Patrizio Marozzi - Lettere dalla frontiera, pag. 33

 

 

Lettere dalla Frontiera


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se la risposta agli immensi interrogativi, non fosse già in quel che ha scritto, se in effetti la soluzione al senso stesso dello scrivere, è gia essa affermata ed esistente, nel motivo stesso che la induce a scrivere. Di fatto il tempo e il luogo sono già al di là di un’ideale di maturazione della scrittura, nel superamento stesso dell’obbligo del contingente, come contingente scritto alla realtà. Non saprei trovare altezza migliore di quella di uno scrittore che libera se stesso dai vincoli della coscienza che si arrabatta in una consolazione tragica nella immediatezza di un appagamento. La grandezza spirituale dell’arte è nella sua indispensabile necessità di essere al di là dei limiti dell’essere, che dà alla spiritualità la verità più vera della tragedia in cui la morte prende il sopravvento sulla vita. Se un apologo intellettuale potesse essere la massima espressione di un segno esplicativo dell’anima come artificio della storia, il superamento della tragedia umana non troverebbe nessuna spiegazione, nessuna necessità se non quella della morte della spiritualità che ci rende liberi, e la caducità che ci annienta sarebbe un indagare senza senso della scrittura. Se appare strano questo strano epilogo sempre presente e costante nel presente come nel passato e nel futuro, la radice stessa del volere essere creatori, sta nella più pura essenza che si dà della propria immagine quale espressione dell’aspetto cosciente della coscienza. Se in questo labile luogo può apparire un motivo che dà la sensazione che tra il se stessi e il mondo che si necessità ci sia quello che spiega il contingente dello scrivere, ciò lei sa che non è propriamente vero. Se un’ombra che ci guarda può apparire a molti il discorso che dà alla maturazione dell’essere artisti la conseguenza, il motivo per un percorso, in realtà lei sa ch’è l’essenza stessa dell’anima che si affronta, che si lascia che si evolve verso una spiritualità che non può necessariamente essere illusione per le illusioni del contingente sociale che non perseguirà niente altro che la sua perenne e stantia morte della sua possibilità di rappresentazione. Se in una visione oltre ciò vi sia la speranza di un mondo che ha dato al suo termine l’assoluzione dell’abisso della disperazione, non può in questo non esserci che quella ricerca che dà alla scrittura l’essenza stessa della ricerca del suo processo creativo, il motivo reale dell’essere scrittori, così, la grandezza della rappresentazione perde la visione dell’illusione e acquista quella della visione della coscienza che matura il significato stesso del modo che sceglie per esprimersi. L’affrontare la realtà del mondo come pensiero della propria persona che comprende, dà all’incomprensibilità del mondo, la comprensione della propria coscienza e rende lo scrivere arte stessa dello scrittore. L’incommensurabile che lei spiritualmente ha scelto di comprendere dà al significato il senso stesso della coscienza che matura attraverso la personalità dell’autore, dello scrittore. Perché lei abbia dovuto attendere più di quarant’anni perché un sistema ne riconoscesse la possibilità ad altri di leggere quel che lei ha scritto nella sua alta esperienza umana spirituale fa parte, credo di quel significato per cui lei ha lottato al di là dei limiti di un ombra della coscienza che si rappresenta, e che fa quasi sempre dell’aggettivizzazione del senso soggettivo il consenso su cui costruire dei sostantivi rappresentabili. Lei sa meglio che sapere che l’esperienza dello scrivere le ha gia dimostrato, e con lei ha dimostrato che lo scrivere, può essere un’aggettivizzazione che lascia l’oggetto per un valore alto, autentico della spiritualità, lei che ha avuto così ben presente la drammaticità di che cosa sia la rappresentazione che fa della morte della coscienza una volontà dell’oggetto che annienta ogni forma di soggetto, ogni autenticità dell’anima. Se potessi stringerla fra le braccia credo che forse l’amerei, non in un’ombra della coscienza che cerca la sua consolazione, ma nelle parole stesse che ho letto, che non stanno in nessun luogo, forse della storia di una sola anima. Se l’universalità le appartiene come scrittore è la sua coscienza che può essere nella coscienza, capita e condivisa nell’autenticità illimitata  della possibilità di amare, come si è stati amati. Se la sua conquistata e naturale possibilità di capire la trovata così autentica da essere così vera e libera da stare ovunque le possibilità di Dio, la facciano espressione del suo aiuto, come sua protagonista del tuo aiuto. Seppur già da tutto libera. Concludo questa lettera che le ho scritto raccontando alcune sue semplici parole, così semplici da sembrarmi così grande il suo riuscirle a scrivere, quando lei lo ha fatto:

 

Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamanti, e da tanto tempo.

Finisco sempre per tornare a Rilke. È così strano, Rilke era un uomo fragile e ha scritto gran parte della sua opera fra le mura di castelli ospitali, e magari sarebbe stato distrutto dalle circostanze in cui ci troviamo a vivere noi. Ma non è proprio questo un segno di buona economia – il fatto che, in circostanze tranquille e favorevoli, artisti sensibili possano cercare indisturbati la forma più giusta e più bella per le loro intuizioni più profonde; e che poi, in tempi più agitati e debilitanti, queste stesse forme possano offrire appoggio e protezione agli uomini smarriti? Ai turbamenti e ai problemi che non trovano forma e soluzione, perché ogni energia è consumata dalle necessità quotidiane? In tempi difficili si tende a disprezzare le acquisizioni spirituali di artisti vissuti in epoche cosiddette più facili (ma essere artista non è di per sé abbastanza difficile?), e si dice: tanto cosa ce ne facciamo?

È un atteggiamento comprensibile, ma miope. E rende infinitamente poveri.

 

Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite.  

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho letto il suo diario, e come da lei detto, non l’ho fatto prima di nessun altro. Non credo che questa sua dichiarazione potesse solo determinarsi, nella genericità di una pubblicazione formale editoriale, ma per l’appunto in tutto quello che lei esprime in quello che ha scritto sui quaderni. Credo che lei abbia evidenziato lo stato in cui sia indispensabile capire per mezzo di un sentire che ci renda universalmente consapevoli di noi stessi, qualcosa che non può chiudersi in qualcosa che fa delle parole l’unico atto del pensiero, quasi che l’immagine stessa ne sia prigioniera. Il suo richiamo all’eccesso del pensiero come impossibilità a dimostrare l’umanità che non riesce a guardasi chiude le possibilità stesse di vivere mostrando realmente i sentimenti come un dialogo universale che non ha bisogno di parole. Questa immensa rottura dell’immagine di cui lei parla toglie e Dio stesso il significato con cui l’uomo è in grado di rappresentarne l’esistenza al di là di ogni immagine, in quanto immagine stessa in ognuno di noi, se il troppo pensare della tecnica che le imperversa intorno distrugge l’autenticità dello stesso danzare come possibilità della coscienza dell’anima più che dei progetti economici in cui il mondo distrugge se stesso per mezzo dell’uomo in una sorta di anticristo di cui lei stesso trova impossibile con le parole dimostrare la sua impossibilità ad esistere nella vita come massima espressione di un sentire che trova un’immagine nella più libera e reale coscienza dell’esprimere l’autenticità e uniformità della coscienza che si rappresenta per mezzo dell’immagine umana. È appunto questo essere reali al di là di ciò che non le permette di esprimere che dà, in cui lei mostra una spiegazione della sua condizione di immagine esistente che fa dei suoi gesti che la rappresentano il significato, più che nelle sole intenzioni dell’immagine pensata. La ricerca di Dio di cui lei spesso mostra per mezzo di una spiegazione che la libera dall’immagine dell’interpretazione attraverso questo suo incedere nella scrittura, che io penso trovi significativa proprio di questo suo sentire che si costruisce senza sovrapporsi nello stesso suo sentire di scriverla, al di là delle possibilità dell’immagine che il mondo le sta rappresentando, in cui si sta rappresentando. La sua coscienza si esprime si muove si cerca essendoci, come il naturale sentire del suo mostrarsi. Eppure la crisi di un mondo che sta abbandonando se stesso è più reale che mai, l’immagine che lei non vede più è forse sparita dalla coscienza umana che la priva per ciò della realtà più vera del sentire al di là dell’impossibilità della spiegazione storica della morte, la rappresentazione come conseguenza, di un fallimento della coscienza che ha perso la semplicità del sentire come lo spegnimento delle possibilità di pensare, forse è vero quando dice che Nietzsche è impazzito perché pensava troppo, ma dice anche che era solo un pensatore, e che lei sta cercando di evitare ciò, appunto perché lei non pensa sente. Sembra la cosa più ovvia di questo mondo questo che lei dice, ma c’è nell’inspiegabilità delle parole un mondo che ha scelto l’egotismo come forma di assoluzione della morte della coscienza, la morte reale di cui dice non spaventarla, perché appunto è la morte della coscienza del sentire stesso la vera morte. Comprendo che queste mie ultime frasi sono forse troppo esplicative dell’espressività stessa che lei ha scelto, nel voler sentire quello che lei scriveva, non vi è modo più autentico di dire quel che lei ha detto, e rappresentazione così rappresentativa del mondo che sta togliendo a se stesso il sentire stesso della sua immagine più vera e profonda, ma questa immagine è così immensa e il suo sentire così puro, e il superamento di ciò così grande in un amore che non si frapponga a nulla che il discorso del mondo, sfugge alle possibilità del mondo, che non riesce a sentire in modo così totale, come lei stesso scrive e lo rappresenta, che l’immensità di se stesso e dell’immagine stessa della coscienza umana, trovano la realtà nelle sue possibilità, questa immensa impossibilità che l’essere umano ha con se stesso, di sentirsi e capirsi, deve dare a lei la possibilità di sentire come lei sente, e di capire che il corpo non ha più possibilità di sentire di quelle che il pensiero non ha. Lei nel suo sentire sta rappresentando una crisi dell’essere umano dalla profondità incommensurabile e sente su di lei l’unica soluzione che in un momento così buio della coscienza ha per capire, per sentirsi libero da tutta l’angoscia di cui il mondo si è riempito. Ciò è così lampante e semplice che giustamente le appare mostruoso e oltre le possibilità dell’immaginazione anche il più piccolo momento della morte della coscienza in cui anche il più semplice gesto umano si riveste. E il dramma che ciò rappresenta incommensurabile e giustamente ultimo. Credo che lei nei suoi quaderni interpreti il presente nell’unico modo in cui esso può essere rappresentato, e prefigura un dramma che investe l’intera umanità, proprio attraverso le Sue possibilità di sentire. È bene che lei non perda il senso delle cose banali, che incombono nei giudizi, è giusto quanto afferma: “Lombroso diceva che si possono indovinare i sentimenti della sagoma della testa. Io dico che il sentimento lo si può indovinare dalle azioni degli uomini. Io non sono uno scienziato perché capisco bene gli uomini.”

Il mondo suo personale di cui parla, che ritrovi emozionalmente suo, è soggetto a tutto il senso di questa epoca, un mondo che vive di situazioni per dimostrare che chi dice la verità, è invidioso di chi mente. La verità ch’è una funzione dell’utilizzo della coscienza per mezzo degli oggetti.

Se non vi è Dio, la “coscienza con che si “guarda” l’essere umano. E allor pensare – o non perché – che la natura invidia l’uomo, (prima che Abele Caino) e perché non dimostrare che il bene invidia il male. E perché non che Dio invidia il “Demonio”, “Basta questo per apparire veri e intelligenti.” 

Signor Nijinsky, la saluto cordialmente e le invio i miei più sinceri auguri, per la vita.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gentile dottor Jung, forse ho atteso più del dovuto prima di scriverle, ma in effetti il piacere di capire compiutamente le cose espresse da lei e da lei dette nel suo modo, è stato qualcosa che ha rappresentato lo sviluppo stesso del mio percorso individuale. La mia storia ovviamente è peculiare quanto la sua ma essa come è ovvio vi si coniuga per il percepire stesso che le accomuna. Non mi sfugge nulla di quale sia il significato profondo, e le modalità con cui esso è percepito da lei, ma gioco forza il mondo è precipitato nei meandri più ignoti e profondi degli archetipi collettivi dell’anima qualora essi potessero essere ben delineati, al di là di un vissuto personale che li affrontasse. In effetti se per una morte della spiritualità, c’è una morte di Dio, il mondo ha imboccato sempre più il culto della morte, come conseguenza stessa del termine di ogni associazione. Difatti se dovessi citarla gli individui sono per lo più popolati da costruzioni personali che lei ha definito “nevrotici condizionati”, per sincerità vorrei dire che la qual cosa è molto più determinata di come le appare, in questo suo riferimento, appunto per il sempre più svilupparsi del decadimento spirituale dell’uomo, che lo pone nello stato di un condizionamento di un livello di coscienza possibile quale da lei appunto nella questione ipotizza. In sostanza la consapevolezza o meglio la sua costituzione ha imboccato, quel momento di determinazione associativa che lei rivelo in un incontro con Freud, e che effettivamente da esso e da tutte le tecniche che si sono sviluppate nell’ambito della psicologia del comportamento e della manipolazione della percezione umana, in definitiva per citare la filosofia anch’essa oramai relega il ragionare in un ambito concettuale tutto improntato sul piano della percezione. E in effetti dato il ruolo estremamente funzionalizzato del concetto stesso di sapere, ogni possibilità di realtà, in principio di coscienza è soggetto alle regole più estreme dell’atto di forza per determinarla in ragione o di una emulazione associativa verso il basso o in una soppressione dell’evolversi verso l’alto in ragione di una relazione verso “il tutto”. Difatti anche il suo sapere ha subito non solo un decadimento mistificatorio e falsificante, ma è stato legittimato ciò dal fatto che tale processo rientrasse meglio in quella sfera della convenienza della realtà percepita in quanto falsificata quanto affermata dal costrutto di tale sistema, sia per logiche economiche o per una compensazione dello stato “del nevrotico condizionato” e annullamento apparente del suo stato dicotomico. In sostanza mi scuserà le citerò il brano da lei scritto per chiarire meglio il punto: “Dopo quella seconda conversazione a Vienna capii anche l'ipotesi di potenza di Alfred Adler, alla quale finora ave-vo prestato poca attenzione. Come molti figli, Adler aveva imparato da suo "padre" non quello che il padre "diceva", ma quello che "faceva". Sul momento il problema dell'amore - o Eros - e della potenza mi piombò addosso come un masso. Freud in persona mi aveva detto di non aver mai letto Nietzsche; ora vedevo la psicologia di Freud come, per così dire, un'abile mossa della storia spirituale, che compensava l'apoteosi del principio di potenza fatta da Nietzsche. Il problema evidentemente non era "Freud contro Adler", ma "Freud contro Nietzsche". Mi pareva più significativo considerarlo così che come una lite in famiglia nel campo della psicopatologia.  Mi balenò l'idea che Eros e l'impulso di potenza fossero,  come due fratelli discordi di un solo padre, di un solo  impulso psichico, che - come la corrente elettrica positiva e negativa - si manifesta empiricamente in due forme opposte: l'una come patiens, l'Eros, e l'altra come agens, l'istinto di potenza, e viceversa.

   L'Eros pretende alla potenza, così come l'istinto di potenza pretende all'amore. Dov'è uno dei due istinti sen-za l'altro? Se da una parte l'uomo soggiace all'istinto, cerca di dominarlo dall'altra. Freud mostra come l'oggetto soggiaccia all'istinto, Adler come l'uomo se ne serva allo scopo di padroneggiare l'oggetto. Nietzsche, abbandonato senza speranza al suo destino, dovette crearsi un "superuomo". Freud, concludevo, doveva sentire tanto profondamente la potenza di Eros, da volerlo elevare, come un "numen" religioso, al rango di un dogma - aere perennius. Non è un segreto che Zarathustra è l'an-nunciatore di un vangelo; e anche Freud cercava di far concorrenza alla Chiesa con l'intento di canonizzare una dottrina. È vero che non l'ha fatto troppo apertamente, ma in compenso ha accusato me di voler passare per profeta. Egli solleva la tragica pretesa e allo stesso tempo la cancella. Questo è il modo in cui per lo più ci si comporta con le numinosità, ed è giusto che sia così, perché sono vere in un senso, e non vere in un altro. L'esperienza numinosa innalza e umilia insieme. Se Freud avesse meglio considerato la verità psicologica che la sessualità è di natura numinosa - essa è un dio e un demonio - non sarebbe rimasto chiuso nei limiti di un concetto biologico. E anche Nietzsche forse non sarebbe stato trascinato ai margini del mondo dalla sua esaltazione, se si fosse tenuto più saldo ai fondamenti dell'esistenza umana.

   [Ogni volta che la psiche è scossa violentemente da un'esperienza numinosa, v'è il pericolo che il filo, al quale si è sospesi, possa spezzarsi. Se questo accade c'è chi cade in una affermazione assoluta, chi in una negazione parimenti assoluta. Nirdvandva (libertà dagli opposti) dice l'Oriente. L'ho ben impresso nella memoria. Il pendolo spirituale oscilla tra ciò che ha senso e ciò che non    ne ha, non tra giusto ed errato. Il numinosum è pericoloso perché attira gli uomini agli estremi, così che una modesta verità è considerata la verità, e un errore secondario è eguagliato all'errore fatale. Tout passe: la verità di ieri è l'inganno di oggi, e quella che ieri era una deduzione errata, può essere la rivelazione di domani: ciò specialmente per le questioni psicologiche, delle quali, in verità, conosciamo ancora assai poco. Siamo ancora lontani dal capire che cosa vuol dire che nulla esiste se non diventa consapevole una piccola - e quanto peritura! - coscienza.]

 

in definitiva è da tener conto anche il fatto, che se lei ha intrapreso un processo di liberazione dal costrutto di conoscenza, per così dire accademico convenzionale, che la portata verso una stato d’individuazione, “il suolo” contemporaneo per così dire fa leva su una ipotesi d’individualismo, che si determina in una competizione per i processi vitali dell’esistenza che si assolvono per una sorta di compartecipazione in uno stato di assoggettamento, associativo per la soluzione della coscienza, al di là di un realtà di coscienza quanto di conoscenza, di fatti è un perenne stato di cortocircuito con l’ombra stessa, che assolve e determina a secondo dei casi di convenienza funzionale a cui l’ombra collettiva sposta sia il senso individuale quanto collettivo, evolvendo il tutto in una sorta di cammino, implosivo o di collasso, quando appunto all’ipotesi del superamento dell’ombra si attiva un cortocircuito per mezzo dell’associazionismo, in sostanza per la rimozione del suo senso stesso di archetipo in un adattamento biologico della coscienza umana in funzione di un controllo dogmatico quanto folle del significato stesso di individuazione, in sostanza al senso del suo rapporto con l’anima un fruoidesimo comportamentistico, in una sorta appunto di convenienza della falsificazione e funzione di un atto di forza della coscienza, rapidamente stimolata dalle tecniche della psicologia quanto assoggettata all’incoscienza degli stimoli sensoriali quanto di coscienza dall’immagine dell’anima, che il cortocircuito dell’ombra stimola collettivamente, credo ben al di là di qualsiasi ipotesi di “inflazione individuale”, è un’anima che supera qualsiasi sua immagine possibile, sembra una antitesi stessa della “grazia”. Ora è certo che se bastasse il pensiero di un uomo a scatenare tutto ciò, saremmo in un’altra ipotesi apologica di onnipotenza umana, ma di fatto i collettivi ne danno sempre l’impressione, in maggior ragione quando la qualità umana sia spirituale che intellettuale è soggetta alle proiezioni dell’ombra individuale collettivizzata.

E allora dottor Jung le scrivo il vero motivo per cui le scrivo, le comunico il vivo desiderio di venirla a incontrare a Bollingen, ho una curiosità in proposito alla sua permanenza lì: vi vedo il modo concreto, non solo apertamente manifesto della consapevolezza in cui è lo stato del mondo contemporaneo, ma mi rimane indosso nel pensarla lì la sensazione che nel suo stabilire un presente sentire con il mondo del tutto, proprio per tenere vivo il tutto ch’è in lei, e che lei percepisce, e appunto vorrei capire meglio per così dire quale sia il punto del suo sentire, di questo percepire, ho la labile sensazione - come se la sua individuazione è a compimento ma ancora trovi un punto di libertà da perseguire, (come anche da lei spiegato), mi spiegherò meglio è come se la mia conoscenza che ho di lei avesse il desiderio del tutto spontaneo, di capire se si è spinta un briciolo oltre nella mia individuazione, ma è un sentire del tutto su un senso di affetto e riconoscenza per quanto possibile, che ho per lei. e molto probabilmente, credo che la troverei sereno e tranquillo a godersi le giornate e il tempo che trascorre, malgrado tutto. 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Egregio e cortese signor Erich From, credo che il suo tentativo di affrontare tematiche nell’ottica della verità più profonda, sia più che sensato, e in particolare in senso stesso di un contenuto che si apra alla conoscenza, come possibilità di riferirsi al significato come al significante, senza che ciò sia espressione di un limite associativo e riduttivo del valore più vasto dell’esperienza, che fa del nostro essere la nostra partecipazione libera e critica, indipendente per quel che concerne le possibilità di spiegazione del gesto e della sua rappresentazione simbolica. È chiaro da quel che lei dice che non si possono invertire i fattori, perché il risultato sarebbe il contrario dell’autenticità stessa del nostro partecipare alla vita, e del resto se l’arte è un arte in sé, l’impegno è una possibilità di conoscenza che va verso il tutto senza che questo sia una frammentazione che si contrappone a una parte di esso, e allora il senso stesso dell’arte è una autentica possibilità dell’arte d’amare, anche al di là della bella definizione che ne dà nel suo libro, e di fatti nello specifico di esso, lei dice in proposito alla capacità di amare nella relazione di coppia: “L’amore è possibile solo se due persone comunicano tra loro dal profondo del loro essere, vale a dire se ognuna delle due sente se stessa dal centro del proprio essere.” E aggiungo da lei e spiega questa la sua constatazione: “Così come gli automi non possono amarsi tra loro, essi non possono amare Dio. La disintegrazione dell’amore per Dio ha raggiunto le stesse proporzioni della disintegrazioni dell’amore per l’uomo.”

Ora io voglio dirle che se pur trovando corrispondenza sin dalla mia giovane età, non solo con il suo intendo, ma anche nel modo di rappresentarlo, gioco forza l’approfondimento pratico del fare per un modo di essere e rappresentarsi o non rappresentarsi nel contenuto dell’essere, mi ha spesso fatto osservare come la possibilità ineludibile del vivere praticamente la realtà della verità, fosse di pari passo l’esser cosciente quanto il suo obnubilare nella rappresentazione e coscienza del sapere, in una sorta di invereconda, tracotanza dell’ignoranza come affermazione del rappresentarsi e del volere per mezzo del rappresentarsi. ora questo che da lei è capito e espresso nelle modalità dell’avere, porta il segno stesso in un luogo non simbolico per quanto apparente come invisibile, nella pratica della rappresentazione non solo del non sapere, ma dell’espressione della menzogna come verità del sapere, a cui il sapere deve dimostrare di esistere in rappresentanza di se stesso, per spiegare ciò che è ineludibile nella verità dell’esistere come manifestarsi stesso della menzogna o ignoranza che così esiste. Questa associazione di determinazione viepiù sprofonda la coscienza in una atto emulativo che fa dell’esperienza un volere consociativo della coscienza, attraverso una sorta di rappresentazione che dà all’istante dell’attualità la ridefinizione di ciò ch’è contemporaneo come emotivamente storico contemporaneo, in riferimento al segno, che di per se diventa associato all’eternità in quanto estremamente rappresentativo dell’immediata convenienza dell’avere come estemporaneo che annulla l’essere, quanto il concetto stesso di attualità, in rapporto all’essere. Le dico questo non perché ciò non sia chiaro dall’esposizione del suo pensiero, ma per dirle che c’è un momento, o meglio vari momenti in cui lo stato di partecipazione cosciente del proprio essere riferito al tutto trova vari gradi di deterioramento in cui il segno perde la sua prospettiva in un fine che non dà adito alla spiegazione, ma all’affermazione del non sapere come espressione pratica gesto dell’affermazione dell’avere per mezzo del percepire che nega all’essere la sua relazione individuale con il tutto, ed anche questo ovviamente è ovvio da quanto lei dice, ma è appunto il fatto dell’esperienza che io le voglio comunicare, perché la relazione con il tutto dell’individuo, lo pone e mi ha posto nella condizione che la parola è di per se stessa atto del toccare qualora la relazione per mezzo di essa non fa che evidenziare il non gesto della mente, in rapporto alle possibilità di amore anche per mezzo del silenzio. E allora i gradi di degrado in cui il gesto, il segno esprimono la loro incontrastata affermazione di un sentire, segna un significato cosciente al di là del degrado di incoscienza. Ora questo costrutto anche per dirle che di fatto il segno che annulla se stesso in conformità di un nuovo significato, non dà all’individuo la libertà critica indipendente in riferimento al tutto infinito, ma sedimenta l’atto nella coscienza come riferimento che annulla l’esperienza individuale, come in conseguenza l’interpretazione collettiva dell’individuo maturo che sa di se stesso. E allora per esempio un atto del pensiero come quello di Husserl nei suoi rimandi trova realtà contemporanea, nella sua visione verso il tutto come non solo contemporaneo, ma appunto per questo nel degrado attuale, nel termine reale di attuale trova una negazione nel sostanziarsi della coscienza contemporanea che lo percepisce, come per estendere l’esempio con la falsificabilità della scienza di Popper, viene “superato” dalla menzogna e dall’imposizione del non conoscere, ed è appunto in questo contesto che il termine superato, si coniuga con contemporaneo, acquisendo un effetto, un segno, che dicono ciò ch’è conveniente e per questo vero. E difatti quando parlo di degrado, mi riferisco anche alle sue opere, che di fatto se si è passati da un momento, in cui il degrado era manifestazione del non impegno, come sviluppo cosciente ma non troppo, con l’enfatizzarsi di questo degrado di coscienza si è rapidamente giunti per mezzo dell’interpretazione contemporanea al fatto stesso che per l’inattuabilità del suo pensiero esso è superato, come può esserlo la verità stessa che esso contiene, e il fattore di esperienza dell’individuo, in sostanza il tutto e le sue prospettive per una acquisizione più rapida nell’introiezione dell’avere. Qui subentra un altro problema da lei accennato, il fatto che seppur in riferimento ad una possibilità dell’uomo di risolvere i propri problemi materiali, in mancanza della coscienza stessa dell’essere umano tali possibilità non possono essere, o meglio non si attuano, perché il senso stesso di esistere non può prescindere il significato più autentico del perché si esiste, del proprio voler essere.

Ora a me non sfugge il fatto che il suo tentativo di riflessione sulla pratica dell’essere, fosse dato in prospettiva di un voler essere che desse a l’uomo un modo per cercare un significato, che trasformasse tutta la semiologia della catastrofe espressa nella guerra, in una ricerca verso la vita, in particolare dall’esperienza dell’ultima guerra mondiale dove le tecniche della percezione per mezzo del segno, e l’atto, avevano espresso nella coscienza dell’uomo un dato imprescindibile di culto della morte, dell’essere e materiale. E se nei tragitti storici dell’avere che ha distorto profondamente i motivi dell’essere per mezzo di una rapporto tra il segno e il suo significato, che si sono espressi in varie forme nel diciannovesimo secolo, e che di fatti hanno lasciato un istinto emotivo della sensazione di volontà che vince la coscienza dove la vita nella sua forma più autentica trova difficoltà ad esprimersi, in questi i processi dell’avere da lei espressi si stanno collocando nelle percezioni dell’essere umano nelle sue estreme conseguenze, e se sul piano della coscienza individuale si assiste ad un degrado appunto del significato dell’essere, sul piano del potere collettivo si assiste ad una strutturazione economica che fa dell’acquisizione dell’esistere per mezzo dell’avere, la giustificazione morale per tale appagamento”. In tale costrutto si sono formati atti trasversali sulla coscienza umana in termini individuali collettivi, ora denominati, mobbing e liberismo, fattori dell’avere che estremizzano il caos della libertà senza essere, ché in definitiva fanno parte dello stato dell’essere umano ogni volta che l’invisibilità dell’avere cerca l’eternità sulla visibilità dell’essere. Vorrei citare in fondo a questa lettera due brani dal suo libro Avere o Essere, due momenti interpretativi della rappresentazione empirica del modo di essere o avere. Ovviamente ringraziandola per avere avuto io la possibilità di confrontarmi con lei, riscontrando in quel che lei ha scritto qualcosa che era nel mio essere, dell’essere pratico, anche in un mio periodo giovanile dove in fondo la vita sociale scorreva con gli interrogativi del pensiero che agiva e si conosceva e certe cose che si pensavano non sempre si rappresentavano, o sembrava non determinante pensarvi, e il pensiero individuale di pensare era interrogarsi e cercare anche per proprio conto.

 

Altri fattori che favoriscono la modalità dell'avere

 

II linguaggio è un fattore importante nel rafforzamento della tendenza all'avere. Il nome di una persona - e tutti noi abbiamo nomi (se non anche numeri, qualora l'attuale tendenza alla spersonalizzazione dovesse continuare) — crea l'illusione che l'individuo che lo porta sia un essere immortale. La persona e il nome divengono equivalenti; il nome comprova che la persona è un'entità duratura, indi-struttibile, anziché un divenire. Alcuni sostantivi hanno la stessa funzione; così a esempio, amore, orgoglio, odio, gioia, danno l'illusione di entità stabili, mentre invece i sostantivi stessi non hanno realtà alcuna e semplicemente impediscono di comprendere che si ha a che fare con processi all'opera in esseri umani. Ma anche i sostantivi che servono a designare cose, a esempio tavola o lampada, sono fuorvianti. Le parole indicano che stiamo parlando di entità fisse, benché le cose non siano altro che un processo energetico che produce certe sensazioni nella nostra struttura somatica. Ma tali sensazioni non sono percezioni di cose specifiche, come tavola o lampada: le percezioni stesse sono il risultato di un processo culturale di apprendimento, per effetto del quale certe sensazioni assumono la forma di specifici oggetti di percezione. Noi siamo ingenuamente indotti a credere che cose come tavole e lampade esistono in quanto tali, e perdiamo di vista che la società ci insegna a trasformare sensazioni in percezioni le quali ci permettono di manipolare il mondo circostante, dandoci il modo di sopravvivere in una determinata cultura. Una volta che abbiamo attribuito un nome a questi oggetti di percezione, il nome stesso sem-bra garanzia della definitiva e immutabile realtà del per-cepito.

   Il bisogno di avere ha anche un altro fondamento, il desiderio biologicamente dato di vivere. Indipendentemente dal fatto che siamo felici o infelici, il nostro organismo ci spinge ad aspirare all'immortalità; ma, poiché sappiamo per esperienza che moriremo, andiamo alla ricerca di situazioni capaci di farci credere che, nonostante l'evidenza empirica, siamo immortali. È un desiderio che ha assunto molte forme: la credenza dei faraoni che i loro corpi rinchiusi nelle piramidi fossero immortali; le innumerevoli fantasie religiose di una vita dopo la morte, nei felici territori di caccia delle società venatorie; il paradiso cristiano e islamico. Nella società d'oggi, a partire dal XVIII secolo, la « storia » e il « futuro » hanno preso il posto del Ciclo cristiano: la fama, la celebrità, persino la cattiva nomea - insomma, tutto ciò che sembra assicurare almeno una nota a pie' di pagina nel registro della storia - costituiscono un frammento di immortalità. L'aspirazione alla fama non è semplice vanità mondana: contiene in sé una qualità religiosa, agli occhi di coloro che non credono più al tradizionale aldilà, e lo si nota particolarmente nel caso dei leaders politici. La pubblicità prepara la strada all'immortalità, e gli addetti alle pubbliche relazioni divengono i nuovi sacerdoti.

   Ma, forse più di ogni altra cosa, il possesso di proprietà costituisce la realizzazione del desiderio di immortalità, ed è per questo motivo che l'orientamento all'avere ha tanta pregnanza. Se il mio sé è costituito da ciò che io ho, sono immortale se le cose che ho sono indistruttibili. Dall'antico

Egitto a oggi - vale a dire dall'immortalità fisica, ottenuta con la mummificazione del corpo, all'immortalità legale, assicurata dal testamento - la gente è sopravvissuta al di là della durata della propria esistenza fisica e mentale. Tra-mite il potere legale dell'ultima volontà, l'assegnazione delle nostre proprietà è prestabilita per le generazioni a venire; tramite le leggi che regolano l'eredità, io, nella misura in cui sono proprietario di capitali, divengo immortale.

 

 

Che cos’è la modalità dell’essere?

La maggior parte di noi è meglio informata sulla modalità dell'avere che non su quella dell'essere, e ciò perché la prima è l'esperienza di gran lunga più frequente della nostra cultura. Ma c'è qualcosa di più incisivo ancora, che rende la definizione della modalità dell'essere assai più difficile di quella dell'avere, e che va ricercata nella natura stessa delle disparità tra l'una e l'altra.

   L'avere si riferisce a cose, e le cose sono fisse e descri-vibili. L'essere si riferisce all’esperienza, e l'esperienza uma-na è in via di principio indescrivibile. A essere pienamente descrivibile è la nostra persona, vale a dire là maschera che ciascuno di noi indossa, l'io che presentiamo, perché questa persona è di per sé una cosa. Al contrario, l'essere umano vivente non è una morta immagine, e non si presta a venire descritto come una cosa; anzi, l'essere umano vi-vente non può venire in alcun modo descritto. In effetti, molto può essere detto sul mio conto, sul mio carattere, sul mio atteggiamento complessivo verso la vita, e questa penetrazione e conoscenza può spingersi molto in là nella comprensione e descrizione della struttura psichica mia propria o di un altro. Ma il mio io totale, la mia intera individualità, la mia entità, la quale è unica come lo sono le mie impronte digitali, non può mai essere pienamente compresa, neppure per via empatica, perché non vi sono due esseri umani identici. Soltanto nel processo del mutuo, vivente rapporto, io e l'altro possiamo superare la barriera che ci separa, nella misura in cui entrambi partecipiamo alla danza della vita. Tuttavia, mai potremo realizzare la completa identificazione l'uno con l'altro.

   Non può essere descritto senza residui neppure un singolo atto del comportamento. Si possono scrivere pagine e pagine di descrizione del sorriso della Gioconda, ma il sorriso stesso quale è stato dipinto da Leonardo non potrà mai essere tradotto in parole, e ciò non perché il sorriso della Gioconda sia così « misterioso ». In realtà, il sorriso di chiunque è misterioso (a meno che non si tratti del sorriso frutto di apprendimento, per così dire sintetico, che serve agli scambi commerciali). Nessuno è in grado di descrivere pienamente l'espressione di interesse, entusiasmo, amore per la vita, ovvero di odio o narcisismo che capita di cogliere negli occhi di un altro, nella varietà di espressioni facciali, di modi di camminare, di posizioni e intonazioni, che caratterizzano le persone.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se sapesse come è stato potrei iniziare così la lettera che non le mando, forse così mentre la leggerà penserà all’eventualità di rispondermi. Del resto è proprio la sua riposta che ha dato a questa mia lettera, il fatto stesso del mio scriverla per mezzo della risposta ad essa che ancora non ho ricevuto. E del resto il mio pensare a quello che vi ho già scritto, non può di certo allontanarmi dal costante riferimento di pensare alla sua persona, al suono della suono della sua voce, all’atto stesso di immaginarla nel suo corpo mentre trascorre le giornate. Ma del resto per quanto io mi desti, non c’è proprio conseguenza al profilo che il tempo come le parole stesse immaginano dicano cosa sto guardando. E allora così posso forse rammentare il suo pensiero per mezzo della risposta che mi ha mandato, guardarne il significato, e trovarlo esattamente lì dove quell’immagine di lei si è focalizzata attraverso la sua risposta che ancora deve giungermi. Non so immaginarla in altro modo a scrivere i suoi romanzi, se non guardando il suono e il gesto delle parole, se non l’ipotesi inafferrabile della situazione che inevitabilmente si stabilisce per quanto sembri incoerente il suo stesso rappresentarsi. E allora di fatto ciò che si vede è visibile, per quando è visibile quel che non appare, ma si rappresenta. E allora quel che accade non può che essere quel che accade, nel senso che l’accadere è quel formarsi dell’immagine che le parole rivelano alla coscienza come l’immagine che cerca, o che le parole stesse cercano di determinare. E allora è proprio qui, adesso che vedo il suo romanzo, se la coscienza sì ha luogo il romanzo non può stare alla coscienza senza che esso veda nell’immagine l’immagine esatta che né limita la sua reale visione, del suo stato interiore che si libera dall’immagine creata come dalla rappresentazione acritica di una totale critica basata sull’immagine generatasi nella coscienza, per mezzo di un rappresentarsi sociale quanto storico dell’immagine per mezzo della parola. Di fatto se la parola si allontana da una sua determinazione esatta nell’immagine della coscienza che non si dà per libera dall’immagine stessa, vincolante di un’immagine storica che impedisca il formarsi della coscienza come visione di un altro che parallelamente guarda, non solo in uno stato di funzione, ma anche per un’immagine non rappresentata, l’atto critico della sostanza del romanzo, ora atto stesso del senso reale di letteratura, come osservazione critica dell’immagine più o meno conscia che lo status storico ha nel lettore. Il riferimento per immagine ora non dà seguito, ma rappresenta e dice come la parola che in definitiva fa parte della letteratura. Sì anch’essa ferma dell’immagine critica della letteratura scritta dal significato dell’immagine dello scrittore. Ora è di chiara evidenza nei suoi romanzi, quelli che fin ora ho letto, che il termine del suo tempo ha dato a tale siffatto stato dell’immagine la sua criticità d’artista, ma è di ancor più chiara evidenza che il suo stato di sostanza della sua immagine critica della coscienza umana, ha svolto il significato della sua parola al di là della spiegazione della criticità della spiegazione accademica o meglio storica sociale della critica della rappresentazione dell’immagine per mezzo dello status storico, in essere lì come conseguenza di un’immagine sovrapponente la rappresentazione della realtà come critica, non della coscienza, ma della critica della coscienza per la determinazione dell’immagine dello status storico vigente. Tale affermazione implicita della sostanza presente come realtà della coscienza, pone la critica verso la coscienza nella prospettiva dell’affermazione o non affermazione dell’immagine che lotta nella coscienza per determinare, non un atto critico della coscienza nei confronti della immagine o dello svolgersi stesso del modo del suo costruirsi. Ma determinazione dell’immagine stessa in cui determinare il terreno su cui contrapporre la determinazione della critica della coscienza per la costruzione dell’immagine dello status storico, come affermazione di un principio reale della libertà della coscienza per mezzo di un’azione per la determinazione dell’immagine del mondo, e del titolo di critica nel ruolo della rappresentazione, che il mondo si dà come rappresentazione della sua immagine. Nei suoi romanzi tutto ciò si sostanzia, evidenzia dal punto di vista di una analisi critica che dà all’imponderabilità della prevedibilità, come prevedibile in definitiva ponderabile, un termine analitico della coscienza dell’immagine visibile, oltre il senso stesso del visibile. Ma è appunto in ciò che compare non solo l’immagine in divenire reale dello status storico visionato dal senso della letteratura, da lei espressa, ma l’immagine del vedere di chi scrive, come figura di un immaginario, che si racchiude e si rompe nella parola stessa. Del resto ci sono parole che possono da sole racchiudere l’intero immaginario, come contenerlo ma non essere più rappresentato nell’immagine del vedente. E la possibilità di rapportarsi a questo profondo sentire dà alla possibilità della libertà della coscienza di esserci ed essere per sé critica del discorso del proprio stato, di stare nel significato di chi la rappresenta nel tempo della rappresentazione e come ipotesi di non essere più rappresentata, nel tempo del guardare dell’immagine della coscienza come fenomeno, non più della letteratura ma della sua interpretazione critica. Ma che di fatto per essere tale non può eludere la consistenza di questo avvenimento artistico, dell’immagine persa come reale. Da ciò è ovvio che mi appare il significato della sua risposta alla mia come la possibilità stessa della letteratura di darmi non tanto apparire del suo stato nello status storico del rappresentarsi dell’immagine, ma la dimensione della sua coscienza come realtà di libertà del vedere e del volersi vedere. Si spiega in parte così la non visibilità della sua intelligenza come coscienza che non cerca soltanto in essa la sua libertà, ma che travalica con essa il senso, di un discorso con un interlocutore, che non fa dell’idolatria morale quanto spirituale il senso della spiegazione delle immagini delle parole, ma appunto sa di se e della sua coscienza come possibilità di adempire alla sua intelligenza per il senso stesso del suo esserci, in quanto interlocutore della sua coscienza come della sua non coscienza. Mi rammarico che per tale atto abbia rischiato la pena di morte, e delle conseguenze che le ha provocato il proporre la libertà di stampa, ma tale proposta mi sembra vada al di là del suo dire storico appunto nella sua capacità di capire la finzione dell’immagine nella comunicazione della parola dove l’armonia cessa di esistere come espressione della coscienza che dialoga con il mondo. Questa sua chiara capacità così presente nella lettera alla mia come mai arrivata è già presente nella risposta che avrò da lei da questa mia. Come espressione stessa della libertà dell’artista che comprende se stesso osservando il mondo, senza che ciò sia determinate o indispensabile per sapere e capire la sua coscienza, se non nella libertà dell’anima di Dio. Trovo anche bello il suo tentativo di essere editore di se stesso. La saluto cordialmente,

Fëdor Mihajlovič Dostoevskij

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gentile signor Marcel Duschamp, le scrivo per un semplice motivo di carattere pratico, sostanzialmente per invitarla a giocare con me una partita a scacchi. Se vuole la vengo a trovare, o se no, possiamo giocarla anche per comunicazione epistolare. Devo precisare che data la sua passione per gli scacchi, io, non dovrei avere nessuna difficoltà, affinché lei accetti. In maggior ragione del fatto, che per me è impossibile trovare un altro con cui giocarvi, sia per meriti di passione che per interesse per il gioco degli scacchi. Sostanzialmente credo sia meglio che noi si giochi una partita davanti alla scacchiera giacché le immagini mentali della nostra partita si applicherebbero al movimento del pezzo nel modo più autentico della mano di ciascun giocatore, senza che inevitabilmente, l’azione della mano sia forzata in una sorta di perdita di astrazione, nel momento stesso che l’immagine mentale agisce sul movimento della mano dell’altro, in prospettiva della propria mano, che visualizza la propria immagine, anche nell’astrazione dell’immagine creata nell’astrazione, del pezzo mosso dall’astrazione dell’altro. Ora in una sorta di possibilità dell’immagine, ora in quella della parola, ora in quella del pensiero. In sostanza un modo di guardare nell’immagine astratta dell’altro, senza bisogno di stabilirne una al di là della pratica della partita sull’arbitrio della coscienza dell’uno e dell’altro, non solo come espressione dell’attenzione, ma proprio come prospettiva del pensiero che si astrae nell’analogia, e divaga le possibilità della partita. Se attraverso il proprio immaginario nasce non solo il modo di osservare, ma lo stesso rappresentare, sta da se che la soluzione di un rappresentarsi, reciprocamente per una senso astratto dell’immagine, non dà adito al dire che quella immagine è finita nell’immagine stessa della soluzione espressa nella soluzione della partita a scacchi. Come dire che una volta finita la partita non si è più in grado di pensare. Difatti se c’è una perdita di sostanza dell’identità che investe sul pezzo della scacchiera, non di meno tale perdita è una possibilità della coscienza, che non delega però, mai la sua soluzione all’interno del gioco se non in una rassicurazione esteriore dell’evento in quanto drammaticità della logica che non può più divenire a soluzione per mezzo del solo oggetto che rappresenta l’astrazione, indipendentemente dalla coscienza del giocatore. E allora la partita non è una soluzione ma una rappresentazione presente come futura della soluzione finita che trova la partita, per una liberazione della coscienza che si libera o crea l’immagine astratta, per rendere partecipe la coscienza dell’evento del suo rappresentarsi, come possibilità del capire per mezzo del pensiero, ciò che la rappresentazione dell’immagine non può dare per la soluzione reale del divenire del pensiero astratto, che nell’immagine trova non la sua incertezza, ma la rappresentazione di qualcosa che con l’astrazione e la logica non può non solo rappresentarsi, ma che non dà neanche la soluzione come evento controllato della logica applicata al piano astratto, ma non infinito di una partita a scacchi. E allora se il gioco degli scacchi può essere un piacere per la rappresentazione del proprio pensiero, come partecipazione della propria coscienza dal proprio punto di vista, nulla vieta alla possibilità, le ipotesi di soluzione per principio di illogicità, sulla logica. “Dico questo a lei che gioca a scacchi”, ma del resto ciò implica che lei non deduca la possibilità dell’impossibilità logica propria del gioco degli scacchi, all’interno di una logica del gioco degli scacchi come imponderabile per il sistema di qualsiasi probabilità, non in quanto ipotesi di volontaria definizione delle possibili mosse logiche implicite nella scacchiera, ma come infinta possibilità delle mosse illogiche al di là della logica rappresentata dall’astrazione dell’immagine immediata, ma in ipotesi di infinite immagini sui tempi dell’astrazione, nelle possibilità delle ipotesi di astrazione come eventi di un’astrazione irrapresentata, e possibilità di un evento astratto non probabile sulla ipotesi di un’astrazione complessiva. Se è parte del gioco evitare ciò, è parte delle sue possibilità, andare oltre questo evitare in una sorta di possibilità della fantasia che stabilisce il rapporto tra l’astrazione e la logica, come implicita del pensiero, che non è più determinato dalla logica del gioco se non nella sua conclusione che per ipotesi del pensiero che vi si è rappresentato ha dato ai pezzi della scacchiera, non più dell’importanza di essere parte della struttura logica astratta del gioco applicato dai giocatori, al di la del quale resta un oggetto immobile. Vedo che in questo vi è quella sua visione che non delega più alla retina la valutazione dell’immagine, o meglio dell’immaginario per mezzo della percezione di un’immagine, ma sostanzialmente se l’immagine si crea e si rappresenta da se è per mezzo della visione dell’immaginario che crea l’immagine e la sua rappresentazione, e in questa ipotesi la sostanza di una immagine non può essere delegata alla proiezione che fa dell’oggetto con cui è rappresentata il simbolo dell’immaginario che vi si proietta, come immaginario di una volontà che dà all’immagine, la facoltà di determinare le possibilità dell’oggetto per il significato dell’immaginario, come estensione del valore dell’oggetto, privo della coscienza di chi lo ha creato, o a maggior ragione rendere finito l’immaginario per mezzo della rappresentazione del valore dell’oggetto sull’oggetto, per il possesso dell’oggetto, e il controllo dell’immaginario, che si determina più in quanto oggetto, che in quanto astrazione o liberazione della coscienza dalla logica che ne determina il valore del suo possesso, non al di là della rappresentazione finita di un gioco inesistente, che stabilisce una drammaticità non nella possibilità, ma nella sua inesistenza indimostrabile, come una perdita stessa dell’astrazione per mezzo dell’intelligenza e della coscienza, che sono delegate al potere logico dello stato dell’oggetto come rappresentazione di immediato e utile al di là della sua immagine come azione o movimento della coscienza, della sua liberazione e autonomia dalla logica dell’oggetto, sia come spiegazione che motivo della non spiegazione, come astrazione priva del suo movimento, sostituito dalla funzione dell’oggetto, sia dalla simbologia astratta che così da esso deriva, per un infinito del tutto finito nelle azioni stesse della funzione della coscienza che così si determina. E in effetti l’indefinibilità dell’arte che così sembra stare, non toglie all’oggetto il suo status, ma sta con l’immaginario dell’artista che non può supporre l’oggetto come inesistente, e come inesistente in un’azione al di là della coscienza, in quanto espressione della funzione dell’oggetto. Un quadro siffatto non può rappresentare se non l’astrazione del suo valore se non nell’astrazione del prezzo economico, che da esso si può ricavare. E se da così sostanziato fenomeno della rappresentazione, se l’immagine stessa diventa la rappresentazione, dell’oggetto per il possesso dell’oggetto per mezzo dell’oggetto, ecco che diventa parte di una sistema soggetto alla sua stessa determinazione per esprimere, il valore della propria coscienza come rappresentazione non del suo essere astratto che determina l’oggetto ch’è investito dell’immaginario dell’artista come evento al di là dell’oggetto, e dell’astrazione finita dell’artista, ma come oggetto finalizza la sua funzione nel possesso della funzione dell’oggetto. Va da se che in effetti, signor Duschamp, che se l’immagine artistica diventa alla stregua di qualsiasi funzione dell’oggetto, di qualsiasi oggetto come espressione stessa di qualsiasi immagine viene così svilita della sua più autentica realtà spirituale, sia dell’artista che dei valori più alti insiti nell’essere umano. E allora giustamente lei per simboleggiare questo momento ha dato a degli oggetti di uso comune una funzione non comune, e ovviamente non può vincolarli ad una questione di prezzo, “ma in una visione in qualche modo rappresentativa, magari di un solo individuo alla volta.” Ma di fatto se chi compra l’oggetto, è comprato dall’oggetto, per mezzo dell’oggetto con cui compra, la percezione si sviluppa anche nel fatto che chi compra vende se stesso in rapporto all’immagine che ha di come immaginario delle possibilità di essere tutt’uno nell’astrazione simbolica dell’oggetto se stesso che si acquista per mezzo dell’oggetto, e dell’uso che fa di se stesso. Il termine stesso di inestimabile, in una prospettiva della coscienza e dell’anima dell’arte, in fondo è un termine anch’esso logoro, che fa riferimento alla simbolicità dell’oggetto, più che alla sua astrazione per mezzo dell’artista, e il mecenatismo in questa ottica è, sembra il male minore, ma è appunto la condizione interna della coscienza che rende spirituale, astratto o simbolico il valore non finito dell’espressione per mezzo dell’arte, un valore ch’è presente e non presente, ma ch’è reale in virtù della sua presenza come possibilità di essere nella coscienza come individui che liberano se stessi dalla determinazione della coscienza, come un gioco che finisce nella morte della propria libertà. Ma vi è un altro evento della libertà quello spirituale, di cui quello intellettuale è partecipe come possibilità che fa della propria conoscenza la rappresentazione di se stessi per se stessi, e questa coscienza in fondo, non ha da rappresentare ma cerca di essere in una sorta di amore per la verità, e liberi dalle assurdità del possesso, ed è questo l’unico mezzo infinito per l’arte, e del suo esserci. In sostanza credo abbia immaginato il perché dell’indisponibilità di qualcuno con cui giocare beatamente e piacevolmente a scacchi, dato l’affanno che essi hanno di essere degli oggetti. Ma anche per la validità che in fondo la sua visione astratta ha dato alla mia e che sinceramente non ha dato adito a fraintendimenti sul perché dell’arte, e dell’essere artisti senza bisogno di esserlo, né nel bisogno di sembrare qualcosa d’altro per esserlo.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C’era il silenzio quando scrisse la lettera, Iniziò così

 

 

 

 

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