reddere utile quanto più mi sarà possibile.  E però che in questa parte occorre a me di potere alquanto ragionare [............... ragionare] intendo; ché più utile ragionamento fare non si può a coloro che non la conoscono. Ché, sì come dice lo Filosofo nel primo dell’Etica e Tulio in quello del Fine di Beni, male tragge al segno quelli che nol vede; e così male può ire a questa dolcezza chi prima non l’avisa.  Onde, con ciò sia cosa che essa sia finale nostro riposo, per lo quale noi vivemo e operiamo ciò che facemo, utilissimo e necessario è questo segno vedere, per dirizzare a quello l’arco della nostra operazione. E massimamente è da gradire quelli che a coloro che nol veggiano l’adita.

 Lasciando dunque stare l’oppinione che di quello ebbe Epicuro filosofo, e che di quello ebbe Zenone, venire intendo sommariamente alla verace oppinione d’Aristotile e delli altri Peripatetici. Sì come detto è di sopra, della divina bontade, in noi seminata e infusa dal principio della nostra generazione, nasce uno rampollo che li Greci chiamano ‘hormén’, cioè appetito d’animo naturale.  E sì come nelle biade che, quando nascono, dal principio hanno quasi una similitudine nell’erba essendo, e poi si vengono per processo [di tempo] dissimigliando; così questo naturale appetito, che [de]lla divina grazia surge, dal principio quasi si mostra non dissimile a quello che pur da natura nudamente viene, ma con esso, sì come l’erbate quasi di diversi biadi, si simiglia. E non pur [nel]li uomini, ma e nelli uomini e nelle bestie ha similitudine; e questo [in questo] appare, che ogni animale, sì come elli è nato, sì razionale come bruto, se medesimo ama, e teme e fugge quelle cose che a lui sono contrarie, e quelle odia.

 Procedendo poi, sì come detto è, comincia una dissimilitudine tra loro, nel procedere di questo appetito, ché l’uno tiene uno cammino e l’altro un altro. Sì come dice l’Apostolo: "Molti corrono al palio, ma uno è quelli che ’l prende", così questi umani appetiti per diversi calli dal principio se ne vanno, e uno solo calle è quello che noi mena alla nostra pace. E però, lasciando stare tutti li altri, col trattato è da tenere dietro a quello che bene comincia.

 Dico adunque che dal principio se stesso ama, avegna che indistintamente; poi viene distinguendo quelle cose che a lui sono più amabili e meno, e più odibili [e meno], e séguita e fugge, e più e meno, secondo [che] la conoscenza distingue, non solamente nell’altre cose, che secondamente ama, ma eziandio distingue in sé, che ama principalmente.  E conoscendo in sé diverse parti, quelle che in lui sono più nobili, più ama quelle; e con ciò sia cosa che più [nobile] parte dell’uomo sia l’animo che ’l corpo, quello più ama. E così, amando sé principalmente, e per sé l’altre cose, e amando di sé la migliore parte più, manifesto è che più ama l’animo che ’l corpo o che altra cosa: lo quale animo naturalmente più che altra cosa dee amare.  Dunque, se la mente si diletta sempre nell’uso della cosa amata, che è frutto d’amore, [e] in quella cosa che massimamente è amata è l’uso massimamente dilettoso, l’uso del nostro animo è massimamente dilettoso a noi. E quello che massimamente è dilettoso a noi, quello è nostra felicitade e nostra beatitudine, oltre la quale nullo diletto è maggiore, né nullo altro pare; sì come vedere si puote, chi bene riguarda la precedente ragione.

 E non dicesse alcuno che ogni appetito sia animo; ché qui s’intende animo solamente quello che spetta alla parte razionale, cioè la volontade e lo ’ntelletto. Sì che se volesse chiamare animo l’appetito sensitivo, qui non ha luogo, né instanza puote avere; ché nullo dubita che l’appetito razionale non sia più nobile che ’l sensuale, e però più amabile: e così è questo di che ora si parla.

 Veramente l’uso del nostro animo è doppio, cioè pratico e speculativo (pratico è tanto quanto operativo), l’uno e l’altro dilett[os]issimo, avegna che quello del contemplare sia più, sì come di sopra è narrato. Quello del pratico si è operare per noi virtuosamente, cioè onestamente, con prudenza, con temperanza, con fortezza e con giustizia; quello dello speculativo si è non operare per noi, ma considerare l’opere di Dio e della natura. E questo come quell’altro è nostra beatitudine e somma felicitade, sì come vedere si può; la quale è la dolcezza del sopra notato seme, sì come ormai manifestamente appare; alla quale molte volte cotale seme non perviene per male essere coltivato, e per essere disviata la sua pullulazione.  E similemente puote essere, per molta correzione e cultura, che là dove questo seme dal principio non cade, si puote inducere nel suo processo, sì che perviene a questo frutto; ed è uno modo quasi d’insetare l’altrui natura sopra diversa radice. E però nullo è che possa essere scusato; ché se da sua naturale radice uomo non ha questa sementa, ben la puote avere per via d’insetazione. Così fossero tanti quelli di fatto che s’insetassero, quanti sono quelli che dalla buona radice si lasciano disviare!

 Veramente di questi usi l’uno è più pieno di beatitudine che l’altro; sì come è lo speculativo, lo quale sanza mistura alcuna è uso della nostra nobilissima parte, la quale, per lo radicale amore che detto è, massimamente è amabile, sì com’è lo ’ntelletto. E questa parte in questa vita perfettamente lo suo uso avere non puote - lo quale averà in Dio che è sommo intelligibile -, se non in quanto considera lui e mira lui per li suoi effetti.

 E che noi domandiamo questa beatitudine per somma, e non altra, cioè quella della vita attiva, n’amaestra lo Vangelio di Marco, se bene quello volemo guardare. Dice Marco che Maria Maddalena e Maria Iacobi e Maria Salomè andaro per trovare lo Salvatore al monimento, e quello non trovaro; ma trovaro uno giovane vestito di bianco, che disse loro: "Voi domandate lo Salvatore, e io vi dico che non è qui; e però non abbiate temenza, ma ite, e dite alli discepoli suoi e a Piero che elli li precederà in Galilea; e quivi lo vederete, sì come vi disse".

 Per queste tre donne si possono intendere le tre sette della vita attiva, cioè li Epicurî, li Stoici e li Peripatetici, che vanno al monimento, cioè al mondo presente che è recettaculo di corruttibili cose, e domandano lo Salvatore, cioè la beatitudine, e non lo truovano; ma uno giovane truovano in bianchi vestimenti, lo quale, secondo la testimonianza di Mateo e anche delli altri [Evangelisti], era angelo di Dio. E però Mateo disse: "L’angelo di Dio discese di cielo, e vegnendo volse la pietra e sedea sopra essa. E ’l suo aspetto era come folgore, e le sue vestimenta erano come neve".

 Questo angelo è questa nostra nobilitade che da Dio viene, come detto è, che nella nostra ragione parla, e dice a ciascuna di queste sette, cioè a qualunque va cercando beatitudine nella vita attiva, che non è qui; ma vada, e dicalo alli discepoli e a Piero, cioè a coloro che ’l vanno cercando, e a coloro che sono sviati, sì come Piero che l’avea negato, che in Galilea li precederàe: cioè che la beatitudine precederà noi in Galilea, cioè nella speculazione.  Galilea è tanto a dire quanto bianchezza. Bianchezza è uno colore pieno di luce corporale più che nullo altro; e così la contemplazione è più piena di luce spirituale che altra cosa che qua giù sia. E dice: ‘Elli precederà’; e non dice: ‘Elli sarà con voi’: a dare ad intendere che [nel]la nostra contemplazione Dio sempre precede, né mai lui giugnere potemo qui, lo quale è nostra beatitudine somma. E dice: ‘Quivi lo vederete, sì come [vi] disse’; cioè: quivi averete della sua dolcezza, cioè della felicitade, sì come a voi è promesso qui; cioè, sì come stabilito è che voi avere possiate.  E così appare che nostra beatitudine, [cio]è questa felicitade di cui si parla, prima trovare potemo quasi imperfetta nella vita attiva, cioè nelle operazioni delle morali virtudi, e poi perfetta quasi nella [vita contemplativa, cioè] nelle operazioni delle virtudi intellettuali. Le quali due operazioni sono vie espedite e dirittissime a menare alla somma beatitudine, la quale qui non si puote avere, come appare pur per quello che detto è.

XXIII. Poi che dimostrata sufficientemente pare la diffinizione di nobilitade, e quella per le sue parti, come possibile [è] stato, è dichiarata, sì che vedere si puote omai che è lo nobile uomo, da procedere pare alla parte del testo che comincia:

L’anima cui adorna esta bontate,

nella quale si mostrano li segni per li quali conoscere si puote il nobile uomo che detto è.  E dividesi questa parte in due: ché nella prima s’afferma che questa nobilitade luce e risplende per tutta la vita del nobile, manifestamente; nella seconda si dimostra specificamente nelli suoi splendori; e comincia questa seconda parte:

Ubidente, soave e vergognosa.

 Intorno della prima parte è da sapere che questo seme divino di cui parlato è di sopra, nella nostra anima incontanente germoglia, mettendo e [di]versificando per ciascuna potenza dell’anima secondo la essigenza di quella. Germoglia dunque per la vegetativa, per la sensitiva e per la razionale; e dibrancasi per le vertuti di quelle tutte, dirizzando quelle tutte alle loro perfezioni, e in quelle sostenendosi sempre infino al punto che, con quella parte della nostra anima che mai non muore, all’altissimo e gloriosissimo seminadore al cielo ritorna. E questo dice per quella prima [parte] che detta è.

 Poi quando comincia:

Ubidente, soave e vergognosa,

mostra quello per che potemo conoscere l’uomo nobile alli segni apparenti, che sono, di questa bontade divina, operazione; e partesi questa parte in quattro, secondo che per quattro etadi diversamente adopera, sì come per l’adolescenza, per la gioventute, per la senettute e per lo senio.  E comincia la seconda parte:

in giovinezza, temperata e forte;

la terza comincia:

è nella sua senetta;

la quarta comincia:

poi nella quarta parte della vita.

E questa è la sentenza di questa parte in generale.

 Intorno alla quale si vuole sapere che ciascuno effetto, in quanto effetto è, riceve la similitudine della sua cagione quanto è più possibile di ritenere. Onde, con ciò sia cosa che la nostra vita, sì come detto è, ed ancora d’ogni vivente qua giù, sia causata dal cielo e lo cielo a tutti questi cotali effetti, non per cerchio compiuto ma per parte di quello a loro si scuopra; e così conviene che ’l suo movimento sia sopra essi come uno arco quasi, [e] tutte le terrene vite (e dico terrene, sì delli [uomini] come delli altri viventi), montando e volgendo, convengono essere quasi a imagine d’arco asimiglianti. Tornando dunque alla nostra, sola della quale al presente s’intende, sì dico ch’ella procede a imagine di questo arco, montando e discendendo.

 Ed è da sapere che questo arco [di giù, come l’arco] di su sarebbe equale, se la materia della nostra seminale complessione non impedisse la regola della umana natura. Ma però che l’umido radicale [è] meno e più, e di migliore qualitade [e men buona], e più ha durare [in uno] che in uno altro effetto - lo quale [è] subietto e nutrimento del calore che è nostra vita -, aviene che l’arco della vita d’un uomo è di minore e di maggiore tesa che quello dell’altro.  [E] alcuna morte [è] violenta, o vero per accidentale infertade affrettata; ma solamente quella che naturale è chiamata dal vulgo, e che è, [è] quel termine del quale si dice per lo Salmista: "Ponesti termine, lo quale passare non si può". E però che lo maestro della nostra vita Aristotile s’accorse di questo arco di che ora si dice, parve volere che la nostra vita non fosse altro che uno salire e uno scendere: però dice in quello dove tratta di Giovinezza e di Vecchiezza, che giovinezza non è altro se non acrescimento di quella.

 Là dove sia lo punto sommo di questo arco, per quella disaguaglianza che detta è di sopra, è forte da sapere; ma nelli più, io credo, tra il trentesimo e ’l quarantesimo anno; e io credo che nelli perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno.  E muovemi questa ragione: che ottimamente naturato fue lo nostro salvatore Cristo, lo quale volle morire nel trentaquattresimo anno della sua etade; ché non era convenevole la divinitade stare in cosa [in] discrescere; né da credere è ch’elli non volesse dimorare in questa nostra vita al sommo, poi che stato c’era nel basso stato della puerizia.  E ciò manifesta l’ora del giorno della sua morte, cioè di Cristo, che volle quella consimigliare colla vita sua: onde dice Luca che era quasi ora sesta quando morìo, che è a dire lo colmo del die. Onde si può comprendere per quello ‘quasi’ che al trentacinquesimo anno di Cristo era lo colmo della sua etade.

 Veramente questo arco non pur per mezzo si distingue dalle scritture; ma, seguendo le quattro combinazioni delle contrarie qualitadi che sono nella nostra composizione, alle quali pare essere apropiata, dico a ciascuna, una parte della nostra etade, in quattro parti si divide, e chiamansi quattro etadi.  La prima è Adolescenza, che s’apropia al caldo e all’umido; la seconda si è Gioventute, che s’apropia al caldo e al secco; la terza si è Senettute, che s’apropia al freddo e al secco; la quarta si è Senio, che s’apropia al freddo e all’umido, secondo che nel quarto della Metaura scrive Alberto.

 E queste parti si fanno simigliantemente nell’anno, [cioè] in primavera, in estate, in autunno e in verno; e nel die, cioè infino alla terza, e poi infino alla nona (lasciando la sesta nel mezzo di questa parte, per la ragione che sì dicerne), e poi infino al vespero, e dal vespero inanzi. E però li gentili, cioè li pagani, diceano che ’l carro del sole avea quattro cavalli: lo primo chiamavano Eoo, lo secondo Pirroi, lo terzo Eton, lo quarto Filogeo, secondo che scrive Ovidio nel secondo del Metamorfoseos.

 Intorno alle parti del giorno è brievemente da sapere che, sì come detto è di sopra nel sesto capitolo del terzo trattato, la Chiesa usa, nella distinzione delle ore del die [ore] temporali, che sono in ciascuno die dodici, o grandi o picciole secondo la quantitade del sole; e però che la sesta ora, cioè lo mezzo die, è la più nobile di tutto lo die e la più virtuosa, li suoi officii appressa quivi da ogni parte, cioè da prima e di poi, quanto puote.  E però l’officio della prima parte del die, cioè la terza, si dice in fine di quella; e quello della terza parte e della quarta si dice nelli principii. E però si dice ‘mezza terza’ prima che suoni per quella parte; e ‘mezza nona’ poi che per quella parte è sonato; e così ‘mezzo vespero’. E però sappia ciascuno che nella diritta nona sempre dee sonare nel cominciamento della settima ora del die. E questo basti alla presente digressione.

XXIV. Ritornando al proposito, dico che la umana vita si parte per quattro etadi. La prima si chiama Adolescenza, cioè ‘acrescimento di vita’; la seconda si chiama Gioventute, cioè ‘etade che puote giovare’, cioè perfezione dare, e così s’intende perfetta - ché nullo puote dare se non quello ch’elli ha -; la terza si chiama Senettute; la quarta si chiama Senio, sì come di sopra detto è.

 Della prima nullo dubita, ma ciascuno savio s’acorda ch’ella dura in fino al venticinquesimo anno; e però che infino a quel tempo l’anima nostra intende allo crescere e allo abellire del corpo, onde molte e grandi transmutazioni sono nella persona, non puote perfettamente la razionale parte discernere. Per che la Ragione vuole che dinanzi a quella etade l’uomo non possa certe cose fare sanza curatore di perfetta etade.

 Della seconda, la quale veramente è colmo della nostra vita, diversamente è preso lo tempo da molti. Ma, lasciando ciò che ne scrivono li filosofi e li medici, e tornando alla ragione propia, dico che nelli più, nelli quali prendere si puote e dee ogni naturale giudicio, quella etade è venti anni. E la ragione che ciò mi dà si è che, se ’l colmo del nostro arco è nelli trentacinque, tanto quanto questa etade ha di salita tanto dee avere di scesa; e quella salita e quella scesa è quasi lo tenere dell’arco, nel quale poco di flessione si discerne. Avemo dunque che la gioventute nel quarantacinquesimo anno si compie.

 E sì come l’adolescenza è in venticinque anni, che precede, montando, alla gioventute, così lo discendere, cioè la senettute, è [in] altrettanto tempo che succede alla gioventute; e così si termina la senettute nel settantesimo anno.

 Ma però che l’adolescenza non comincia dal principio della vita, pigliandola per lo modo che detto è, ma presso ad otto anni dopo quello; e però che la nostra natura si studia di salire, e allo scendere raffrena, però che ’l caldo naturale è menomato e puote poco, e l’umido è ingrossato (non per[ò] in quantitade, ma pur in qualitade, sì ch’è meno vaporabile e consumabile), aviene che oltre la senettute rimane della nostra vita forse in quantitade di diece anni o poco più o poco meno: e questo tempo si chiama senio.  Onde avemo di Platone, del quale ottimamente si può dire che fosse naturato, e per la sua perfezione e per la fisonomia che di lui prese Socrate quando prima lo vide, che esso vivette ottantuno anno, secondo che testimonia Tulio in quello Di Senettute. E io credo che se Cristo fosse stato non crucifisso, e fosse vivuto lo spazio che la sua vita potea secondo natura trapassare, elli sarebbe alli ottantuno anno di mortale corpo in etternale transmutato.

 Veramente, sì come di sopra detto è, queste etadi possono essere più lunghe e più corte secondo la complessione nostra e la composizione; ma come elle siano, questa proporzione, come detto è, in tutti mi pare da servare, cioè di fare l’etadi in quelli cotali e più lunghe e meno, secondo la integritade di tutto lo tempo della naturale vita.

 Per queste tutte etadi questa nobilitade di cui si parla, diversamente mostra li suoi effetti nell’anima nobilitata; e questo è quello che questa parte, sopra la quale al presente si scrive, intende a dimostrare. Dove è da sapere che la nostra buona e diritta natura ragionevolemente procede in noi sì come vedemo procedere la natura delle piante in quelle; e però altri costumi e altri portamenti sono ragionevoli ad una etade che ad altra, nelli quali l’anima nobilitata ordinatamente procede per una semplice via, usando li suoi atti nelli loro tempi ed etadi, sì come all’ultimo suo frutto sono ordinati. E Tulio in ciò s’acorda in quello Di Senettute.

 E lasciando lo figurato che di questo diverso processo dell’etadi tiene Virgilio nello Eneida, e lasciando stare quello che Egidio eremita ne dice nella prima parte dello Reggimento de’ Principi, e lasciando stare quello che ne tocca Tulio in quello delli Officii, e seguendo solo quello che la ragione per sé ne puote vedere, dico che questa prima etade è porta e via per la quale s’entra nella nostra buona vita.  E questa entrata conviene avere di necessitade certe cose, le quali la buona natura, che non viene meno nelle cose necessarie, ne dà; sì come vedemo che dà alla vite le foglie per difensione del frutto, e li vignuoli colli quali difende e lega la sua imbecillitade sì che sostiene lo peso del suo frutto.

 Dà adunque la buona natura a questa etade quattro cose, necessarie allo entrare nella cittade del bene vivere. La prima si è Obedienza; la seconda Soavitade; la terza Vergogna; la quarta Adornezza corporale, sì come dice lo testo nella prima particola.

 È dunque da sapere che, sì come quello che mai non fosse stato in una cittade, non saprebbe tenere le vie sanza insegnamento di colui che l’hae usata; così l’adolescente che entra nella selva erronea di questa vita, non saprebbe tenere lo buono cammino, se dalli suoi maggiori non li fosse mostrato. Né lo mostrare varrebbe, se alli loro comandamenti non fosse obediente: e però fu a questa etade necessaria la obedienza.  Ben potrebbe alcuno dire così: ‘Dunque potrà essere detto quelli obediente che crederà li malvagi comandamenti, come quelli che crederà li buoni’. Rispondo che non fia quella obedienza, ma transgressione: ché se lo re comanda una via e lo servo ne comanda un’altra, non è da obedire lo servo: che sarebbe disobedire lo re, e così sarebbe transgressione.  E però dice Salomone, quando intende correggere suo figlio (e questo è lo primo suo comandamento): "Audi, figlio mio, l’amaestramento del tuo padre". E poi lo rimuove incontanente dall’altrui reo consiglio e amaestramento, dicendo: "Non ti possano quello fare di lusinghe né di diletto li peccatori, che tu vadi con loro". Onde, sì come, nato, tosto lo figlio alla tetta della madre s’apprende, così, tosto come alcuno lume d’animo in esso appare, si dee volgere alla correzione del padre, e lo padre lui amaestrare.  E guardisi che non li dea di sé essemplo nell’opera, che sia contrario alle parole della correzione: ché naturalmente vedemo ciascuno figlio più mirare alle vestigie delli paterni piedi che all’altre. E però dice e comanda la Legge, che a ciò provede, che la persona del padre sempre santa e onesta dee apparere alli suoi figli. E così appare che la obedienza fue necessaria in questa etade.  E però scrive Salomone nelli Proverbii che quelli che umilemente e obedientemente sostiene [d]al correttore le sue corrett[iv]e riprensioni, "sarà glorioso"; e dice ‘sarà’, a dare a intendere che elli parla allo adolescente, che non puote essere nella presente etade.  E se alcuno calunniasse: ‘Ciò che detto è, [detto] è pur del padre e non d’altri’, dico che al padre si dee riducere ogni altra obedienza. Onde dice l’Apostolo alli Colossensi: "Figliuoli, obedite alli vostri padri per tutte cose, per ciò che questo vuole Iddio". E se non è in vita lo padre, riducere si dee a quelli che per lo padre è nell’ultima volontade in padre lasciato; e se lo padre muore intestato, riducere si dee a colui cui la Ragione commette lo suo governo.  E poi deono essere ubiditi maestri e maggiori, cui in alcuno modo pare dal padre, o da quelli che loco paterno tiene, essere commesso.

 Ma però che lungo è stato lo capitolo presente per le utili digressioni che contiene, per l’altro capitolo l’altre cose sono da ragionare.

XXV. Non solamente questa anima e natura buona in adolescenza è ubidente, ma eziandio soave: la qual cosa è l’altra ch’è necessaria in questa etade a bene intrare nella porta della gioventute. Necessaria è, poi che noi non potemo perfetta vita avere sanza amici, sì come nell’ottavo dell’Etica vuole Aristotile; e la maggiore parte dell’amistadi si paiono seminare in questa etade prima, però che in essa comincia l’uomo ad essere grazioso o vero lo contrario: la qual grazia s’acquista per soavi reggimenti, che sono dolce e cortesemente parlare, dolce e cortesemente servire e operare.  E però dice Salomone allo adolescente figlio: "Li schernidori Dio li schernisce, e alli mansueti Dio darà grazia". E altrove dice: "Rimuovi da te la mala bocca, e li altri atti villani siano di lungi da te". Per che appare che necessaria sia questa soavitade, come detto è.

 Anche è necessaria a questa etade la passione della vergogna; e però la buona e nobile natura in questa etade la mostra, sì come lo testo dice. E però che la vergogna è apertissimo segno in adolescenza di nobilitade, perché quivi è massimamente necessaria al buono fondamento della nostra vita, allo quale [la] nobile natura intende; di quella è alquanto con diligenza da parlare.

 Dico che per vergogna io intendo tre passioni necessarie al fondamento della nostra vita buona: l’una si è Stupore; l’altra si è Pudore; la terza si è Verecundia; avegna che la volgare gente questa distinzione non discerna. E tutte e tre queste sono necessarie a questa etade per questa ragione: a questa etade è necessario d’essere reverente e disideroso di sapere; a questa etade è necessario d’essere rifrenato, sì che non transvada; a questa etade è necessario d’essere penitente del fallo, sì che non s’ausi a fallare. E tutte queste cose fanno le passioni sopra dette, che vergogna volgarmente sono chiamate.

 Ché lo stupore è uno stordimento d’animo per grandi e maravigliose cose vedere o udire o per alcuno modo sentire: che in quanto paiono grandi, fanno reverente a sé quelli che le sente; in quanto paiono mirabili, fanno voglioso di sapere di quelle. E però li antichi regi nelle loro magioni faceano magnifici lavorii d’oro e di pietre e d’artificio, acciò che quelli che le vedessero divenissero stupidi, e però reverenti e domandatori delle condizioni onorevoli dello rege.  E però dice Stazio, lo dolce poeta, nel primo della Tebana Istoria, che quando Adrasto, rege delli Argi, vide Polinice coverto d’un cuoio di leone, e vide Tideo coverto d’un cuoio di porco salvatico, e ricordossi del risponso che Apollo dato avea per le sue figlie, che esso divenne stupido, e però più reverente e più disideroso di sapere.

 Lo pudore è uno ritraimento d’animo da laide cose, con paura di cadere in quelle; sì come vedemo nelle vergini e nelle donne buone e nelli adolescenti, che tanto sono pudici, che non solamente là dove richesti o tentati sono di fallare, ma ove pure alcuna imaginazione di venereo co[rro]mpimento avere si puote, tutti si dipingono nella faccia di palido o di rosso colore.  Onde dice lo sopra notato poeta nello allegato libro primo di Tebe, che quando Aceste, nutrice d’Argia e di Deifile, figlie d’Adrasto rege, le menò dinanzi dalli occhi del santo padre nella presenza delli due peregrini, cioè Polinice e Tideo, le vergini palide e rubicunde si fecero, e li loro occhi fuggiro da ogni altrui sguardo, e solo nella paterna faccia, quasi come sicuri, si tennero.  Oh quanti falli rifrena esto pudore! quante disoneste cose e dimande fa tacere! quante disoneste cupiditati raffrena! quante male tentazioni non pur nella pudica persona diffida, ma eziandio in quello che la guarda! quante laide parole ritiene! Ché, sì come dice Tulio nel primo delli Officii, nullo atto è laido, che non sia laido quello nominare; e però lo pudico e nobile uomo mai non parla sì che ad una donna non fossero oneste le sue parole. Ahi quanto sta male a ciascuno uomo che onore vada cercando, menzionare cose che nella bocca d’ogni donna stea[n] male!

 La verecundia è una paura di disonoranza per fallo commesso; e di questa paura nasce un pentimento del fallo, lo quale ha in sé una amaritudine che è gastigamento a più non fallire. Onde dice questo medesimo poeta, in quella medesima parte, che quando Polinice fu domandato da Adrasto rege del suo essere, che elli dubitò, prima, di dicere, per vergogna del fallo che contra lo padre fatto avea, e ancora per li falli d’Edippo suo padre, ché [li falli del padre] paiono rimanere in vergogna del figlio; e non nominò suo padre, ma li antichi suoi e la terra e la madre. Per che bene appare, vergogna essere necessaria in quella etade.

 E non pure obedienza, soavitade e vergogna la nobile natura in questa etade dimostra, ma dimostra bellezza e snellezza nel corpo, sì come dice lo testo quando dice: "e sua persona aconcia". E questo ‘aconcia’ è verbo e non nome: verbo, dico, indicativo del tempo presente in terza persona. Ove è da sapere che anco è necessaria questa opera alla nostra buona vita; ché la nostra anima conviene grande parte delle sue operazioni operare con organo corporale, e allora opera bene che ’l corpo è bene per le sue parti ordinato e disposto.  E quando elli è bene ordinato e disposto, allora è bello per tutto e per le parti; ché l’ordine debito delle nostre membra rende uno piacere non so di che armonia mirabile, e la buona disposizione, cioè la sanitate, getta sopra quelle uno colore dolce a riguardare.  E così dicere che la nobile natura lo suo corpo abelisca e faccia conto e accorto, non è altro a dire se non che l’aconcia a perfezione d’ordine, e, co[sì] [questa come l’]altre cose che ragionate sono, appare essere necessarie all’adolescenza: le quali la nobile anima, cioè la nobile natura, [dà, e] ad esse primamente intende, sì come cosa che, come detto è, dalla divina providenza è seminata.

XXVI. Poi che sopra la prima particola di questa parte, che mostra quello per che potemo conoscere l’uomo nobile alli segni apparenti, è ragionato, da procedere è alla seconda parte, la quale comincia:

in giovinezza, temperata e forte.

 Dice adunque che sì come la nobile natura in adolescenza

ubidente, soave e vergognosa

[e] adornatrice della sua persona si mostra, così nella gioventute si fa "temperata e forte", amorosa, cortese e leale: le quali cinque cose paiono, e sono, necessarie alla nostra perfezione in quanto avemo rispetto a noi medesimi.

 Ed intorno di ciò si vuole sapere che tutto quanto la nobile natura prepara nella prima etade, è apparecchiato e ordinato per provedimento di Natura universale, che ordina la particulare a sua perfezione.  Questa perfezione nostra si può doppiamente considerare. Puotesi considerare secondo che ha rispetto a noi medesimi: e questa nella nostra gioventute si dee avere, che è colmo della nostra vita. Puotesi considerare secondo che ha rispetto ad altri; e però che prima conviene essere perfetto, e poi la sua perfezione comunicare ad altri, convienesi questa secondaria perfezione avere appresso questa etade, cioè nella senettute, sì come di sotto si dicerà.

 Qui adunque è da reducere a mente quello che di sopra, nel ventiduesimo capitolo di questo trattato, si ragiona dello appetito che in noi dal nostro principio nasce. Questo appetito mai altro non fa che cacciare e fuggire; e qualunque ora esso caccia quello che e quanto si conviene, e fugge quello che e quanto si conviene, l’uomo è nelli termini della sua perfezione.

 Veramente questo appetito conviene essere cavalcato dalla ragione; ché sì come uno sciolto cavallo, quanto ch’ello sia di natura nobile, per sé, sanza lo buono cavalcatore, bene non si conduce, così questo appetito, che irascibile e concupiscibile si chiama, quanto ch’ello sia nobile, alla ragione obedire conviene, la quale guida quello con freno e con isproni, come buono cavaliere.  Lo freno usa quando elli caccia, e chiamasi quello freno Temperanza, la quale mostra lo termine infino a[l] quale è da cacciare; lo sprone usa quando fugge, per lui tornare allo loco onde fuggire vuole, e questo sprone si chiama Fortezza o vero Magnanimitate, la quale vertute mostra lo loco dove è da fermarsi e da pungare.  E così infrenato mostra Virgilio, lo maggiore nostro poeta, che fosse Enea, nella parte dello Eneida ove questa etade si figura: la qual parte comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto libro dello Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da Dido tanto di piacere quanto di sotto nel settimo trattato si dicerà, e usando con essa tanto di dilettazione, elli si partio, per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa, come nel quarto dell’Eneida scritto è!  Quanto spronare fu quello, quando esso Enea sostenette solo con Sibilla a intrare nello Inferno a cercare dell’anima di suo padre Anchise, contra tanti pericoli, come nel sesto della detta istoria si dimostra! Per che appare che nella nostra gioventute essere a nostra perfezione ne convegna ‘temperati e forti’. E questo fa e dimostra la buona natura, sì come lo testo dice espressamente.

 Ancora è a questa etade, a sua perfezione, necessario d’essere amorosa; però che ad essa si conviene guardare diretro e dinanzi, sì come cosa che è nel meridionale cerchio: convienesi amare li suoi maggiori, dalli quali ha ricevuto ed essere e nutrimento e dottrina, sì che esso non paia ingrato; convienesi amare li suoi minori, acciò che, amando quelli, dea loro delli suoi beneficii, per li quali poi nella minore prosperitade esso sia da loro sostenuto e onorato.  E questo amore mostra che avesse Enea lo nomato poeta nel quinto libro sopra detto, quando lasciò li vecchi Troiani in Cicilia racomandati ad Aceste, e partilli dalle fatiche; e quando amaestrò in questo luogo Ascanio suo figliuolo, colli altri adolescentuli armeggiando. Per che appare a questa etade essere amore necessario, come lo testo dice.

 Ancora è necessario a questa etade essere cortese; ché, avegna che a ciascuna etade sia bello l’essere di cortesi costumi, a questa è massimamente necessario; però che [.......................] nel contrario, nolla puote avere la senettute, per la gravezza sua e per la severitade che a lei si richiede; e così lo senio maggiormente.  E questa cortesia mostra che avesse Enea questo altissimo poeta, nel sesto sopra detto, quando dice che Enea rege, per onorare lo corpo di Miseno morto, che era stato trombatore d’Ettore e poi s’era raccomandato a lui, s’accinse e prese la scure ad aiutare tagliare le legne, per lo fuoco che dovea ardere lo corpo morto, come era di loro costume. Per che bene appare questa essere necessaria alla gioventute, e però la nobile anima in quella la dimostra, come detto è.

 Ancora è necessario a questa etade essere leale. Lealtade è seguire e mettere in opera quello che le leggi dicono, e ciò massimamente si conviene allo giovane: però che lo adolescente, come detto è, per minoranza d’etade lievemente merita perdono; lo vecchio per più esperienza dee essere giusto, e non essaminatore di legge, se non in quanto lo suo diritto giudicio e la legge è quasi tutto uno, e quasi senza legge alcuna dee giustamente sé guidare: che non può fare lo giovane, e basti che esso séguiti la legge, e in quella seguitare si diletti: sì come dice lo predetto poeta, nel predetto quinto libro, che fece Enea, quando fece li giuochi in Cicilia nell’anniversario del padre; che ciò che promise per le vittorie, lealmente diede poi a ciascuno vittorioso, sì come era di loro lunga usanza, che era loro legge.  Per che è manifesto che a questa etade lealtade, cortesia, amore, fortezza e temperanza siano necessarie, sì come dice lo testo che al presente è ragionato; e però la nobile anima tutte le dimostra.

XXVII. Veduto e ragionato è assai sofficientemente sopra quella particola che ’l testo pone, mostrando quelle probitadi che alla gioventute presta la nobile anima; per che da intendere pare alla terza parte che comincia:

è nella sua senetta,

nella quale intende lo testo mostrare quelle cose che la nobile natura mostra e dee avere nella terza etade, cioè senettute.  E dice che l’anima nobile nella senetta si è prudente, si è giusta, si è larga, e allegra di dir bene e prode d’altrui e d’udire quello, cioè che è affabile. E veramente queste quattro vertudi a questa etade sono convenientissime. E a ciò vedere, è da sapere che, sì come dice Tulio in quello Di Senettute, "certo corso ha la nostra buona etade, e una via semplice è quella della nostra buona natura; e a ciascuna parte della nostra etade è data stagione a certe cose".  Onde, sì come all’adolescenza dato è, com’è detto di sopra, quello per che a perfezione e a maturitade venire possa, così alla gioventute è data la perfezione, e [alla senettute] la maturitade, acciò che la dolcezza del suo frutto e a sé e ad altrui sia proficabile; ché, sì come Aristotile dice, l’uomo è animale civile, per che a lui si richiede non pur a sé ma ad altrui essere utile. Onde si legge di Catone che non a sé, ma alla patria e a tutto ’l mondo nato essere credea.  Dunque, appresso la propia perfezione, la quale s’acquista nella gioventute, conviene venire quella che allumina non pur sé ma li altri; e convienesi aprire l’uomo quasi com’una rosa che più chiusa stare non puote, e l’odore che dentro generato è spande: e questo conviene essere in questa terza etade che per mano corre.

 Convienesi adunque essere prudente, cioè savio; e a ciò essere si richiede buona memoria delle vedute cose, buona conoscenza delle presenti e buona provedenza delle future. E sì come dice lo Filosofo nel sesto dell’Etica, "impossibile è essere savio chi non è buono", e però non è da dire savio uomo chi con sottratti e con inganni procede, ma è da chiamare astuto; ché, sì come nullo dicerebbe savio quelli che si sapesse bene trarre della punta d’uno coltello nella pupilla dell’occhio, così non è da dire savio quelli che bene sa una malvagia cosa fare, la quale facendo, prima sé sempre che altrui offende, se bene si mira.

 Dalla prudenza vegnono li buoni consigli, li quali conducono sé e altri a buono fine nelle umane cose e operazioni; e questo è quello dono che Salomone, veggendosi al governo del populo essere posto, chiese a Dio, sì come nel terzo libro delli Regi è scritto.  Né questo cotale prudente non attende [che altri] li dimandi ‘Consigliami’, ma proveggendo per lui, sanza richesta colui consiglia: sì come la rosa, che non pur a quelli che va a lei per lo suo odore rende quello, ma eziandio [a] qualunque apresso lei va.

 Potrebbe qui dire alcuno medico o legista: ‘Dunque porterò io lo mio consiglio e darollo eziandio che non mi sia chesto, e della mia arte non averò frutto?’ Rispondo, sì come dice nostro Signore: "A grado riceveste, a grado date".  Dico dunque, messere lo legista, che quelli consigli che non hanno rispetto alla tua arte e che procedono solo da quel buono senno che Dio ti diede (che è prudenza, della quale si parla), tu non li déi vendere alli figli di Colui che ’l t’ha dato. Quelli che hanno rispetto all’arte la quale hai comperata, vendere puoi; ma non sì che non si convegnano alcuna volta decimare e dare a Dio, cioè a quelli miseri a cui solo lo grado divino è rimaso.

 Convienesi anche a questa etade essere giusto, acciò che li suoi giudicî e la sua autoritade sia un lume e una legge alli altri. E perché questa singulare vertù, cioè giustizia, fue veduta per li antichi filosofi apparire perfetta in questa etade, lo reggimento delle cittadi commisero in quelli che in questa etade erano; e però lo collegio delli rettori fu detto Senato.  Oh misera, misera patria mia! quanta pietà mi stringe per te, qual volta leggo, qual volta scrivo cosa che a reggimento civile abbia respetto! Ma però che di giustizia nel penultimo trattato di questo volume si tratterà, basti qui al presente questo poco avere toccato di quella.

 Convienesi anche a questa etade essere largo: però che allora si conviene la cosa quando più satisface al debito della sua natura; né mai allo debito della larghezza non si può satisfacere così come in questa etade. Ché se volemo bene mirare al processo d’Aristotile nel quarto dell’Etica, e a quello di Tulio in quello delli Officii, la larghezza vuole essere [a] luogo [e a] tempo, tale che lo largo non noccia a sé né ad altrui. La quale cosa avere non si puote sanza prudenza e sanza giustizia; le quali virtudi anzi a questa etade avere perfette per via naturale è impossibile.

 Ahi malestrui e malnati, che disertate vedove e pupilli, che rapite alli men possenti, che furate e occupate l’altrui ragioni; e di quelle corredate conviti, donate cavalli e arme, robe e denari, portate le mirabili vestimenta, edificate li mirabili edifici, e credetevi larghezza fare!  E che è questo altro a fare che levare lo drappo di sull’altare e coprirne lo ladro la sua mensa? Non altrimenti si dee ridere, tiranni, delle vostre messioni, che del ladro che menasse alla sua casa li convitati, e la tovaglia furata di sull’altare, colli segni ecclesiastici ancora, ponesse in sulla mensa e non credesse che altri se n’accorgesse.  Udite, ostinati, che dice Tulio contra voi nel libro delli Officii: "Sono molti, certo desiderosi d’essere apparenti e gloriosi, che tolgono alli altri per dare alli altri, credendosi buoni essere tenuti [ver li loro amici, se li] arricchiscono per qual ragione essere voglia. Ma ciò tanto è contrario a quello che fare si conviene, che nulla è più".

 Convienesi anche a questa etade essere affabile, ragionare lo bene, e quello udire volentieri: imperò che allora è buono ragionare lo bene, quando ello è ascoltato. E questa etade pur ha seco un’ombra d’autoritade, per la quale più pare che [lei] l’uomo ascolti che nulla più tostana etade, e più belle e buone novelle pare dover savere per la lunga esperienza della vita. Onde dice Tulio in quello Di Senettute, in persona di Catone vecchio: "A me è ricresciuto e volontà e diletto di stare in colloquio più ch’io non solea".

 E che tutte e quattro queste cose convegnano a questa etade, n’amaestra Ovidio nel settimo [di] Metamorfoseos, in quella favola dove scrive come Cefalo d’Atene venne ad Eaco re per soccorso, nella guerra che Atene ebbe con Creti. Mostra che Eaco vecchio fosse prudente, quando, avendo per pestilenza di corrompimento d’aere quasi tutto lo popolo perduto, esso saviamente ricorse a Dio e a lui domandò lo ristoro della morta gente; e per lo suo senno, che a pazienza lo tenne e a Dio tornare lo fece, lo suo popolo ristorato li fu maggiore che prima.  Mostra che esso fosse giusto, quando dice che l’esso fu partitore a nuovo popolo e distributore della terra diserta sua.  Mostra che fosse largo, quando disse a Cefalo dopo la dimanda dello aiuto: "O Atene, non domandate a me aiutorio, ma tolletelvi; e non dite a voi dubitose le forze che ha questa isola. E tutto questo è [lo] stato delle mie cose: forze non ci menomano, anzi ne sono a noi di soperchio; e lo avversario è grande, e lo tempo da dare è, bene aventuroso e sanza escusa". Ahi quante cose sono da notare in questa risposta! Ma a buono intenditore basti essere posta qui come Ovidio la pone.  Mostra che fosse affabile, quando dice e ritrae per lungo sermone a Cefalo la istoria della pestilenza del suo popolo diligentemente, e lo ristoramento di quello.

 Per che assai è manifesto a questa etade essere [queste] quattro cose convenienti: per che la nobile natura in essa le mostra, sì come lo testo dice. E perché più memorabile sia l’essemplo che detto è, dice di Eaco re che questi fu padre di Telamon, [di Peleus] e di Foco, del quale Telamon nacque Aiace, e [di Peleus] Achilles.

XXVIII. Apresso della ragionata particola è da procedere all’ultima, cioè a quella che comincia:

poi nella quarta parte della vita,

per la quale lo testo intende mostrare quello che fa la nobile anima nella ultima etade, cioè nel senio.  E dice ch’ella fa due cose: l’una, che ella ritorna a Dio, sì come a quello porto onde ella si partio quando venne ad intrare nel mare di questa vita; l’altra si è che ella benedice lo cammino che ha fatto, però che è stato diritto e buono, e sanza amaritudine di tempesta.

 E qui è da sapere, che, sì come dice Tulio in quello Di Senettute, la naturale morte è quasi a noi porto di lunga navigazione e riposo. Ed è così: [ché], come lo buono marinaio, come esso appropinqua al porto, cala le sue vele, e soavemente, con debile conducimento entra in quello; così noi dovemo calare le vele delle nostre mondane operazioni e tornare a Dio con tutto nostro intendimento e cuore, sì che a quello porto si vegna con tutta soavitade e con tutta pace.  E in ciò avemo dalla nostra propia [buona] natura grande amaestramento di soavitade, ché in essa cotale morte non è dolore né alcuna acerbitate, ma sì come uno pomo maturo leggiermente e sanza violenza si dispicca dal suo ramo, così la nostra anima sanza doglia si parte dal corpo ov’ella è stata. Onde Aristotile in quello Di Gioventute e Senettute dice che "sanza tristizia è la morte ch’è nella vecchiezza".

 E sì come a colui che viene di lungo cammino, anzi ch’entri nella porta della sua cittade, se li fanno incontro li cittadini di quella, così alla nobile anima si fanno incontro, e deono fare, quelli cittadini della etterna vita; e così fanno per le sue buone operazioni e contemplazioni: ché, già essendo a Dio renduta e astrattasi dalle mondane cose e cogitazioni, vedere le pare coloro che apresso di Dio crede che siano.  Odi che dice Tulio, in persona di Catone vecchio: "A me pare già vedere e levomi in grandissimo studio di vedere li vostri padri, che io amai; e non pur quelli [che io stesso conobbi bramo d’incontrare], ma eziandio quelli di cui udi’ parlare".  Rendesi dunque a Dio la nobile anima in questa etade, e attende lo fine di questa vita con molto desiderio e uscire le pare dell’albergo e ritornare nella propia mansione, uscire le pare di cammino e tornare in cittade, uscire le pare di mare e tornare a porto.

 O miseri e vili che colle vele alte correte a questo porto, e là ove dovereste riposare, per lo impeto del vento rompete, e perdete voi medesimi là dove tanto camminato avete! Certo lo cavaliere Lanzalotto non volse [in porto] intrare colle vele alte, né lo nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano. Bene questi nobili calaro le vele delle mondane operazioni, che nella loro lunga etade a religione si rendero, ogni mondano diletto ed opera disponendo.

 E non si puote alcuno escusare per legame di matrimonio, che in lunga etade lo tegna; ché non torna a religione pur quelli che a santo Benedetto, a santo Augustino, a santo Francesco e a santo Domenico si fa d’abito e di vita simile, ma eziandio a buona e vera religione si può tornare in matrimonio stando, ché Dio non volse religioso di noi se non lo cuore.  E però dice santo Paulo alli Romani: "Non quelli ch’è manifestamente, è Giudeo, né quella ch’è manifesta [in] carne è circuncisione; ma quelli ch’è in ascoso è Giudeo, e la circuncisione del cuore, in ispirito non in littera, è circuncisione: la loda della quale [è] non dalli uomini ma da Dio".

 E benedice anco la nobile anima in questa etade li tempi passati; e bene li può benedicere, però che, per quelli rivolvendo la sua memoria, essa si rimembra delle sue diritte operazioni, sanza le quali al porto ove s’apressa, venire non si potea con tanta ricchezza né con tanto guadagno.  E fa come lo buono mercatante, che, quando viene presso al suo porto, essamina lo suo procaccio e dice: ‘Se io non fosse per cotal cammino passato, questo tesoro non avre’ io, e non avrei di ch’io godesse nella mia cittade, alla quale io m’appresso’; e però benedice la via che ha fatta.

 E che queste due cose convegnano a questa etade, ne figura quello grande poeta Lucano nel secondo della sua Farsalia, quando dice che Marzia tornò a Catone e richiese lui e pregollo che la dovesse riprendere [nella sua etade] quarta: per la quale Marzia s’intende la nobile anima.  E potemo così ritrarre la figura a veritade: Marzia fu vergine, e in quello stato si significa l’adolescenza; [poi si maritò] a Catone, e in quello stato si significa la gioventute; fece allora figli, per li quali si significano le vertudi che di sopra si dicono alli giovani convenire; e partissi da Catone e maritossi ad Ortensio, per che [si] significa che si partì la gioventute e venne la senettute; fece figli di questo anche, per che [si] significano le vertudi che di sopra si dicono convenire alla senettute.  Morì Ortensio; per che [si] significa lo termine della senettute; e vedova fatta - per lo qual vedovaggio [si] significa lo senio - tornò Marzia dal principio del suo vedovaggio a Catone, per che [si] significa, la nobile anima dal principio del senio tornare a Dio. E quale uomo terreno più degno fu di significare Dio che Catone? Certo nullo.

 E che dice Marzia a Catone? "Mentre che in me fu lo sangue", cioè la gioventute, "mentre che in me fu la maternale vertute", cioè la senettute, che bene è madre dell’altre vertudi, sì come di sopra è mostrato, "io" dice Marzia "feci e compiei li tuoi comandamenti", cioè a dire che l’anima stette ferma alle civili operazioni. Dice: "E tolsi due mariti", cioè ‘a due etadi fruttifera sono stata’.  "Ora" dice Marzia "che ’l mio ventre è lasso, e che io sono per li parti vòta, a te mi ritorno, non essendo più da dare ad altro sposo", cioè a dire che la nobile anima, conoscendosi non avere più ventre da frutto, cioè li suoi membri sentendosi a debile stato venuti, torna a Dio, colui che non ha mestiere delle membra corporali.  E dice Marzia: "Dammi li patti delli antichi letti, dammi lo nome solo del maritaggio"; che è a dire che la nobile anima dice a Dio: ‘Dammi, Signor mio, omai lo riposo di te; dammi almeno che io in questa tanta vita sia chiamata tua’. E dice Marzia: "Due ragioni mi movono a dire questo: l’una si è che dopo me si dica ch’io sia morta moglie di Catone; l’altra si è che dopo me si dica che tu non mi scacciasti, ma di buono animo mi maritasti".  Per queste due cagioni si muove la nobile anima; e vuole partire d’esta vita sposa di Dio, e vuole mostrare che graziosa fosse a Dio la sua operazione. Oh sventurati e mal nati, che innanzi volete partirvi d’esta vita sotto lo titolo d’Ortensio che di Catone! Nel nome di cui è bello terminare ciò che delli segni della nobilitade ragionare si convenia, però che in lui essa nobilitade tutti li dimostra per tutte etadi.

XXIX. Poi che mostrato [ha]e lo testo quelli segni li quali per ciascuna etade appaiono nel nobile uomo e per li quali conoscere si puote, e sanza li quali essere non puote, come lo sole sanza luce e lo fuoco sanza caldo, grida lo testo alla gente, all’ultimo di ciò che di nobilità è contato, e dice: ‘O voi, che udito m’avete, vedete quanti sono coloro che sono ingannati!’: cioè coloro che, per essere di famose e antiche generazioni e per essere discesi di padri eccellenti, credono essere nobili, nobilitade non avendo in loro.

 E qui surgono due questioni, alle quali nel fine di questo trattato è bello intendere. Potrebbe dire ser Manfredi da Vico, che ora Pretore si chiama e Prefetto: ‘Come che io mi sia, io reduco a memoria e rapresento li miei maggiori, che per loro nobilitade meritaro l’officio della Prefettura, e meritaro di porre mano allo coronamento dello Imperio, [e] meritaro di ricevere la rosa dallo romano Pastore: onore deggio ricevere e reverenza dalla gente’. E questa è l’una questione.

 L’altra è che potrebbe dire quelli da santo Nazzaro di Pavia, e quelli delli Piscicelli da Napoli: ‘Se la nobilitade è quello che detto è, cioè seme divino nella umana anima graziosamente posto, e le progenie o vero schiatte non hanno anima, sì come è manifesto, nulla progenie o vero schiatta nobile dicere si potrebbe: e questo è contra l’oppinione di coloro che le nostre progenie dicono essere nobilissime in loro cittadi’.

 Alla prima questione risponde Giovenale nell’ottava satira, quando comincia quasi esclamando: "Che fanno queste onoranze che rimagnono dalli antichi, se per colui che di quelle si vuole amantare male si vive? se per colui che delli suoi antichi ragiona e mostra le grandi e mirabili opere, s’intende a misere e vili operazioni? Avegna [che............ Chi dicerà"], dice esso poeta satiro "nobile per la buona generazione quelli che della buona generazione degno non è? Questo non è altro che chiamare lo nano gigante".  Poi apresso, a questo cotale dice: "Da te alla statua fatta in memoria del tuo antico non ha dissimilitudine altra se non che la sua testa è di marmo, e la tua vive". E in questo, con reverenza lo dico, mi discordo dal Poeta, ché la statua di marmo, di legno o di metallo rimasa per memoria d’alcuno valente uomo, si dissimiglia nello effetto molto dal malvagio discendente.  Però che la statua sempre afferma la buona oppinione in quelli che hanno udito la buona fama di colui cui è la statua, e nelli altri [la] genera: lo ma[l]estr[u]o figlio o nepote fa tutto lo contrario, ché l’oppinione di coloro che hanno udito bene delli suoi maggiori, fa più debile; ché dice alcuno loro pensiero: ‘Non può essere che delli maggiori di costui sia tanto quanto si dice, poi che della loro semenza così fatta pianta si vede’. Per che non onore ma disonore dee ricevere quelli che alli buoni mala testimonianza porta.  E però dice Tulio che ‘lo figlio del valente uomo dee procurare di rendere al padre buona testimonianza’. Onde, al mio giudicio, così come chi uno valente uomo infama è degno d’essere fuggito dalla gente e non ascoltato, così lo ma[l]estr[u]o disceso delli buoni maggiori è degno d’essere da tutti scacciato, e de’ si lo buono uomo chiudere li occhi per non vedere quello vituperio vituperante della bontade che in sola la memoria è rimasa. E questo basti al presente alla prima questione che si movea.

 Alla seconda questione si può rispondere che una progenie per sé non ha anima, e bene è vero che nobile si dice, ed è per certo modo. Onde è da sapere che ogni tutto si fa delle sue parti. È alcuno tutto che ha una essenzia simplice colle sue parti, sì come in uno uomo è una essenzia di tutto e di ciascuna parte sua; e ciò che si dice [essere] nella parte, per quello medesimo modo si dice essere in tutto.  Un altro tutto è che non ha essenzia comune colle parti, sì come una massa di grano; ma è la sua una essenzia secondaria che resulta da molti grani, che vera e prima essenzia in loro hanno. E in questo tutto cotale si dicono essere le qualitadi delle parti così seconda[ria]mente come l’essere: onde si dice una bianca massa, perché li grani onde è la massa, sono bianchi.  Veramente questa bianchezza è pur nelli grani prima, e secondariamente resulta in tutta la massa, e così secondariamente bianca dicere si può; e per cotale modo si può dicere nobile una schiatta o vero una progenie. Onde è da sapere che, sì come a fare una [bianca] massa convegnono vincere li bianchi grani, così a fare una nobile progenie convegnono in essa li nobili uomini [vincere] (dico ‘vincere’ essere più che li altri), sì che la bontade colla sua grida oscuri e celi lo contrario che dentro èe.  E sì come d’una massa bianca di grano si potrebbe levare a grano a grano lo formento, e a grano [a grano] restituire meliga rossa, e tutta la massa finalmente cangerebbe colore; così della nobile progenie potrebbero li buoni morire a uno a uno, e nascere in quella li malvagi, tanto che cangerebbe lo nome, e non nobile ma vile da dire sarebbe. E così basti alla seconda questione essere risposto.

XXX. Come di sopra nel terzo capitolo di questo trattato si dimostra, questa canzone ha tre parti principali. Per che, ragionate le due (delle quali la prima cominciò nel capitolo predetto, e la seconda nel sestodecimo; sì che la prima per tredici e la seconda per quattordici capitoli è determinata, sanza lo proemio del trattato della canzone, che in due capitoli si comprese), in questo trentesimo e ultimo capitolo, della terza parte principale brievemente è da ragionare, la quale per tornata di questa canzone fatta fu [ad] alcuno adornamento, e comincia:

Contra-li-erranti mia, tu te n’andrai.

 E qui primamente si vuole sapere che ciascuno buono fabricatore, nel fine del suo lavoro, quello nobilitare e abellire dee in quanto puote, acciò che più celebre e più prezioso da lui si parta. E questo intendo, non come buono fabricatore ma come seguitatore di quello, fare in questa parte.

 Dico adunque: "Contra-li-erranti mia". Questo ‘Contra-li-erranti’ è tutto una parola, ed è nome d’esta canzone, tolto per essemplo dal buono frate Tommaso d’Aquino, che a un suo libro, che fece a confusione di tutti quelli che disviano da nostra Fede, puose nome ‘Contra li Gentili’.  Dico adunque: ‘tu andrai’, quasi dica: ‘Tu se’ omai perfetta, e tempo è di non stare ferma ma di gire, ché la tua impresa è grande’;

e quando tu sarai

in parte dove sia la donna nostra,

dille lo tuo mestiere. Ove è da notare che, sì come dice nostro Signore, non si deono le margarite gittare inanzi a’ porci, però che a loro non è prode, e alle margarite è danno; e come dice Esopo poeta nella prima Favola, più è prode al gallo uno grano che una margarita, e però quella lascia e quello coglie.  E in ciò considerando, a cautela di ciò comando alla canzone che suo mestiere discuopra là dove questa donna, cioè la Filosofia, si troverà. Allora si troverà questa donna nobilissima quando si trov[er]à la sua camera, cioè l’anima in cui essa alberga. Ed essa Filosofia non solamente alberga [....... alberga] non pur nelli sapienti, ma eziandio, come provato è di sopra in altro trattato, essa è dovunque alberga l’amore di quella. E a questi cotali dico che manifesti lo suo mestiere, perché a loro sarà utile la sua sentenza, e da loro ricolta.

 E dico ad essa: Dì a questa donna,

"Io vo parlando dell’amica vostra".

Bene è sua amica Nobilitate; ché tanto l’una coll’altra s’ama, che Nobilitate sempre la dimanda, e Filosofia non volge lo sguardo suo dolcissimo all’altra parte. Oh quanto e come bello adornamento è questo che nell’ultimo di questa canzone si dà ad essa, chiamandola amica di quella la cui propia ragione è nel secretissimo della divina mente

 


Il Gargarismo? N5

 

Strutture analettiche?

 

Andrej Platonov

 

Nel grande cantiere 1969 Italia

Traduzione Maria Olesúfieva

 

Gentile Signor Platonov inizio questa lettera dicendo che non so se in fondo sia giusto scriverle in questo modo rivolgendomi ad un morto ma vorrei lo stesso mi rispondesse o quanto meno trovasse il tempo di leggere questa lettera che ovviamente nonostante il suo essere scrittore non potrà che apparigli appartenere come è ovvio ad un tempo profano sta di fatto che la sua morte profana ch’è propriamente autentica in qualche modo è stata espressa dalla sua vita e quel che ha scritto è finito per essere letto da me insomma se pur lei è morto io sono vivo ed è appunto ciò che mi fa vedere la sua esperienza senza che essa in effetti tutt’ora esista del resto credo che lei capisca perfettamente questo che voglio dire anche per l’autenticità della sua morte che nel suo libro lei vede attraverso la sua vita come morte stessa della coscienza che ha intorno come vita che si difende o guarda la sostanza che si annulla nell’illusione della rappresentazione di una materia senza atti di un luogo di morte e di disperazione lei ha scritto questo libro nel 1931 e forse come qualcuno ha detto se fosse stato letto quanto è stato scritto molti sarebbero stati diversi ma del resto il mondo sarebbe stato diverso ma come si fa a dirlo quindi l’importante è che lei lo abbia scritto vissuto e rappresentato che nessuno lo abbia potuto leggere è tempo del suo tempo profano che ha trovato il termine verità perso nell’illusione della rappresentazione dell’esistenza del potere

Ho scelto di scriverle non soltanto perché lei ha attraversato un momento così particolare come scrittore tanto che il tentativo di salvare in certo qual modo la coscienza per mezzo dell’espressione letteraria come possibilità di rappresentare la verità completamente decodificata da un lingua ufficializzata quanto vincolante nei termini la posta come ricerca letteraria in una posizione di assoluta indipendenza intellettuale artisticamente dando autenticità alla sua peculiarità di scrittore che cerca in una vera modernità il significato stesso del linguaggio letterario come espressione stessa ch’è letteratura ma come le stavo per dire le scrivo perché attraverso lei vorrei in certo qual modo dare anche il vissuto di quelli che sono stati i liberi pensatori forse termine troppo italiano di quella non classe generata dalla lotta di classe quasi per condizionarla come classe dei dissidenti intellettuali che hanno vissuto sotto il regime sovietico ed io dico propriamente costruttivista le dirò più avanti il perché

Per la caratteristica della sua vita lei ha attraversato i fermenti iniziali ed anche le brutalità dell’inizio della rivoluzione d’ottobre nella sua giovane età così almeno dicono le biografie ma come è naturale in questo caso è inutile entrare nei particolari del perché delle sue convinzioni personali e dire poi nella pratica come queste sono state da lei personalmente espresse nella sua possibilità umana sta di fatto anche senza ricordare dettagliatamente cos’è che ha generato tutto quel periodo le conseguenze stesse che lo hanno generato senza entrare nel merito specifico di quel sia stato il bene e il male che la rivoluzione collettiva ha generato del suo perché più rappresentato tanto basterebbe fermarsi all’immagine che lei ne dà nel libro nel narrare che quel giorno i cani di tutta la Russia abbaiarono forse come di un’energia umana che la stava squassando come dell’energia che li ha resi silenziosi come al di là di quel che l’umanità stava compiendo ma lei mi scuserà queste divagazione voglio dire che la coscienza di scrittore la resa inevitabilmente cosciente e indipendente e critico della sentenza inoppugnabile che l’uomo dava a se stesso al di là della possibile ricerca della verità lei ha vissuto in un’epoca in cui lei abbandonate le logiche del possibile consenso ha potuto vedere il disfacimento senza nessun artificio ma con gli occhi che le raccontavano la verità se non nella possibilità di guardarla scrivendo questa è stata una condizione peculiare che per gli altri liberi pensatori che l’hanno accompagnata o che sono apparsi dopo ha rappresentato l’unica possibilità di sopravivere sia agli internamenti carcerari sia alla dimensione di invisibile in cui venivano rilegati tali esperienze hanno generato i paradossi di quelli che erano gli ordini strutturali delle società sovietizzate per l’invisibilizzato non vi era nessuna possibilità di comunicare le sue idee per con nessun mezzo ma ciò che stabilizzava il paradosso era il fatto che nella costruzione sociale che costituiva tale atteggiamento intellettuale non poteva produrre nessuno stato economico esso come un al di là del realismo materiale ed economico stabilito come nel libro viene detto non esiste l’anima esiste l’economia questa lotta consequenziale alla libertà di coscienza di costoro non solo ha generato opere intellettuali profondamente rappresentative della condizione dell’animo umano ma in fondo un modo di rappresentarle peculiare alla sensibilità dell’autore e della realtà della libertà lei non ha vissuto quel periodo in cui in un certo qual modo ciò poteva produrre quella che era una rappresentazione consensuale nei confronti di questa idea di libertà in quel mondo che diceva di non rappresentarsi nel sistema sovietico quindi forse è stato ancor più invisibile degli invisibile che mentre pulivano un vetro per cercare di sopravvivere dovevano stare attenti a chi gli rivolgeva la parola e alle parole che usavano per le loro risposte tanto poteva bastare per giustificare un pericolo al realismo e qui viene oltremodo chiaro quale fosse in sostanza il senso del pensare in un mondo strutturato costruttivamente penso ma faccio finta di pensare e che in definitiva si differenzia dal condizionamento di coscienza funzionalista che in sostanza si verifica con faccio finta di pensare per pensare se ciò serve al profitto economico e all’immenso consenso di esso si ripete quel nesso con l’illusione materialista si ripete quella logica di quello che fai pensi e quello che ti emoziona ti fa fare e la libertà di quegli che hanno visto i morti per essere nella coscienza al di là del denaro come la sua è più che mai viva tanto che io ho potuto leggerla

La fretta di volere essere quel che non si è che non si sa si auto genererà fin dove l’invisibilità al di là del tornaconto finirà per essere troppo visibile tutto annullerà tutto

È impossibile questo eppure la saluto le mando un saluto tutto in questo tempo il suo stesso tempo profano che esiste al di là della sua definizione non prigioniero del materialismo senza materia l’invio una breve poesia

Poesia analettica

Tutta l’editoria, tutta l’informazione, non è riuscita tutta la

Distribuzione, tutta la pubblicità tutto l’audio visivo, per

tutta la logica finanziaria, per tutta la logica sociale, per

una confluenza con ciò che non è riuscito, ma che riesce,

tutto il volere e il potere, tutti e nessuno.

 

[nello stesso giorno, pubblicato il libro affacciati alla realtà]


sospesa la pubblicazione de il Garagarismo

Il Gargarismo? N 6

 

Strutture

 

Per Paolo Pasolini

 

Petrolio - scritto –

editato nel 1993

 

Comprato nel 1998

Letto nel 2004

Perché

Ma perché del resto che cosa si è detto su questo libro tanto da non dire proprio niente su questo libro

Per questo

Ma del resto in una Italia contemporanea piena di addetti alla psicologia della comunicazione sembrano in fondo costoro capire o anche nel loro far finta di sapere che sul piano della ricerca e dello studio della comunicazione Pasolini è l’unico in Italia che ha mosso e detto qualcosa del resto per loro che cosa è un scrittore o un intellettuale

È in fondo questa l’epoca dei replicanti senza identità di coloro che riproducono un linguaggio senza che possa essere un linguaggio magari privo di coscienza e moralità solo come riproduzione di come viene fatto per rappresentare quello che viene fatto la qualità alta di Pasolini era già rivestita di etica e non di asettica ascetica tecnica pubblicitaria

Già in costoro che avanzano cosa succede usando un linguaggio pubblicitario applicato senza che si abbia un senso e un significato

Perché dire che il libro è incompleto quando il progetto che si vuole realizzare è visibile perché ipotizzare degli errori quanto Pasolini attraverso il libro spiega chiaramente quale sia la struttura del libro e la logica interpretativa

In fondo Pasolini alla lettera a Moravia ben dice in fondo che sente concluso questo libro l’io impersonale e personale dell’autore che lo ha scritto come del già narrato come dato che ha generato lo sviscerare del suo essere autore

E perché il perché più grande Pasolini è costretto a logiche di spiegazione per far capire ciò che sapeva e che non voleva essere riconosciuto che la cultura contemporanea in cui si muove in fondo non vuol recepire tanto che manca la spiegazione definitiva di che cosa sia o meglio quello che implicitamente gli si chiede e che in fondo è il controllo stesso delle intenzioni di definire il genere come una rappresentazione decodificabile dalla più o meno reale convenienza del momento è un romanzo ma è scritto in molti linguaggi anche questo è difficile da comunicare

Perché in fondo in realtà non è l’asettica tecnica di un ascetismo pubblicitario editoriale quanto convenzionalmente politico che riproduce una tecnica quel modo da far dire è nato un nuovo…. Pasolini non cerca l’affermazione di se stesso scrivendo un nuovo fare del romanzo ed anche di questo sembra quasi debba giustificarsi con i contemporanei che sembra vogliano vedere l’ambizione puerile priva di moralità come scrive nella lettera a Moravia non cerca l’evolversi dei gruppi e dei vari gruppi d’opinione ma in fondo sembra dire che neanche chi gli è più vicino sa intuire la costruzione di un libro come Petrolio e in fondo il senso stesso di quel che sta accadendo sul piano della comunicazione come su  quello della coscienza dei linguaggi e delle identità

Perché Pasolini ha dato sempre adito ad una sorta di convenienze proiettive da parte di tutti sul suo essere persona e sulla possibilità di ricercare la verità attraverso la sua persona di artista che non compiace e che disturba le convenienze e questa possibilità è stata la violenza più illusoriamente proficua a cui Pasolini in certo qual modo è stato volutamente esposto al di là stesso dell’oggettività della volontà del proprio volere come del suo non volere Pasolini è ancora guardato attraverso questa ipotesi di lente riduttiva della convenienza interpretando la proprio proiezione come la realtà stessa di Pasolini della sua più intima realtà

Perché questo al contempo è l’arte vera dell’intellettuale con la sua visione critica ma allo stesso istante non può che essere violenza della più bieca e pagante quella che finge di leggere la propria consapevolezza come l’illusione che proviene dall’esterno pur percependola come volontà propria ed è un po’ il dramma della conflittualità umana espressa nell’arte di Pasolini che sembra dire per mezzo di essa senza dire senza il potere posso essere libero con il potere devo costringermi ad essere libero

Perché questo è l’immenso silenzio e la voce più profonda di Pasolini e la crisi di coscienza che l’essere contemporaneo trasforma in illusione

Perché l’evidenza artistica di ciò è profondamente essenziale in Petrolio è sviscerata al di là stesso della contemporaneità e Pasolini ben sapeva che questa cultura che si identificava nella sua rigidezza e nelle sue proiezioni spesso violente perché ben sapeva che la cultura momentanea e continuativa non poteva decidersi a capire l’affresco che si esprimeva senza affresco nell’elevazione del guardante che all’affresco stesso rinunciava

E ancora vi rinuncia

Petrolio è un libro una letteratura multimediale non solo perché è l’espressione delle possibilità del linguaggio che attraverso la multimedialità si integra per esprimersi nella qualità morale dell’autore

Perché Pasolini ha chiaramente spiegato questo nel progetto ma ancor di più lo ha reso evidente nella lettura del libro ma è anche ovvio che nella genericità del lettore esso convoglia il suo spiegare verso chi voglia capirlo possiamo immaginare affrontarlo ma non convenientemente ridurlo ad uopo del lettore che si gratifica dell’ipotesi dell’editore

Perché non si può leggere cercando i soggetti nelle cazzate e i simbolismi nelle fregnacce è consigliabile non essere miserabili

Perché non si deve poi anche ridurre il tutto a quella forma algebrica delle sintassi che – si - sostantivizzano nel segno più o meno in una aberrazione della possibilità della lingua un conto è dire io esprimo un valore un conto è dire io esprimo il concetto di un oggetto

Perché non mi sto esibendo

Pasolini era un persona gaia sensibilmente felice ciò appare attraverso le sue opere in Petrolio ha dovuto affrontare molte evidenze che la storia posso dire gli parava davanti come quello che l’incontro delle classi non ha ben si portato al loro superamento ma al ripetersi grottesco dello scambio dei ruoli su scala planetaria

Perché il libro è l’affrontare stesso delle possibilità dei punti di scrittura possibili in tale apertura percettiva con l’apertura non solo alle possibilità molteplici dell’espressioni delle opere ma ai loro contenuti di valore umano anche nelle altre opere e multimedialità lette per mezzo di esso-a che non è un vademecum ma la bellezza stessa della libertà di chi lo ha scritto e della presenza del suo autore che scrive e in fondo lasciando il lettore per ritrovarlo

Perché cos’è che guarda i fatti che in esso vi sono narrati se non la forma umana dello scrittore che cerca una forma espressiva al di là dei fatti narrati come visioni liberamente intime della possibilità di chi legge è letteratura modernamente ma classicamente sviscerata

Perché il linguaggio della multimedialità già il concetto e oltre il valore del contenuto

Perché poche persone ancora oggi hanno capito e non so neanche se in fondo le posso immaginare che questo è un libro godibilissimo un grande libro che non finisce di essere mai quello che mi aspetto la bellezza della leggibilità della qualità dell’apertura del senso nei contenuti più profondi nel modo stesso della scrittura

Perché ancora oggi è ridicola la situazione globale come profonda della cultura e di quelli che procacciano l’immagine di Pasolini in un modo del tutto idiota ed insufficiente che in realtà fingere di dire la verità anche per impurezza dell’ignoranza conviene alla multimedialità dei gruppi di opinione reticolizzati spesso al di là della decenza e dello squallore

Petrolio non ha anticipato i tempi come qualunquisticamente si dice Pasolini era l’artista che è senza che per forza ci sia una ufficialità nel riconoscimento e una proiettiva convenienza

Petrolio è un libro profondo e ricco che va vissuto con coscienza e realtà di guardare e capire anche quello che non si può guardare vedendo oltre per mezzo dello stile della scrittura e delle sue voci sempre evidenti e profondamente evidenti

Petrolio per certi versi è un libro esilarante nel senso più bello e autentico della satira dove il sesso più tabù è il grottesco più alto del personaggio

E perché il “racconto del sesso” acquista i reali connotati della scrittura reale di Pasolini nel preciso istante in cui lo stile attraversa l’immagine rompendo l’immagine di chi legge dove l’ipotesi è sovrastata dal possibile senza che in questo non si smetta di vedere lo stile e la propria immagine che guarda e che deve andare oltre quel che guarda

Perché questi momenti del libro chiedono al lettore di capire l’insieme del libro e la gaiezza e la bellezza di scrivere.  

 

(Il Gargarismo? N 6 (comunicazione ai news – non pubblicata)

 

Strutture

 

Per Paolo Pasolini

 

Petrolio - scritto –

editato nel 1993

 

Comprato nel 1998

Letto nel 2004

Perché…Continua

 

 

Il Gargarismo fin ora è stato editato in vari news (gruppi di discussione) in diverse parti nel mondo, da questo numero – da questa espressione – le espressioni che riguardano il Gargarismo saranno sempre (finché possibile) nel news it.cultura. (gargarismo ogni 29 di ogni mese)

Il Gargarismo per contenuto ed espressione non ha frontiere o confini, pertanto ringrazio tutti quelli che lo hanno letto nei vari news in cui è stato regolarmente editato fin ora.

“Leggendovi, A presto.

 

(che nessuno impedisca di pensare e capire)

  

[Oltre che su it.cultura, la pubblicazione continua in: japan.lang.latina])

Frase per i lettori del libro, Il numero 6 e i numeri successivi, fini al dodici – che qui di seguito potete leggere - per il momento vengono sospesi, come edizione mensile nei news.

 

Scritto al di là del progetto de il Gargarismo [([…])]

 

 

 


Il Gargarismo? N 7

 

Strutture inesistenti?

 

Il titolo inesistente del libro è:

“La tragedia del vivere umano”

   (La sfinge senza Edipo)

di Miguel De Unamuno.

Saggi di De Unamuno raccolti e tradotti da Piero Pillepich 1924

 

…del resto signor Piero Pillepich la ragione che può averla spinto a questa divulgazione non è solo il rispetto e la stima per Miguel De Unamuno Maestro come lei lo chiama ma forse qualora fosse possibile una spiegazione all’immane tragedia della guerra appena trascorsa o già anche un appoggio morale all’esilio a cui il signor Unamuno è proprio in questo anno costretto dalla politica che si fa potere e come sempre di fatto avviene nella sua fallace e mediocre esistenza di sistema o regime che poco intende la libertà del pensiero che può farsi politica al di là della politica di potere o della convenienza dei/l consociativismo sociali che spesso la sostiene più o meno responsabilmente Di fatto nella scelta dei brani filosofici da lei scelti credo non vi sia solo la ragione del loro essere ancora inediti essi in Italia ma io credo di vedervi un richiamo preciso a quelli che sono i criteri di analisi e di ragione che in essi evidenziano non già il fraintendimento come significato ma la ragione e il motivo della improrogabilità di stare nel senso e nel significato come responsabilità che rifiuta l’inganno persuadente della logica come alterazione della verità che nega l’evidenza di se stessa per mezzo della persuasione del negare la responsabilità e la libertà dell’individuo per mezzo di una dialettica e una volontà che camuffa gli effetti usando gli stessi termini del commento come spiegazione del commento stesso all’ipotesi che causano gli effetti lo stesso tentativo di De Unamuno di significare una libera e autentica responsabilità dell’individuo senza sottostare allo scarto del senso e della logica tra il possibile e la volontà Signor Piero Pillepich credo che siano questi i motivi che l’hanno indotta con consapevolezza a trovare questa linea di sintonia immaginativa con l’autore dei saggi al di là delle possibili manipolazioni a cui gli scritti dell’autore De Unamuno per riduzione immaginativa potrebbero convergere nella stasi insignificante del fraintendimento delle intenzioni sue attraverso il linguaggio da esso usato nel tentativo di spiegare l’atto del senso a chi ha dato all’atto il senso che più gli conviene e lo appaga nella volontà In questi saggi così come sono stati raccolti vi appare anche il tentativo filosofico di De Unamuno di chiaramente difendersi dalla perturbazioni dell’incoscienza, della menzogna che socialmente ha intorno

 

Egregio Signore Miguel De Unamuno credo sia impossibile per me non apprezzare la critica della coscienza per mezzo della stessa coscienza che lei esprime in questi saggi del resto la visione contemporanea sta sviscerando appieno quella che forse appare come la rottura stessa dell’immagine all’interno della coscienza della rappresentazione come significato e motivo del valore di capire in quanto essere reale che sta alla coscienza come alla realtà del proprio significato di umanità mi riferisco con questo termine a lei e non alle possibili manipolazioni a cui tale termine è soggetto per mezzo del senso contemporaneo dato al linguaggio per la falsificazione della coscienza come della realtà di molti Di fatti i molti con misoneismo come da lei rilevato potrebbero dialetticamente falsificare il valore dell’esperienza con tacite affermazione per il consenso e in effetti con tale atteggiamento ottundente la coscienza comportamento di far finta di sapere le cose dicendo ch’è roba vecchia è ovvio per affermare ciò ch’è morto come nuovo i significati di cui lei parla sono espressione anche del collasso stesso del perché del resto questo viene espresso bene da quella logica delle categoria con cui ad esempio si istruiscono gli individui per far sì che rimangano in definitiva profondamente ignoranti è un po’ l’uso che si fa per logica di categoria della categoria dei giovani dove in definitiva per la riproduzione della funzione li si trasforma in perdenti di umanità per uniformarli in una vittoria della volontà in effetti questa categoria che sul piano della realtà è sostenuta da quelle categoria di adulti che ne testimoniano l’appagamento come volontà appunto che governa e si afferma è espressione stessa di un patimento categorizzato della volontà di fatti questa categoria di giovani che per volontà vogliono affermare la loro interpretazione e commento alla conoscenza sono spinti più che dalla realtà dalla frustrazione del confronto che li vede sempre perdenti in quanto non liberi di conoscere ma spinti all’affermazione di se stessi al superamento di ciò che non conoscono e che interpretano e commentano come vera volontà che vuole affermarsi al di là della realtà per mezzo di tale categoria portata al massacro si controlla l’intero processo della realtà e del consenso del potere appunto non per mezzo dell’esperienza dell’umanità dell’individuo ma per affermazione generata dalla frustrazione è ovvio che in definitiva questa esponenziale frustrazione tra le categoria sociali è l’alimento stesso della volontà come del tentativo del controllo della frustrazione che si riesce a generare è che ci sono categorie o ben si formano adatte a propagare e uniformare tale sistema nel più ampio consenso sociale ma del resto con l’andare dello strutturare tale socialità tali categorizzazioni di istruiti perdono importanza appunto con il diffondersi stesso di tali istruzioni e funzionamenti che da tecniche si trasformeranno in modi comuni di convivenza Le ragioni di come tale avvenire avvenga a lei è chiaro ed anche se ho citato questa categoria cosiddetta di giovani in definitiva manipolati da cosiddetti più anziani e in definitiva ognuno dall’ottundimento generale è anche per riflettere con lei di una questione che ancora non è del tutto visibile voglio dire quando ciò avrà spazzato via milioni di uomini e di coscienze avrà attraversato regimi politici di vario genere monarchici dittature costituzionali voglio dire di certo avverrà che avrà messo insieme sistemi di volontà collettivi sempre più vasti e di certo ci saranno stati molti oppositori che poi chissà avranno trasformato queste volontà collettive in altre volontà collettive Ma vorrei anche considerare a questo punto che in definitiva l’immagine del senso e della libertà in definitiva apparirà tale a quei pochi che ancora come individui l’interpreteranno e che quando l’oppressione terminerà sembreranno essere stati la maggioranza e questa illusione forse è l’illusione più grande perché queste logiche della volontà del consenso per il consenso della volontà diventano in un modo o nell’altro sempre espressione della maggioranza Del resto vorrei considerare il fatto che tra le rivoluzioni per la verità c’è stata quella di Gesù Cristo e in fondo con lui c’erano insieme San Giuseppe e la Madonna c’erano dodici persone qualunque e qualche prostituta Quindi in questi termini la questione del potere è più che chiara come ottenere la maggioranza e il consenso di essa e con quali mezzi E il mezzo che usa questo sistema per la maggioranza è quello della contrapposizione tra la paura e la volontà e attraverso le tecniche su questi piani la negazione l’ostracismo la negazione della verità in definitiva la negazione della coscienza e della responsabilità individuale la libertà di essere nel tutto E allora voglio dirle la cosa che penso ora ed è quando questi cataclismi saranno non so in che modo passati e l’espressione stessa di libertà incomincerà a volere per mezzo stesso della volontà che la parola libertà si affermi in definitiva come ora che l’immagine è definitivamente distrutta che l’oggetto è la funzione di scambio e la coscienza dell’individuo un suo derivato avremo forse di fronte una società criminale che di questo essere farà lo status della coscienza come conseguenza stessa degli effetti inevitabili di tale status umano quindi ancora di un’umanità che nega se stessa in ragione dell’interpretazione che darà ai suoi commenti logici e sarà ciò l’essenza stessa della mancanza di logica come libertà dai bisogni primari dell’uomo per mezzo di una volontà che cerca il suo appagamento in ogni modo per mezzo della funzione che li determina Quanti saranno i morti ogni anno in ragione del controllo di questa funzione funzionalità e a quel punto il termine politico di potere da associare al significato di libertà in quale ipocrita significato si trasformerà come saranno dominate le tecniche della persuasione dalla volontà e dalla paura che le alimenta e forse per scelta volontaria tutti insieme decideranno di rinunciare al significato della parola libertà

Ma sarà sempre un individuo in fondo che continuerà a essere libero il resto è l’illusione tra la paura e la volontà

E questa scelta al di là di questi termini spetta ad ogni singolo individuo. 


Il Gargarismo? N 8

 

Strutture citanti?

 

Michele Rizzi

 

La Pubblicità è Una Cosa Seria - 1987

 

La sensazione che trassi dalla lettura di “questi libri” nel 1987 fu quella che il suo autore tentasse in modo riuscito, di non essere il linguaggio la comunicazione, da lui stesso definita nei fatti essere totalizzante del consumo stesso della comunicazione – in queste pagine si è continuamente parlato di una società che consuma comunicazione – e che – la comunicazione di consumo rivela il segno protagonista della comunicazione globale – La pubblicità intesa in senso tradizionale, cioè la comunicazione emessa dalle aziende con finalità commerciale per promuovere il consumo di prodotti e l’acquisto dei servizi, ha una presenza molto rilevante nei mass media. Si calcola che in effetti almeno il 40% dei tempi e degli spazi disponibili sui media è occupato da messaggi pubblicitari : […] Ma l’effetto-pubblicità non si limita a quanto viene prodotto dai messaggi collocati negli spazi pubblicitari di fatti come si aggiunge nel libro la formazione del linguaggio della pubblicità investe e trasforma tutte le altre sfere del linguaggio e delle intenzioni di comunicazione tra le persone, proprio per i fattori stessi della loro efficacia nell’occupare lo spazio mentale dell’individuo trasversalmente i canoni culturali di comportamento. Ma tornando all’autore del libro e all’impressione che mi suscito la prima volta che lo lessi è che il libro diceva, sì diceva e  raccontava molto. Sarà stato per il fatto di una sorta di crisi di identità: si voleva rilegare la figura del pubblicitario come conseguenza estrema del degrado dei comportamenti e come fautore e conseguenza di tale avvenire, quasi un essere immorale incapace di capire quello che faceva funzionalizzato soltanto ad un perché economico, in una società che per mezzo del consenso rappresentava e viveva il proprio io. Ed è per questo che in fondo faccio riferimento solo all’autore del libro come espressione del suo personale tentativo di essere, in una dinamica rappresentativa ch’è riuscita a sublimare l’avere con l’apparire, in fondo in una analisi e presa d’atto – Il verbo diviene sostantivo e, per quanto fragile ed effimera, sostanza: la forma dell’Apparire finisce allora per essere il contenuto stesso della persona, che questa ne sia consapevole o meno. E nel dire senza abbandonare una sua critica personale, ma con un certa importanza affermativa è merito delle trasformazione che la pubblicità ha generato, radicalmente trasformando il senso e il linguaggio della sociologia tradizionale. In questa presa d’atto dell’utilizzo delle altre scienze da parte del pubblicitario tanto da trasformarle profondamente, ma in definitiva funzionalizzandole e in effetti spesso anche non avendone bisogno, ma appunto sostantivizzandole-si nell’ambito della pubblicità. (E nel confronto tra queste realtà non si può, a mio parere ridurre il concetto di essere di Fromm). Sta di fatto che all’epoca vi era una certa ricerca di distinzione del pubblicitario nel dire che la pubblicità non doveva essere per forza volgare e poteva avere una sua qualità espressiva; nel gioco delle immagini formanti comunque è proprio nel tentativo di liberarsi e di poter esprimere, il tentativo di ricerca, che trovo in questo libro, che può rappresentarsi e formarsi il Suo ricercare di essere artista, e nella sua indipendenza, qui “non sempre limpida” ma sempre sincera da essere fuori dal linguaggio manipolante della funzionalizzazione della comunicazione, quindi la Sua affermazione di: Una pubblicità “d’autore” e dei pubblicitari “artisti della comunicazione” non mi paiono dunque utopie velleitarie, ma obbiettivi realisticamente proponibili e – almeno sporadicamente – già raggiunti in diversi Paesi. Insomma credo che il gioco delle parti tra la firma del committente e quella dell’artista, ponga il limite stesso del poter essere artisti e no. E vorrei proprio per questo attraverso l’analisi e la riflessione anche comparata con il presente parlare delle conseguenze, che io definisco disastrose, della pubblicità e del potere sulla persona per mezzo della comunicazione per il consenso, perché alcune conseguenze di peggioramento sono andate al di là delle possibilità scritte nel libro. Partendo in modo leggero dalle analisi che lo concludono, nell’epoca massima dell’apparire la società in effetto” ha avuto una sorta di azzeramento di quelle che erano le logiche di classe, ma in sostanza si è proiettata in mondo di puttane, indistintamente dall’infanzia sino all’ultima età. La comunicazione in definitiva era più pubblicitaria e di conseguenza più vera nella prostituzione che in ogni altro ambito della comunicazione, e ciò che distingueva i fattori di relazione in definitiva era appunto l’unicum o la capacità di identificare la persona. Se in effetti nel mondo delle puttane tale conseguenza era così reale da essere del tutto sublimata e pertanto senza possibilità di “critica” nel mondo della prostituzione i fattori della comunicazione ancora si rappresentavano nella loro interezza pubblicitaria. In definitiva il tentativo di scardinare tali processi della comunicazione, comunque, erano in fin dei conti soggetti all’ambito del consenso e dell’appagamento più o meno surrettizio, ma lo stimolo associativo nei due ambiti si esprimeva con differenti gradi di evidenza e controllo, e di fatto rapidità ipotetica d’appagamento. Ora credo sia bene ricordare a tal proposito che gli episodi di corruzione politica economica espressi dal caso di tangentopoli possono benissimo rientrare nell’ambito della comunicazione siffatta, ([credo per questo sia meglio essere astemi]). E allora in questa sorta di mondo che si ribalta (citando il libro a memoria) e citando la sua citazione di Budrillard […] “se si può sempre sfuggire al principio di realtà del contenuto, non si può mai sfuggire al principio di realtà del codice. È anzi rivoltandosi contro i contenuti che si obbedisce sempre meglio alla logica del codice. (op.cit) Se non si trova un po’ di senso del rinascimento l’arte in effetti non si sa proprio dove sia, non c’erto nell’essere puttane famose nel modo più conveniente possibile, ubriacati di veloce vanità. Per citarla: “Tutto ruota e deve ruotare intorno all’Io, in una spirale di egocentrismo assoluto. Anche piacere agli altri (anzi: soprattutto piacere agli altri) è ormai un atto ego-riferito. Si rende conto che tragedia grottesca e ancor più tragica dove anche l’ironia diventa qualcosa di ridicolo. Lo sta vedendo questo mondo che comunica in questo modo?. E la cito quando lei si riferisce ai pubblicitari: “E hanno scoperto che l’aspetto fenomenico del consumo è, in ultima analisi, quello centrale fra tutti gli atteggiamenti ed i comportamenti dell’uomo occidentale contemporaneo. Si sono dovuti porre un interrogativo sconcertante: che cosa fa la gente se non muoversi per consumare? […] Qui si credeva e si tentava di agevolare soltanto il meccanismo commerciale, e si sono inaspettatamente disvelati i meccanismi psicologici che presiedono non solo al consumo, ma anche a gran parte del comportamento. Crede davvero che un pubblicitario sia così sprovveduto sui processi di psicologizzazione della società. (in fondo non sapevano leggere e capire il suo libro). Ma comunque il capitolo del libro intitolato L’osservatorio pubblicitario: così è se vi pare. Credo serva un po’ a questo, eppure quel codice pubblicitario “Deve cioè passare dal “come” al “perché”, trasformare il suo “Know how” in “know why”. Eppure questo sembra sia stato eluso al di là stesso delle sue debolezze strutturali e si sia verificato proprio il contrario, di questo: “E lo ha fatto al di fuori degli schematismi ideologici, delle rigide classificazioni sociologiche, cercando di evitare il “wishful thinking”: quella pericolosa malattia intellettuale che induce a scambiare i propri desideri per la realtà. Non sarà poi anche per le conseguenze politiche agloamericane con cui è formata la sintassi associativa, ma anche terminologica della pubblicità. Insomma sembra che i pubblicitari hanno avuto un gap di coscienza. Di fatti a me all’epoca del Suo libro venne un dubbio e un po’ per piacere delle mie ricerche mi misi ad osservare più attentamente quel che accedeva attraverso tutta questa comunicazione – che si stava sempre più trasformando in immagine, (dissi in una pizzeria, se più che casuale tutto ciò è voluto e progettato, (altro che behaviorismo e mobbing, termine sconosciuto all’epoca.) e per citare una suo citazione di Karl Karus, detti e contraddetti: è bene ritenere insignificante tante cose e significante tutto. E citando ancora il suo libro: “L’immagine che larga parte della società italiana aveva di sé (e che ritrovava specchiata nei media) strideva acutamente con i suoi comportamenti reali ed empiricamente rilevabili. Detto più schiettamente: da quell’osservatorio (non il mio) si vedevano stranamente convivere un’ideologia che condannava il consumismo e combatteva la società dei consumi, e contemporaneamente una cultura (fatta di gesti, atteggiamenti, “tic”, preferenze e atti d’acquisto che si muoveva esattamente nella direzione opposta.” E allora qui si determinano delle “precise variabili”, il linguaggio e i comportamenti già esprimevano quella forma del linguaggio che lei cita da Watzlawick ha osservato: Se un individuo riceve da un altro “significativo” degli ordini che contemporaneamente esigono e proibiscono talune azioni, insorge una situazione paradossale in cui l’individuo…. Può obbedire soltanto disobbedendo. Il prototipo di questo ordine è. “fai come ti dico, non come vorrei che tu facessi”. (citandola) è forse interessante il fatto che questa particolare forma di interazione umana rientra propriamente (nella vasta) casistica della “comunicazione clinicamente disturbata”…. Ora a parte il clinicamente disturbato ma si immagina una maggioranza d’individui che comunicano tra di essi in questo modo pensando che sia il modo migliore indipendentemente dalla realtà e dalla verità, e se qualcuno prova a dire la verità come un riflesso condizionato si trova di fronte un io che inizia ad agire in questo modo e che si specchia continuamente negli altri, riproducendosi, proprio come una comunicazione pubblicitaria, e questo stato di “coscienza” che si produce dà maggioranza al consenso che per suo mezzo si produce decidendo ciò ch’è bene per se. Perché si producono delle perturbazioni, [in fondo] generate [dal fatto che la comunicazione che] già per effetto continuativo di quel 40% pubblicitario [produce] queste conseguenze sociali e personali, il “sembra - sembrò” inevitabile aumento esponenziale “quasi totalizzante”, fa accadere alla coscienza della persona questa altra cosa che lei cita: Qualcuno ha detto che di tutte le differenze che si possono stabilire fra l’uomo e il computer  ve n’è una assolutamente radicale: l’uomo dimentica il computer no. […] Non sarebbe splendido riuscire a ricordarsi tutto? Se non dimenticassimo nulla, non diventeremo forse mostruosamente intelligenti? No. Sarebbe terribile e noi saremmo semplicemente dei mostri, nel significato peggiore del termine. Privare un uomo della sua capacità di dimenticare sarebbe crudele come privarlo del sonno (e del sogno): impazzirebbe.” [La differenza tra] la memoria selettiva dell’uomo e quella accumulativa del computer in definitiva sono sovrastate da miliardi di stimoli che obbligano non solo a ricordare, ma anche a non volere più ricordare, la comunicazione può diventare un shock totale e continuo che inibisce anche la capacità di selezione, perché ciò che deve essere afferrato e fare da stimolo ma in fondo senza la necessità di capirlo, come efficace soluzione per la conoscenza, è proprio in questa sua citazione: “Per rendersi conto che tutti i messaggi, le notizie, gli avvenimenti, di qualunque natura essi siano, si fanno concorrenza fra loro” ed è meglio guardali in modo da poterli osservare. Concludo questo scritto evidenziando un cataclisma che in definitiva si sta generando sul divenire di tale comunicazione, ed è che nell’assunto  - “al fai come ti dico, non come vorrei che tu facessi” (op.cit.) per una sorta di logica di controllo e potere sul pensiero in una sorte di telepatia convergente, spesso delirante ed ancestrale come le immagini del linguaggio pubblicitario che si sedimentano nel sub cosciente la persona, è contemporaneo e nel tentativo di essere più o meno veloce dell’altro, è “fai come facessi - non come ti dico:” in un vincolo dell’immagine che si obbliga a rappresentarsi.  

 


Il Gargarismo? N 9

 

Strutture comparanti?

 

Tutti gli anni e tutti gli autori

 

 

O ognuno si potrebbe quasi di prossimo all’accadere aggiungere. Perché come mi appare ovvio e come con l’andare del tempo diventa ovvio. Ma più anche dire percepibile i pensieri delle frasi apprese incominciano dentro le identità delle persone. Dico identità e sgombro subito chiaramente il fatto che non intento intenzioni sublimate o quant’altro che behaviorismo-sticamante. sostituiscono l’identità a favore della coscienza tuco(u)rt che non esiste ma controlla. Con tecniche emulative più o meno condizionanti. Quasi che un gesto mal posto in una frase provochi un ripetersi d’immagini che danno alla strategia l’intenzione emulativa e ripetitiva della pubblicità. Come dell’immagine Assente come presente nella rappresentazione che si ripete. E appunto qui sta la differenza della rappresentazione che intento io. Se per ipotesi un gesto mal posto behavoristico .che sia. pone l’interloquente come per ipotesi l’interlocutore. Nella possibilità associativa del gesto dell’immagine che sta e si proietta sulle intenzioni dei due e che si differenziano per intenzioni della volontà. Di fatti per un’immagini naturale che si ripete l’interpretazione è variabile e la parola esplicativa. Invece o oppure per una gesto behavoristico la rappresentazione tende al controllo delle intenzioni. Nella stasi della spiegazione della volontà a cui si associa una spiegazione. Per effetto proiettivo della superiorità della intenzione che la volontà vuole controllare. L’immagine che si ri-associa genera un’immagine che si pubblicizza e che tende ad “emotivare” l’interpretazione. Tanto che il beharovizzato finisce inevitabilmente con il volere beharovizzare a sua volta per appagare l’emozione della propria volontà e finisce per interpretare la behavorizzazione del proprio gesto behavoristico in ogni sua ripetizione. Tanto da credere per immagine deficiente che l’intenzioni di tale gesto sia suo come la volontà e la spiegazione che vi associa. Fin-quanto i gesti si ripetono in una società beharovizzata solo per stimolare un effetto più che un intenzione. L’associazione produce un transfert. Vieppiù rancoroso o scrupoloso che trasforma la coscienza e proietta il proprio volere behavoristico contro chi non ha tale volontà di controllo. Per un appagamento della superiorità della propria volontà e dell’interpretazione della realtà al di là del vero. Le intenzioni non hanno intenzioni. Il riprodursi di tale fenomeno produce un sistema di invidia sui tempi della conoscenza come su quelli della coscienza. Che stimolano a dare alle immagini il predominio su tutto per eludere la libertà con fattori compensativi legati all’inibizione della volontà dell’altro. come di se stessi. per mezzo di un atteggiamento di superiorità al di là di se stessi come di umanità e persona in essa. Per mezzo di associazioni e consociazioni. Questo status non può per esistere che tendere alla competizione controllo della libertà individuale per mezzo della negazione stessa dell’immagine naturale che la parola comunica e non inficia. Non il dubbio ma la bugia per il dubbio. Mi fermo qui in questa premessa che ripeto è altro da quello che le immagini collettive dei sentito dire delle citazioni ascoltate verbalmente o lette o sviluppatesi nel dialogo. fanno sì che si determini un osmosi e spesso una comparazione tra il sentire personale e il vissuto autentico di un individuo e un altro. Spesso per brevità tali estrapolazioni nel dialogo verbale perdono il nome dell’autore da cui magari per “lettura” sono stati conosciuti. E in effetti il tempo e il luogo della discussione come degli interlocutori dialoganti (in un sano confronto al di là delle logiche del consenso). portano l’intenzione di quella conoscenza nello specifico di quel determinato discorso tanto da rendere superfluo il ricordare un altro autore che si è espresso con quello stesso concetto e o usato gli stessi termini espressivi. Che qualora fossero i suoi quelli dell’autore non citato sarebbero esplicazione e ricerca da parte degli interlocutori del significato dato da quell’autore. Sovente capita che per vanagloria dell’istruzione si possa verificare un atteggiamento ottuso più che altro per il controllo della nozione che fa dire al di là della verbalizzazione dell’esperienza personale del parlante. Ma questo lo ha detto tal dei tali o lo ha detto prima lui. È ovvio che in questo è presente l’intenzione manipolatrice più per un atteggiamento di competizione fine a se stessa che per uno stato della coscienza che cerca la conoscenza. Un po’ come volere nascondere l’autore per dire l’ho detto prima io. Che la possibilità di scoprire che anche un altro lo ha pensato e scoprire un atto di condivisione. Nel primo caso si cerca una superiorità dell’io e lo sfruttamento per lo più commerciale del proprio io e un Valore anche per mezzo della menzogna di codificazione del proprio atteggiamento di superiorità. Spesso rubando e criminalizzando l’esperienza dell’altro che così si vuole prevaricare. E allora tornando alle persone che cercano la realtà per mezzo della ricerca della verità succede loro spesso o che scoprano un proprio valore intimo nell’esperienza dell’altro un motivo di confronto non solo con l’altro ma anche con se stessi e che una frase che naviga nell’aria finisce per ritrovarsi anche nella parola di qualcun altro. Se non proprio uguale dal suono molto simile. Quasi che ci si stupisce e ci si meraviglia. (questo nel naturale essere e non nelle tecniche che la contemporaneità che sta allo scadere di quasi un secolo ha chiamato behavoristiche).

E allora questa o questo atto di comparazione ora qui non vuole essere magari il racconto dei casi in cui una propria cosa la si ritrova nella parole pronunciante o scritte. Ma su questo piano la comparazione sta nel fatto sia della riflessione che nella ri-scritttura a volte del confronto del proprio sentire con quel che si legge. [Tale comparazione appunto qui ora sarà o è su brevissimi frammenti che non andranno sempre ad espletare interamento tutto il discorso ma avranno il limite forse di essere comparazioni di frammenti di un discorso più ampio di pensieri più organici e di espressioni verbali che possono essere ancor molto espresse. Le tracce gli incontri siffatti possono essere molteplici e quelli che io esprimerò possono essere considerati alcuni tra i molteplici. Ma come è ovvio gli uni non escludono gli altri.]

Se Darwin avesse osservato qualcosa d’altro invece che quel che avveniva alle isole Galapagos forse sarebbe giunto alle medesimi conclusioni. Sta di fatto che il mondo sensoriale degli animali ha aspetti non sempre immaginabili per l’essere umano. Lo stesso certi suoi fattori di equilibrio. E se l’uomo spesso non cercasse attraverso se stesso di applicarvi la sua volontà e il suo potere potrebbe intuire che il concetto di ineluttabile del mondo animale non nega la percezione del bene. Fosse anche al di là del mondo animale stesso. Del resto proprio questo stato di volontà umana ha dato credito ai fraintendimenti “tra l’espressione animale e la duplicabilità di ciò nell’uomo”. È lo stesso come dire che se i nervi hanno dei riflessi allo stesso modo agisce la coscienza. Ciò in sostanza è l’altro grande fraintendimento a cui il cane di Pavlov è stato soggetto. In definitiva con l’equiparare il riflesso dei nervi alla possibilità che con lo stesso principio la coscienza dell’essere umano è priva di qualsisia direzionalità. E che per tale concetto di riflessologia è possibile dare all’essere umano qualsiasi direzionalità di coscienza e motoria o movimento. Chi uomo sia o donna partecipi. Eppure che l’essere umano sia immensamente partecipe di ciò che può essere bello non è cosa da poco saperlo capire. E allora questa mia comparazione va ad uno scritto raccolto nel 1936 nella ricerca e raccolta di documentazione fatta dall’etnologo Ewald Volhard sul cannibalismo. Valentin Ferdinand faceva nel 1507 l’osservazione che nella costa occidentale dell’Africa il Senegal costituiva una netta linea di separazione – nel nord sosteneva gli uomini erano bianchi. A sud del Senegal invece erano neri (Kunstumann). Ancora più a nord di questa linea demarcatrice tuttavia egli conosce dei monti Buffur (El Gasba) degli indigeni che si mangiano l’un l’altro oppure divorano degli stranieri se riescono ad impossessarsene. Il loro cibo abituale consiste in tamarindi spesso tuttavia gli arabi distruggono loro il raccolto per modo che divengano a difettare di cibo. Allora usano uccidersi e mangiarsi reciprocamente. Non è d’uso arrostire la carne che viene invece mangiata cruda (Kunstumann).

Di fatti potrebbe essere anche possibile una traslazione tra tali eventi e le “possibili conseguenze contemporanee che difficilmente potrebbero accadere così come allora ora” dato il concetto di nazione che ha trasformato il termine e il concetto: Allora usavano uccidersi e mangiarsi reciprocamente. Difatti il paradosso tra il mondo animale e quello umano sembra consistere di questa unica direzione.

[può continuare]


Il Gargarismo? N 10

 

Strutture di rappresentazioni?

 

È un fatto che l’analisi abbia sempre bisogno del suo tempo, eppure le risorse di rappresentazione dei tempi per mezzo delle analisi, per lo più possono anche evidenziare il tempo analiticamente e non come rappresentazione, se nel continuato delle caratteristiche delle analisi sullo stato del tempo vieppiù quel che sopravvive è l’analisi stessa in relazione con la verità, in una sorta di possibilità del possibile dell’analisi di chi cerca un rapporto con la rappresentazione della verità, come rappresentazioni del tempo al di là del tempo dell’analisi,

le rappresentazioni che così parallelamente esistono sul tempo danno una possibilità di analisi per mezzo della ricerca della verità come essere ancor più che esserci, ma in realtà di analisi esserci nell’essere come possibilità che non ha analisi nella storia ma nella consapevolezza della ricerca della verità come silenzio dell’analisi che interroga incessantemente profondamente ciò che non si rappresenta se pur visto, se stessi e l’individuo nella sua universalità,

in queste rappresentazioni che potrebbero esserci citanti in definitiva, esse potrebbero mancare dell’atto della ricerca della rappresentazione, e ancor più della verità e in definitiva della possibilità di essere conosciute, in definitiva se una analisi ha, contiene della verità la conseguenza della non ricerca di questa ultima pone la universalità, la sua universalità come non riconosciuta e pur esistente l’analisi o le analisi che la rappresentano possono non essere percepite nel tempo relativo che le interpretano,

la conseguenza dei relativismi che si assolutizzano è lo status stesso della costruzione dell’analisi come consenso dello status che rappresenta la verità come viene percepita dall’analisi dello status o relatività della coscienza universale dell’analisi dell’essere umano,

da questo epilogo o rappresentazione gli autori delle possibili analisi che sviscerano l’autenticità di se stessi, lasciano in questo momento il ricordo come evento della coscienza che nella singolarità dell’individuo riesce ancora a trovare i principi dell’analisi come partecipazione della verità e delle possibilità di viverla, le possibilità di ciò - è nella peculiarità di chi riesce a vivere ciò come silenzio della rappresentazione per ciò ch’è vero, il silenzio degli autori delle analisi è solo apparente come l’analisi che potrebbe apparire,

sembra non esserci più spazio per un atto contemporaneo se non in conseguenza della privazione della verità, ed ora sul paino relativo del relativismo appare un atteggiamento sopracitante quello di rammentare le analisi per l’interpretazione perché è proprio la possibilità relativa di quest’ultima che determina un contemporaneo ritorno alla perdita dell’analisi come ricerca della verità, l’assolutizzazione del relativismo rende certa l’interpretazione dell’analisi dello status che si dà per vero, la non rappresentazione per impossibilità della percezione della universalità della verità rende rappresentabile e percepibile come vero il consenso dello status relativistico come conoscenza e atto della realtà, l’ignoranza stessa così può avere struttura sistemica e rappresentazione di conoscenza e status consensuale qualora il relativismo della percezione vi sia protagonista, e da questo contesto appariscente sembra (si) debba calarsi nel confronto relativo della relatività dello status della giurisdizione e della economia, fattori dell’esserci per se stessi parziali dell’essere come percezione dell’universale umano, il fatto contemporaneo non è tanto la loro sempre perenne insopportabilità di quelli che sono i bisogni e le soluzioni che per mezzo di queste analisi parziali della verità si raggiungono, ma nei momenti di acuita perdita della ricerca della verità la loro assolutizzazione relativistica, per l’interpretazione dello status rende questi ultimi fini e non mezzi parziali che si contrappongono alla percezione di universalità dell’essere umano come se stesso individuale e universale nel silenzio dell’analisi, il piano relativo dell’ignoranza mondiale in questa contemporaneità, pone quasi l’impossibilità di vedere le conseguenze e per tanto la possibilità dell’analisi stessa che cerca la verità, e la valutazione, come la stessa percezione è una subitanea risata, un ilare motto che sta al ridicolo come la tragedia che immediatamente lo segue, quasi che sembra incredibile che possa essere come è, l’eziologia dell’oggetto e la percezione, in conseguenza tra questi due effetti, si assiste alla strutturazione dello status sul piano globale, tra un individuo e un altro individuo, una riformulazione di status per contrapposizione fino alla determinazione della percezione della verità per somma di effetti più che di realtà dell’espressione e del contenuto, uno stimolo associato-tivo globalizzato sulla relativa efficacia del fine economico come su quello giuridico, si stabilisce una supremazia fin tanto che si sopravanza il sopraponente della contrapposizione, o il soprapponente si stabilizza sulla contrapposizione, per e nei fattori relativi della percezione dell’analisi dello status per la verità, competere per contrapporsi, contrapporsi per percepire, il nuovo sopraponente che così (ha di già raggiunto) riformula i valori che determinano lo status di realtà contemporaneo come assoluto bisogno primario, le conseguenze sono relative ai fini economici delle percezioni ed esse sono la stessa eziologia dell’oggetto che stabilisce la giurisdizione del possesso, come della pena che per essa stessa è la massima espressione del controllo della verità percepita,

Per contrapposizione non si comprendono le conseguenze o le responsabilità, basta vincere per la lecita morale della conseguenza, qualsiasi conseguenza e aumento della punizione senza norma o efficacia, di fatti la libertà è così un delirio percettivo per stabilire la lecita illimitata delle possibilità, e tali percezioni sono indistinte e introiettivamente-amente proiettive non solo sulla per la sfera dello status, ma esponenzialmente sul piano caratteristico delle fasi dello sviluppo della persona come unica percezione coscia della lecita dei propri istinti come dei propri stati inconsci, il nuovo status dell’analisi,, In tale situazione la possibilità ha bisogno (in maggior ragione) sul piano della percezione collettiva che sa di essere senza limiti (ma al contempo) proietta un bisogno di controllo sull’analisi della verità il bisogno dell’assolutezza della certezza del controllo della verità, sul piano giurisdizionale con la ricerca oggettiva e appagante della pena di morte come controllo sul relativo, la presenza della consociatività su tali base serve ancor di più per il controllo percettivo dell’appagamento della certificazione di sapere che si contrappone alla conoscenza che non è strutturata, sistema che determina per consenso la volontà per la certificazione di ciò ch’è utile e no, e ciò sempre a discapito dell’analisi per la ricerca della verità come dell’espressione dell’analisi per mezzo della verità, la sua rappresentazione che si rappresenta, ovviamente non dipendente dal sistema di certificazione consensuale contrapponente, ch’è e può essere in status sull’intero piano culturale dell’interpretazione dell’individuo contemporaneo, alla moda o contro la moda, consenso e apparire, sentenza e  economia. 

 


Il Gargarismo? N 11

 

Strutture atteggianti?

 

Tutta la struttura contemporanea poggia su questo concetto applicato alla sostanza del proprio essere nei comportamenti sia introversi che estroversi, sia intimi che pubblici e pubblicizzati: nell’atteggiamento di darsi importanza si stabilisce si stabilisce la percezione bipolare da proiettare. Se io ti do importanza tu sei importante – indipendentemente dai contenuti – riduzione e annullamento dei contenuti invidia competitiva per l’importanza, calunnia morale e menzogna verso se stessi e gli altri per mantenere la comunicazione del darsi importanza. Società psicopatica – collettiva – dittatura politica- culto – liberismo economico. Sovente ascoltiamo capi di stato o esponenti politici che vivono in questo costrutto di realtà dimostrare ed evidenziandola collettivizzandola questa loro psicosi di atteggiamento con tutto il gruppo consociativo con cui praticano tale atteggiamento. È chiaro credo per quei pochi che ancora ragionano e che devono anche non volendo interagire con questa componente demenziale che si propaga e riguarda l’intera struttura sociale. In fondo in ragione di tale atteggiamento si stabilisce un comportamento autistico come comportamento di superiorità, che fa della non comunicazione il fattore primario della superiorità per il controllo della comunicazione e dello stimolo per mantenere il proprio atteggiamento, tale fenomeno sembra in apparenza non esistere in conseguenza del fatto che in opposizione alla realtà e profondità dei contenuti, anche di un solo individuo, si stabilisce una consociazione per mantenere l’atteggiamento d’importanza, e tramite questo far finta che quel che non si vuole sapere non sia importante e che la verità che si vuole esprimere acquisisce realtà solo s’è ascoltata da “loro. Spesso però capita che in tal modo non solo consociativamente si riesce a dimostrare ch’è vera la menzogna o l’ignoranza come rapporto che evita il confronto con i contenuti di verità del singolo o della verità in generale, ma con tale atteggiamento si mantiene la faziosità dello stimolo emotivo con cui ci si sente importante a prescindere da qualsiasi altra realtà che non è conveniente al mantenimento di tale atteggiamento, come apparire della forza e del potere. Vi immaginate l’intelligenza così conformata ed interpretata, come dire se uno dice una cosa intelligente, per ipotesi (in ragione del fatto) che) due dicono un idiozia solo per avere ragione in opposizione alla cosa intelligente, e siete capaci di vedere una intera società che a tutti i livelli percepisce se stessa e la realtà in questo modo in ragione di una sensazione emozione collettiva – una società che ha imparato ad essere mafiosa e fa di questo un vanto, psicopaticamente consensualmente mafiosa. In questo folle sistema culturale vengono sistematicamente strutturati gli stimoli associativi più assurdi pur di continuare a percepire questo atteggiamento consociativo d’importanza, le invenzioni più banali e mediocri, dette le menzogne più cretine a cui è più conveniente credere e con la non curanza dello stare nella convenienza più superficiale che forse sia possibile nella moralità più criminale. Una società che si contorce su se stessa che gerarchizza la volontà per un atteggiamento di potere e importanza, per dire una volta per tutte che la verità è solo in questo atteggiamento e nel suo percepirlo. Una idolatria della storia del presente e di tutto quel che conviene per avere più importanza e sentirsi superiori. Da questa esaltazione da questo atteggiamento di stimolo per lo stimolo di perdita dello stimolo, per trovare nuovamente l’atteggiamento e il consociativismo associativo quel neologismo – che si vorrebbe inventare e occultare, ch’è nuovo in quanto fa riferimento a tecniche di pressione e manipolazione della coscienza su basi psicologiche; e che proprio di questo si nutre e si riproduce di questa ricerca di atteggiamento e di riversamento sull’altro in una competizione che abbisogna di mobbizzarsi o bipolarizzarsi per bipolarizzare l’altro e competervi per la supremazia dell’atteggiamento d’importanza, mobbizzare per sentirsi mobbizzati ma più forti, essere anche più cretini e superficiali se ciò serve alla convenienza che si crede di interpretare. Ci sono categorie di persona che da anni fanno le cose peggiori con questi metodi e che hanno così imboscato e collettivizzato la loro realtà, che credono ancora di esserne i principi di tale collettivismo folle.

E allora voglio parlare di uno strano culto dell’immagine dove in ragione di una società autisticamente esaltata di strumenti omofoni quanto senza senso di suoni prodotti in forma di concetti senza altro che la ricerca del consenso in un nuovo presente troglodita quanto più o meno accademicamente socializzato, di una forma di mobbizzazione al di là dell’immagine – Se non c’è niente di più realistico tra l’immagine e la parola di un sillabario, abbecedario, alfabetiere, per intenderci quel libro formato da segni scritti in forma di parole e figure magari con lettere in caratteri diversi, un libro contemporaneo su quel che può essere il simbolo in rapporto alla parola scritta o letta, e allora dopo questa per certi versi sensata evoluzione semiologia della lettura dell’abbecedario, immaginarsi un modo culturale del tutto al di fuori del consenso, che solo per opposizione del consenso in fondo può apparire mobbizzante in una cultura del darsi importanza al di là della realtà. Immaginate di essere fuori da tutti i costrutti consociativi associativi stimolatori e percettivi di una coltura dal pensiero debole organizzata per far costruire un modo di pensare. Immaginate che sarebbe un luogo in cui nessuno sappia niente di voi, che non cerca di farvi stare in qualche classifica, che non siate in nessun sondaggio di mercato, che non ci sia niente fatto apposta per voi, o meglio che quel che si trova è fatto non per voi ma per la liberta personale dell’autore o degli autori fuori da tutto il consociativismo. È un po’ come immaginare una edicola di qualche tempo, anni fa che in sostanza esprimeva la multimedialita nella molteplicità dei concetti informativi e espressivi in parte in ragione della possibilità di esprimere liberamente i contenuti e altrettanto liberamente letti, una assoluta libertà in ciò forse non c’è mai stata, ma diciamo che la “rete” o i reticolati in questa condizione possono o potevano non essere associativi e condizionanti, in ultima analisi (sui limiti di quel passato e i limiti del presente) se ciò si verificava era per il fatto che per mezzi economici non tutti potevano usufruire delle stesse possibilità di diffusione (non pensando al paradosso contemporaneo della libertà di diffusione, da molti usato più che per l’espressione libera delle relazioni dei contenuti, in associazioni appariscenti come degli evidenziatori al di là dei contenuti di relazione e qualità di essi per mezzo della libertà). Ora immaginate voi come possibile lettore d’informazioni fuori dai clisce dei gruppi di discussioni e propaganda come dalle classificazioni e allora cosa impediva magari ad un ragazzino di leggere le riviste che parlavano di cose e cultura avanzata per così dire per la sua età e nella più assoluta non curanza dei produttori che neanche immaginavano un lettore fuori targhet, non c’era argomento che non potesse essere indagato conosciuto e capito e come con i libri approfondito e nel momento in cui lo si voleva fare, nei tempi e nelle indagini più libere, in compagnia della propria genialità e critica e confrontandosi con la conoscenza più critica, fare esperienza per poi fare esperienza. E con le etichette che stavano almeno indietro di cinquanta anni, a dir poco e continuavano ad atteggiarsi per dare importanza al proprio io, per il potere dell’immagini e la perpetuazione dell’ignoranza. Mobbizzatevi così se ne siete capaci invece di continuare con l’atteggiamento menzognero dell’essere autori dell’importanza. Continuando a comprare libri che fate finta di scegliere, non è importante leggere a tutti i costi e leggere non è soltanto un’abitudine.                 

 


Il Gargarismo? N 12

 

Carl Gustav Jung - Die Beziehungen zwishen dem ich und dem Unbewussten - 1928

 

Gentile Signor Jung, nel suo libro si parla appropriatamente delle svariate situazione della psiche umana e, in base alla mia conoscenza so di essere partecipe con ciò che lei esprime. Ma il Suo libro pone anche un interrogativo sull’onesta della conoscenza, sul principio stesso della sua realtà. In analisi con le sue conclusione il motivo che fa dell’esperienza la possibilità di partecipare alla realtà come indagine stessa che può appropriarsi al vero, pone di fatti un quesito sul piano del pensiero h-a chi dall’esperienza e dalla conoscenza da essa esperita non è obbligato a trarne profitto o primato economico, e per analisi di realtà non ha bisogno di un piano di competizione. In fondo il succo stesso di principio di conoscenza della realtà non può che nutrirsi della libertà dal dominio e dal controllo che da forza alla volontà della tecnica sul paino della competizione. Di fatti come lei ben dice nel libro, se il rapporto con l’ombra è opera d’apprendista, il rapporto con l’Anima è opera da maestro – la cito a memoria – E da ciò nasce il primo motivo di fibrillazione del conoscente, perché in rapporto alla peculiarità dell’esperienza del conoscente, il manifestarsi dell’ombra tende ad evidenziarsi sul piano della competizione come fattore stesso di controllo della tecnica e analisi definitiva dell’interpretazione. Di fatti il fatto del conoscere al di là della prescindevolezza economica viene ostacolato come possibile esperire della realtà che toglie all’ombra il possesso della tecnica non solo interpretativa ma di volontà del vero come fattore dominante. Dando ai processi dell’Anima una valenza al di là dei processi individuali – di un individuo – ma energia competitiva alla volontà della tecnica per il dominio dell’ombra sull’energia dell’anima collettivizzata. Il sistema di un ordine sociale siffatto tende alla manifestazione di una psicologia tutt’altro che profonda, ma peculiarmente nell’individuo e riprodotta diffusamente negli individui di una psicologia del superficiale che behavoristicamente dà Facile controllo della tecnica come fattore di affermazione della volontà e appagamento degli istinti primari quanto primordiali, una regressione della persona così collettivizzata che trova piena realizzazione nel suo dominio siffatto come contemporaneo del presente che domina un presente senza tempo e percepito eterno per mezzo della tecnica. Questa tecnica della superficialità ha dato alla spiritualità un volere immediato e una spiegazione ultima negli effetti stessi della tecnica come causa di se stessi e arbitri ultimo del volere della realtà. È evidente che ho portato il principio dell’inconscio collettivo su spiegazioni collettive e che possono apparire sociologiche e proprio questo apparire è qualcosa che non va fatto. Ma di fatto questo avviene ed è l’ombra più appariscente della competizione tra il profitto economico della tecnica e la verità dell’esperire senza l’obbligo del profitto economico. Parafrasando il suo linguaggio è come se l’individuazione di una persona dovesse confrontarsi non con l’energia della propria anima, ma con l’energia collettivizzata di un anima collettiva e ovviamente profondamente inconscia che deve sottostare alle volontà della tecnica di dominio e controllo dell’ombra collettiva. E riformulando questo ultimo concetto in modo più compiuto è come se l’individuazione che non è più soggetta all’energia dell’anima, debba costringersi ad interrogarsi con la psicologia del superficiale che con le tecniche di dominio per mezzo dell’ombra si è scissa o non ha consapevolezza dell’energia dell’anima collettiva a cui cerca di opporsi come al proprio inconscio. In questo stato il semplice pronunciamento di come essere ed espressione esperita della libertà della persona consapevole trova il non linguaggio della psicologia del superficiale come espressione delle persone che istintivamente entrano in competizione per il dominio del fattore di appagamento per mezzo delle volontà, nei confronti della responsabilità della persona consapevole che a prescindere dalla sensatezza o indipendenza della loro posizione vengono fatte soggette dell’omologazione tecnica del profitto e degli pseudo valori interpretativi della psicologia del superficiale, per istintivamente entrare anch’esso/e nella competizione e così accettare i parametri della volontà della tecnica e i nuovi valori dell’eternità che da essi derivano. Ciò nella pratica è come affermare se io ho potere sul consenso dell’interpretazione e posseggo una tecnica della volontà che determina tale volontà, se per tale mezzo esteriore posso affermare nella competitività la superiorità del mio profitto economico e di volontà, la mia conoscenza è superiore in quanto la mia volontà è superiore; un po’ per parafrasi è come dire se tutti mentono basta non far dire la verità a chi ha esperito la conoscenza, che l’omologazione della mia tecnica agisce sulla realtà e per mezzo della volontà l’afferma. Sul piano della psicologia del superficiale, associare le situazioni per mezzo dei campi associativi e le interpretazioni sull’ego della propria immagine dominare l’immagine dei campi associativi impedendo (e) all’espressione dell’altro di determinare un campo associativo che distolga dall’immagine interpretativa che con tale tecnica si vuole dominare e associare. Questi comportamenti della psicologia del superficiale dei movimenti di coscienza del comportamentismo, danno alla consociatività associativa la percezione di verità che domina la tecnica per mezzo della collettivizzazione della percezione che sta come un emotività dell’ombra sulla persona, dando alla cultura i valori che più gli fanno comodo per mezzo delle modalità della percezione che così assolutizza il tempo e la spiegazione, a discapito della condivisione dell’essere individuo e conoscente al di là dell’esteriorità della volontà della tecnica. E dell’egoismo ed egocentrismo dominante. Con tutti questi discorsi sulla volontà resta sempre misterioso quell’atto di volontà intimo che fa affermare per esempio di non volere odiare che per una strano paradosso della coscienza sembra essere percepito dalla volontà dell’ombra della tecnica al di là del suo bisogno di affermarsi, e a cui si contrappone proprio come un istinto primordiale che vuole negarlo prevaricare economicamente affermare la sua superiorità sulla realtà, e se l’amore è fonte di coscienza e non di sopruso, non di tecnica ma di espressione, di valore e contenuto incondizionato. Che cosa è quella banalizzazione che ne ha fatto la psicologia del superficiale se non una tecnica associativa, uno stimolo associativo quasi come impedire di parlare e di essere di qualcuno verso qualcun altro. In definitiva lo stato di fatto pone una visione della speranza disperante, se pur la consapevolezza da adito all’analisi e all’apertura e all’armonia, essa cerca di autodeterminarsi coma assoluto sentire pur nel paradosso di non percepire sentire quasi più nulla, né i valori della libertà, dell’intelligenza, della coscienza della conoscenza e dell’esperienza – tanto basta interrompere la persona che sta parlando – una politica dell’ignoranza e del consenso credo non porti niente di buono, tanto meno quando essa appare così colta di tecnica superficiale quanto in apparenza complessa. E allora mi permetta una considerazione un po’ superficiale, ma credo pertinente se la fede che dà a Dio la realtà al di là del limite dell’irrealtà stessa come concetto e dà una rappresentazione dell’Anima spirituale profondamente al di là del conscio e dell’inconscio, quanto in fondo già presente, come si rappresenta l’intimità di conoscenza, per esempio del tutto arbitrariamente, dando alla percezione dei campi associativi la spiegazione e l’interpretazione, quasi che il significato dell’eucaristia cristiana sia lo stesso di una pizza surgelata e i suoi effetti fisiologici e biologici la spiegazione ultima. Non le pongo questo quesito e non attendo la Sua risposta.

C’è una modalità nel mondo che cerca la molestia dei campi associativi e l’inganno della volontà, una sorta di persecuzione psicologica ma in effetti essa per quanto assurda e regredita appare e per quanto sofisticatamente possa venire espletata non ha ne un origine né una fine è pura idiozia o delirio d’onnipotenza, sia che si chiami psicologia del superficiale o mobbing o maleducazione, una pazzia del sentirsi ovunque e in ogni momento. È l’unica spiegazione che riescono a non dare.

Gentile Signor Jung, la ringrazio per l’attenzione e la saluto cordialmente.

Patrizio Marozzi  

 

 

                       

 

 

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