Patrizio Marozzi - [partitura] del poeta, pag. 53.

 

 

 

[partitura] del poeta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A Dante Alighieri
   

inferno

 

 

                I

 

 

al di là di tutti i giorni passati e quelli già venuti, mi ritrovai nel colore più scuro della vita, tanto che da presso tutto era già sconvolto, e la prossima morte era sì solo soprumana. Non vi era luogo che non fosse già stato e strada che non fosse per sempre persa. E il solo al di là del dì presso, il rinnovare la paura, come soltanto, soltanto non era mai stata. Il colore che rinnova questo giorno, con il più là solo la morte il sentimento sconvolge. Ma di dove sopraggiunse il giorno che vi trovai, questo giorno della vita, che mi scopri le cose chi mi trovai, come quelle che vi trovai senza sapere, come oggi vi fossi giunto. Se tra l’oggi e con tutto il dì, dei dì delle parole abbandonai.

E di lì giunto nel luogo in cuor sospinto, dall’alto vedevo in basso la forma della terra che dinnanzi a me s’apriva verso l’alto, come se tutto fosse già propaso, il luogo in cui io ero e lo spazio intorno, la valle era tempesta e tormento, ma di già il passo si sconvolgeva, e il tempo del giorno si apriva lo spazio, con la forza dei colori, dopo che do già le alte spalle della terra, mi si erano mostrate sotto la luce del dì del luogo capovolto e del calore che si irradia. E allora sospinsi la paura, e ne addomesticai l’istante, senza che il rinnovato ricordo sì sconvolto dalle acque della notte e del buio, e guardo l’infinità acqua, con l’animo che ancora mi si mostra, sta volto indietro, a guardare soligo, ciò che persona viva soliga mai guardò.

E ora mi trovai a camminare su per il tempo, poggiando l’animo calmo e solitario, tra un passo e il successivo lasciato, su un deserto fermo come il suo sguardo, e di perturbata discesa. Ed ecco. Che a camminare per l’erta, un gesto leggero e agile mi si mostra dianzi, una lonza dai colori che trovano uno spazio tra quant’essi non ci sono, e non m’appariva dinnanzi al volto e m’impediva l’istante del mio passo, mostrandomi più volte in ciò che c’ero, credenti di tornare nel presso.

Tempo c’era stato dal divenire presso e il solo e le stelle insieme mostravano, e il divenir mi rammenta, che ciò che mi si mostra è del sperare del divino innanzi è già da presso stato, e lo sguardo delle cose belle, è apparso nell’apparirmi, che di già lo sguardo s’è allontanato, e la stagione bella non mi da paura la vista di un leone.

Infuria quel giorno e affamato e famelico il leone m’avanza, e di sperde il culmine e la fisionomia dell’aria, e il grigno di una lupa morsa da magrezza le genti dispera, a me la fede. della vista la paura.

E tal è in tutto il mondo in giorno in cui s’appaga di supplizi, per il fatto che la coscienza s’acquieta, di quel che tutti nella ragione si dicono. Per poi tormentare la coscienza e i suoi pensieri, dove in quello stesso istante vi si disperdeva godendo. E pena mi fece quella bestia senza pace, perché ora piange e s’attrista senza pace, e nel buio taceva senza luce, la speranza del giorno, che le s’avvicinava al me presso, e il sole tace.

E di tutto affranto e in rovina, dentro e ancor più oltre il posto impaura, dinanzi nello sguardo oltre l’ora, vidi il silenzio che sembrava fioco, e il deserto tormentò la mia visione, oscurandomi, gridai. Che sei l’uomo o il suo ricordo, la vista o il sapere che mi tormenta? Mi rispose che ero quel che lui m’appare, ma omo già fui, non uomo ora mi dico, i miei parenti furono lombardi, mantovani per patria ambedui.

Nacqui sub Julio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto il buono Augusto nel tempo dei falsi, dei bugiardi.

Poeta fui, e di Anchise che venne di Troia cantai, della morte e distruzione, e del fuoco della superbia che invase Ilio.

Ma perché tu mi sovvieni nel ricordo della noia, perché non dai al diletto dello sguardo, il passo su questo monte, che cerca causa di principio e gioia?.

 

Ora sei tu quel Virgilio, quel parlare al fiume e allo sguardo?

Rispose io a lui con l’animo più certo dello sguardo.

O dell’autore io trovai in ogni anverso, e degli altri poeti mi fu lume, ma il piacere dell’onere perduto, per il grande amore, e lo studio mi vegliarono il cercarti come mio autore.

Tu sei il maestro e il mio autore, e da te tolsi poeta, lo stile che m’a dato onore, passione e amore.

Vedi la bestia, che mi decise e mi voltò, aiutami saggio, che ella mi fa tremare, da ella le vene e i polsi, i pensieri e l’animo, fors’anche.

Tu non hai certo il posto quieto, e il viaggio è da presso ad un altro presso ti conviene stare

disse a riposo delle mie lagrime

La bestia non dà adito e risparmio, e il luogo in cui sovviene questo giorno, malvagio per il quale tu gemi, è già esso più selvaggio, la bestia grida geme e squama, ma della via di essa non v’è sguardo che non l’uccide, e per sua natura empia e sì bramosa, la voglia non placa dopo il pasto, che prima era ancor più modesta.

Del senso s’ammoglia agli altri sembianti, e più saranno ancora, e di Conanco…] starà spasimo, e di spasimo morrà.

Questi Non ciberà né terra né oggetto, ma sapienza e amore, e la nazione non sarà in nessun che, e la storia o dell’Italia, fa salute per cui morì la Cammilla, Eurialo e Turno e Niso di furete, questi la caccerà, di luogo in luogo, finché non la ritroverà nell’inferno, dove l’invidia l’à divisa e divise, del tempo.

Seguimi per il senso e per lo sguardo, e del discernere ti sarò guida, dove vedrai le disperate grida nel tempo che s’illude di un’altra eternità, vedrai gli antichi spiriti dolersi, per quei e questo infausto bramarono, e vedrai la contentezza della codesta morte, dove, ancor altri, bramano d’avidità per tornare a le beate genti e seguitar.

Se tu a dir questo vorrai ancora salire, ti lascerà a me da parte e continuare ti giungerà daccanto, chi son che io non posso che venga nello spazio o città, di chi ancora mi seguiterà, ma dove io non venga.

Guida i colori e i più mesti luoghi che tu in poc’anzi di sparsati, e va e conducimi al felice che all’alto elegge. Poeta io ti rammento ancor più da presso, come l’istante che si segue e per quel Dio che tu ancor non rammentasti, perché io fugga questo male o peggio, che tu mi dai là dove ancor dicesti, che io veda la porta di san Pietro, e color che tu già ancor più mi dipingesti, tristi o rassegnati.

Allora guardò e camminò e io ancor presso di lui, dietro.

 


II

 

 

I colori tornano inquieti, e s’appresta a cambiar per essi tutto il dì. E quel che non v’appare perché non è dell’apparire, lasciava le fatiche di terra. E solo io, già per questo vi sostenni per la bruna ch’è la strada, che la luce si dipingesse, del colore di chi gli è data, per sostenere il tempo estremo. Di guerra, ma sì del cammino e della pietà, e per quello che la mente non più si rappresenti in questa come sconosciuta che salvaguardia la coscienza.

 E al quanto al venni alla mia coscienza, m’aiutasti o muse e ingegno alto de la scrivere che la mente io veddi, sguardo e guardo lo sguardo, che mi si mostra alla tua nobiltà.

Traggo e tratto il tempo, Poeta dove posso, e quant’anche prima la mia virtù, dì al tempo e al tuo tormento che vidi quel che a te ti placò, conducimi in di là dove io m’appresto a traggere.

Tu dici che il tempo allontanò la storia e la coscienza brancola, del tempo e del parente di Silvio, e fu ancora corruttibile, anche ad immortalare quel tratto, alla sensibilità stessa dell’umano.

Però che dico che dell’avversario dei giochi del mondo, di chi e con quale, ogni omo ha l’intelletto sensibile, e sì degli alti effetti, il misterioso tratto di Roma, l’apparire fuori il luogo, per il tempo in successore del maggior Piero.

Per questa andata di tempo se il vanto non vi appaia più vanità, di cagione si tratta del tempo in tempo, e non v’appaia ma vi sia del suo colore il giorno, che la salvazione è di sì fede.

Ma io di dove sono, se non di quel che sono, e chi concede il mio venirvi, non Enea, non Paulo sono, degno a ciò, né io né altro lo crede.

Perché se di essere io m’abbandono, temo che non sia né folle, né di quando andai, né di quanto io vi trovai e venni.

Se savio mi pensi, che io so quanto non so quel che ragiono.

E cos’è che c’è e non c’è, che appare e si scolora, che volle senza sapere né propose, che non rispose e si tolse al suo volere, qual è e dove parla.

Tanto dell’oscura costa mi guardai, nel cominciare l’impresa ancor più presa e forte.   

Le tue parole guardo, rispose magnanimo quell’ombra. Che tu ti dici di un dubbio perché del periglioso luogo non c’è che un tarlo nel tuo ricordo. Se tu affranchi il tuo sostare, quasi a offendere la tua anima, che non valuta la coscienza, non ingombrare te omo di molti dubbi, quasi che cercasse se non l’onore, con la paura di onorar virtù. È  falso vedere la propria ombra per la bestia.

Da questo tema tu abbia paura ed io t’intesi, quasi che io non più sospenda me stesso, ad accompagnare le parole sin dal primo momento.

Se io si dell’anima che guarda, donna mi chiamò, beata, bella, e la chiamai io l’ donai la via.

Lucevan gli occhi suoi più profondi di una sola stella, e le sue parole sono come il respiro, e il suono è là per la sua voce. Anima cortese e Mantoana, di cui il tempo si racchiude tutto, e la fama quanto il mondo lontano. L’amico mio sa di già lo smarrimento e la paura, ma di tal ventura è ancora impedito, e l’infinito spazio è di sol paura. Ch’io mi sia tardi al soccorso levata, per quel ch’io ho di lui nel cielo udito.

Tu dimmi le tue parole che di mestiere son di grande aiuto al vivere, sia del tuo, e del tuo sia, l’aiuto che di me io sia consolata.

Io Sono Beatrice che raccolgo e chiamo e che va per l’andrai, vengo dove fu per essere e che per tornare non v’è compenso ma tornar dolce nel tempo in cui non vi è più luogo alcuno. L’amore che so che non si tace, e che già fa toccare quel che più si ascolta.

  Se di un ricordo vi è più fine, quando sarò al signor mio di te a lui racconterò, mi loderò ancora a lui.

Tacque allora nel suo silenzio, e poi, durante il mio cominciare, io cominciai. O donna che lo sguardo ti risolve, e tu soltanto guardi con gli occhi dei tuoi occhi, che l’umano spazio del cielo non più immagini di gravità, e può essere savio il tuo sguardo che guarda con dei miei occhi, che di già ci fosse il mio vedere, come il talento del veder l’aprirmi al di tuo capire.

Ma dì perché forse t’abbrevi a scendere di questo nell’imprudente centro, che sol mi guardi, quasi che sol soltanto tu già sei tornata, eppur mi attendi, del tuo ritornare. 

Di dove vuo’ tu giungere, così tanto dentro al sapere. Nel tempo che le sue palpebre si apersero e chiusero mi rispose. Perché io non temo l’essere venuta qua dentro.

Temere è l’illusione di giorni di paure dee e illusione dei giorni, che hanno potenza per l’altrui male. Delle altre no non vi è paura da cercate né di esserci.

Io sono fatta da Dio, per sua infinità misericordi e grazia, e la vostra miseria e il luogo non m’assale non tange alla mia anima.

Donna nel cielo si compiange, dell’impedimento che io vi guido e mostro tanto che esso non si mostri affatto per la sua durezza ai vostri pensieri, che ne saranno presi.

Questa allora chiese Lucia, al suo fedele che di esso è cercato l’altrui ricordo e ad essa lo raccomando.

Lucia di spense il male e d’affranto, le crudeltà. E venne e seduta d’accanto a Rachele.

Di già guardò Beatrice. E del lodare, le disse, s’accanta le membra quanto il lodare di te Dio è vero, ma non d’accorgi che la forza impazza e il luogo è sì perso e crudele, da non capire il pianto e la pietà per esso di colui che tanto, ha da combattere e t’amo tanto, che ogni vana gloria è ora in nessun più vanto, come il mare che non ha esaltazione?.

Al mondo non fu di persona al fare il sapere e fuggire il danno, come io dissi delle parole fatte, fidandomi della voce e dell’onesto parlare, che onora te chi l’ascolta.

Disse e riflesse appena detto questo, che gli occhi dello sguardo, del suo sguardo, lacrimarono, a guardare chi mi fece giungere in un attimo.

E venni come ella disse e guardò, te. Dinnanzi alla fiera ti levai, e il tempo dal bruno monte guardai e temetti.

E allora che fai, che stai, perché viltà non ti scompare. Restai. E ora con il parlare tanto ch’è promesso, tre donne benedette son con te, nella corte del cielo, per la tua franchezza. Quali fioretti e sacrifici e solitari, dal notturno silenzio, e dal freddo, s’imbiancano in colori e spazi. E di rinnovo si riguarda, feci io della virtude stanca. E tanto mi feci certo che l’arditezza, mi si placò di franchezza. Oh lei che pietate mi soccorse, ed ubbidisti tosto alla parole che sì vere ti porse. Tu mi hai con del talento il desiderio affranto, e il cor mi si è disposto, al sentire a al parlare, che io son tornato nel primo proposto.

Va che d’ambedue è il volere ora. Tu duca tu segnore e tu maestro.

Così dissi. Entrai poi nell’imperverso spazio, per lo cammino alto e silvestro.


                                               III

 

 

PER ME SI VA NE LA CITTà DOLENTE,

PER ME SI VA NE L’ETTERNO DOLORE,

PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.

GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE;

FECEMI LA DIVINA PODESTATE,

LA SOMMA SAPIENZA E ‘L PRIMO AMORE.

DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE

SE NON ETTERNE, E IO ETTERNA DURO.

LASCIATE OGNE SPERANZA VOI CH’INTRATE.

 

Queste parole di colore oscuro, io guardai, nel vedere il sommo di una porta. Perché io nello scrutare se stesse, Maestro il senso che mi si por di dinanzi, a sapienza e speranza mi si ignora.

Ed elli a me, come persona accorta. Non sospettar più del tempo e dello spazio, che non v’è coscienza, che non c’è speranza o podestà che dinnanzi a noi non si smarrisca, di già per disaccorto trascorso, e par di ogni speranza morta la possibilità che ora, propri’ora, non più si ricorda.

Noi qui nel posto dove l’intelletto a perso ogni bene, e del posto che ti ho detto, e genti vedrai adorne del doloroso, già mai e pur per sempre perso.

Se del toccarsi vi è sì cosa strana lui pose la sua mano alla mia e delle segrete cose mi mise a conoscenza, e del suo volto e suo respiro mi confortò.

Se di ragion ragion oltre mi disse, qui pianti e disastri, e sospiri suonano in questo cielo senza stelle, che decorano gli urli e gli strazi, ch’io a questo cominciar lagrimai.

Se dil di sempre ora urli strazi, e voci soffocate e lente basse e forti, dai significati ancor più certi e smarriti di sconosciuta sorte. Il dolore delle parole e gli accesi d’ira, e il suon di mani e corpi che dibattevano nella sorte, e di tumulto si formava lo spazio, in un’aura senza tempo tinta, come le cose che ven mosse senza coscienza, morte.

E io che dittorno aveva l’errore l’orrore attorno al mio pensiero, alla mia testa così cinta dissi, Maestro ch’è dell’accadere, e di così gente vinta, e di quel che loro odo.

Ed elli a me. In qui vi è quel che si tengono e lo tenersi, di dove le anime dissero tutte insieme la tristezza e la vita apparve e disapparve senza che senso né perché fosse mai accettato, l’acconsentire dell’infamia e della lode.

Gridando il suono si udì, guai a chi di voi anime morte, osa sperare di vedere, io vi vengo a scaraventare all’altra riva nella disperazione e il buio etterno, tra il fuoco e il ghiaggio, dell’etterne tenebre.

E tu che m’appari d’un pensiero, e t’emozioni senza che il desiderio ammazzi, va di via da codesti che son morti.

Ma poi veder che io non mossi. Non su tale barca convin che stai, per attraversa per la spiaggia, al di là di codesto fiume di tempo e spazio senza ritorno. Trova altri legni e porti.

E ‘l duca lui. Caron. Non ti smarrire. Distolsi da me la volontà di quel che è il se stesso volere, e di domandare silente così volli ascoltare.

L’osservai nei suoi cispi peli il viso, del nocchiero della palude errata, e la fiamma che appariva sulla pelle d’intorno gli occhi, e dell’invisibile della pupilla.

Ma quell’anime che sbattevano in carne nude dai colori morti, cangian la sofferenza, nell’affranto e tormento delle sensazioni, e sbattevano i denti nell’acuto dolere senza spavento, a intesser la parole sì crude e sorde.

Bestemmiavano Dio, e tutta l’umanità e chi più dicevano nazioni e parenti, i semi e gli istinti dei nascimenti.

Poi si spensero e disperse si ancor smarrirono e dileguarono, forte piangendo alla riva malvagia, che attende l’uomo a cui Dio non teme.

Caron demonio, che appezza e le raccoglie e infilza il remo a calunche di morir dispera, senza sperar.

E come la morte che sopravanza in ogni tempo a rammentar il mal seme del primo uomo, che d’Adamo similmente, ripercorre ad una una l’anime, che marce di corpo scompaino sulla terra. Le raccoglie sbadando la memoria della notte senza remi. E così nel tormento dell’acqua sconosciuta sbatacchia il suono del remo e le anime s’aduna ogni volta, e ne scaraventa le schiere, alle discese per l’altra sponda.

Disse il maestro con l’affabile raccordo, del significato delle parole, a placar tutto quel suono. Quelli che sperano nella dannazione di Dio, fin qui vengono e da ogni parte, pur di trapassare nel tormento, sicché non si risolvono a nient’altro, quasi che lo dannassir è lo dannassi, e la divinità stessa s’affretta alla speranza, che se il tema è la fine, che di prima finir è la certezza. Che di Dio è la parola.

Qui non c’è passaggio per l’anima buona, ma se Caronte di te si scoccia e lagna, ma di tanto dice, il suono pensa e del saper tu puoi capir.

Finito questo, il mondo si scontrò, e la campagna squasso così i semi che lo spavento m’invase in ogni instate. La mente di sudore ancor mi bagna, e il vento mosse e ghiaccio prima che ghiacciasse, e il colore scosse la luce, la qual mi vinse ciascun sentimento, e caddi come l’uomo che sonno piglia.

 


IV

 

 

Se di svegli mi trovai, come persona dall’occhio riposato, il suono che all’istante mi svegliò, come un tuono dal cielo e la coscienza, all’impiedi riguardai, e guardai per conosce il posto in c’ui fossi.

Dirimpetto all’abisso dolorosa mi trovai nel guardare la valle, che s’apprende tutti gli infiniti guai.

Oscura e profonda e nebulosa dello spazio che vi discerne era, che del vedere con proprio viso, lo sguardo che può guardare nessuna cosa mostra.

E discendiamo qua giù nel cieco mondo, cominciò il poeta tutt’altr che grato. Io scenderò di primo e tu di dopo. E io che lo guardai e del mondo di quel color mi sono accorto. Come verrò se il tuo temer, non so più che del mio conforto fu di sì conforto.

Ed elli a me. L’angoscia che io vedo, dello sguardo delle genti che son quaggiù, e di gran sì più mostra di quel che essi vedono, e mi dipinge il volto, di pietà che tu vedi e per tema dici.

Andiamo a ciò che vedi ci sospinge.

Così stette là e io di presso come egli stette entrai, nell’abisso che del primo cerchio lo cinge.

Qui dalla coscienza che il suono secondo ascoltai del pianto che lo spazio etterno muove quasi il tempo dell’aria, così che un tremare senza l’accanir del male, in quel cerchio che sono come non so i dubbi del dubitar, sì grandi c’avevan grande il turbamento, d’infanti di femmine e di umanità d’omini.

Non mi chiedi di dove sono i son che vedi, mi chiese il Maestro in là degli spiriti.

Seppur su essi detti, essi son quelli che non peccaro, ma se il giorno è un giorno, per ciò non basta, perché non battezzarono la fede che porta in chi crede, che tu credi. E se di essi il cristiano non s’inganna, non adorarono sapevolmente Dio. E io son con questi medesimo.

Per tali difetti che non conosciamo semo perduti e con tanta assenza viviam del limbo.

Gran dolore dissi al sentir quel che ti sì gente dovea provare, e vidi il loro valor soltanto lì sospesi.

Dimmi Maestro mio dimmi, signore, comincio io a provar quel che tu mi appresti a dire, fosse che di qui il tempo della mia fede disse quel che vince ogni errore, all’approssimar del tempo nuovo e beato.

È qui che intesi di novo il parlare, di già vidi un mostrarsi di un dì che possente vi apparve un vittoriato.

Tornò il tempo, e di tutto s’apparve dall’ombra Abèl Noè, Moïse, Abram e David re Israèl e Rachele per cui tatto accadde e molti altri beatificati.

Ma di tutti gli spiriti con essi non furono salvati, pur tuttavia si trovaron di passo per la via, e attraversarono il tempo, con la storia degli spiriti.

Non già di molto io avevo pensato del mio passo, che vidi un apparire di calore che schiarava dall’alto qual io sto, nel da presso avvenire, che vinceva un po’ la tenebra.

E di pensieri e di vista e guardo c’era da ben poco, che l’avanzar dell’orrende genti mi vedeva possedere quel luogo.

Or tu dimmi quanto anche tu di scienza arte, di già l’onori, che son di tutto questo spazio in disparte, e che hanno onoranza del poeta, in su anche della tua vita.

Grazia acquista chi di essi trova nel tempo il vero spazio, grazia acquista ne ciel.

Tornò la voce per me udita, a onorare l’altissimo poeta, che l’ombra non era che d’esso dipartita.

Poiché la voce s’acquietò e si udì silenziosa. Lo spazio acquietò l’ombra e tenui quattro ombre ci cinsero lì, con l’aria savia, come non è trista né lieta.

Lo buon maestro disse nell’incominciar lo sguardo. Sì t’appaia con la spada da sembrar sovrano quello è Omero il poeta sovrano, l’altro è Orazio Ovidio è il terzo e l’ultimo Lucano.

Sì che poesia si conviene determinare, che non altro non si può che mostrare, della somma arte e del tutto il loro divenire, e per di ciò fanno bene.

Che di tanto mi si mostri che dell’apparire del tempo non s’appaia che di pensiero e sostanza d’animo, oso anche io sperare, quant’essere.

Se di poi il lor guardare un si po’ lo dire che lo sguardo ancor ora nel sorriso mi danno, sì di conforto e confronto, tanto che io il sesto, il maestro guardo, che cotanto senno mi feci della loro schiera.

Sì grande camminammo e parlare del tacer del bello, nel vano luogo, come del luogo un era voleva il parlare lo stesso silenzio.

Se del tempo un tempo c’è che stare giunti sotto un alto castello di sette cerchi le mura, di nobile stato, s’addiceva e un fiumicello lo teneva per intorno.

Lo passammo come passo sopra terra, per sette porte entrai con quei savi, e di prato si aprì lo spazio.

Sguardi e temi vi erano nelle genti che distrava con l’autorità del loro essere, parlavano ascoltato e con voci sensate di suono e tono.

Ci spostammo di già con il suono delle voci, e ci vedemmo nel posto in cui tutti quanti guardavamo.

Davanti proprio lì vedo quel che mi fu mostrato, dagli spiriti magni, che nel veder in me stesso ne fui preso.

Io vidi Elettra con molti compagni, e conobbi Ettòr ed Enea, Cesare d’arme.

Vidi Cammilla e la Pantasilea. Il re Latino, con Lavina che sedeva e la figlia. Bruto che cacciò Tarquinio, Lucrezia, Iulia, Marzia, Coniglia e solitario vidi il Saladino.

Nell’aprire lo sguardo il filosofo maestro tra la filosofica famiglia. Socrate Platone, Democrito e il mondo del caso, Diogenès, Anassagora e Tale, Empedoclès Eraclito e Zenone. E vidi il mondo che s’apriva nei pensieri e nelle immagini, che di là già le immagine più eran chiare. Vidi Orfeo, Tulïo e Lino e Seneca Morale. Euclide geometra, Tolomeo Ipocrite, Avicenna e Galïeno, Averroís.

Se il sapere della coscienza di un mondo di questo posto è il tema, di tutte il pensar vien meno del tutto che è non si sa per dire. E la parola ferma, si ferma.

La sesta compagnia è così vasta che in due si divide, s’apre, d’argomento. Per altra via mena il savio duca, e dello spazio e del tempo chi vi trema non v’è altro, e limbo. E vengo oltre e ancor più guardo e non è che luca.

 


                                          V

 

 

   Così scesi dal primo cerchio giù nel secondo. Sta Minòs, di già di fatto del tormento o tormentar e perpetuava la folle spinta delle grande tempo che stava lì. Guarda guardai e vidi, vedi che è grande l’apertura, dell’entrate perché già nella lussuria è avita la sorte, e se delle passioni tanti urlano, l’urlanti si cangiano di ringhia e spasimi. Che tal la guida il duca, perché griddi, lo entrare gli prima che sorte, e non ricordale tu adesso ciò che c’è da ricordare da sapere, non domandare.

Ora incomincia la musica che strida ma che sa dove per sempre posarsi. Si di anche quel che sto qui io sempre incontro ciò da venire la bufera infernale. E di sempre l’inganno e la molestia, l’offesa e la menzogna, e compaio qui in lamento e bestemmia delle virtù divine, degli urli dei peccatori carnali, che di passioni uccisero il pensiero, e il tutto, il talento.

E per grande ampasse e grida li spiriti mali era lì al tormento dello spazio e si muovono in sù e giù, in là con violenza e morte della speranza, impazzano la mente e la pena non conforta né mai si posa.

E guardo e incontro guardo. Maestro chi son quelle. L’imperatrice che il mondo spande e del godere fa la calunnia e la menzogna, e al vizio spande e fece tutta la legge, e dei poteri distrutta ora è condotta, seguono i regni, Semiramìs e Nino, e soldati e guerre, e là la morte di Sicheo che lussuriosa Cleopatràs.

Vidi la lotta e là Elena e Achille. París e Tristano, e mille altre ombra, e continuò e udir di donne e cavalieri, che fui smarrito da tanto. E allor Poeta chi son quei che così conducono, tanto da sembrare di presso a noi, che mi sembra così soli che lì vorrei parla volentieri.

Ed elli a me, quando saranno di presso a noi per l’amor che mena essi verranno.

Mossi la voce, alle anime affannate. E si mosse in loro il vento che vi nega ciò che soppiace appare chi altri e nessun lo niega di dirmi ciò.

Nella tempesta che squassa questo spazio el maligno, fu affettuoso e forte il tuo grido.

Noi che dispensam di sangue il mondo, e se tu fossi amico del re dell’universo, dispensi a noi la pace, che pietà del nostro mal perverso.

Di quel che voi udite del parlare noi udremmo. Sicché fu fatto il nostro tempo che di nulla s’apprende che della persona, e se del parlare si forte s’abbandona, le voci tolgono il modo e il dire della persona, e il modo ancor m’offende, e non può prendere della parola morta. Amore ch’a nullo ha amato amar perdona. Amore che non infinito conoscere e che di niente e piccola o grande non ama, non m’abbandona e a noi la morte, per la morte ci condusse la passione e la parola. E chi ci uccise caina attende la sua sorte.

Queste parola da loro ci fuor porte.

Stetti inginocchi e di gente a pensare, nel pensare nelle parole dette. Che il Poeta che disse, che pensi.

Poi rivolto a costoro, parlo io, Francesca che mi fanno piangere e mi rendono triste ma non disperato i di vostri ricordi. Com’è che amaste e quali furon i tempi e i sospiri, che dubbioso conosceste.

E quella a me. Nessuno dolore è maggiore che la nostalgia del tempo felice e il suo perenne ricordo. Che di fatto ci fu felice una radice del nostro amore, di regni abbandonati e di tradimenti incauti, delle passioni tradiscono la realtà e la sua sembianza e rimpianti di non essere da sempre conoscenti del conoscente. E del dì leggemmo per diletto del Lancillotto che l’amor lo strinse, e l’amor del fato e la narratura, ci disse qual la vita noi disperava, e dell’insistenza della passion che vince, che dimenticammo di non saper più leggere, e che la vita non ci sapen d’accanto, che l’emozione ci prese per quel che noi siamo e della sorte della storia che ci appar condanna, ma sol in un punto quel libro toccò più del toccare, quanto leggemmo che l’amate sì disignato tocco il cotanto amate nel suo bacio stesso. E la passion dei mezzi che avevamo dinanzi aglio occhi, ci stringemmo della passione degli amanti e ci baciammo del tempo e della storia, e la bocca mi baciò mentre io tremavo, di tutto il dire e nel dire che le parole vi raccontarono e si dissero delle opinioni. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse. Quel giorno non più leggemmo e non passo la storia dei tutti. E mentre l’uno spirito questo disse, l’altro píangea. Tanto che la pietà mi prese in tutto, e svenni come di lì morissi. E caddi come corpo morto cade.

 

 


           VI

 

 

Se della mente si sovviene coscienza tornai nei pensieri mentre guardavo, dei due che la tristezza mi confusa.

E come alzo e mi muovo di tutti nuovo tormenti e tormentati vendo in chi volgo in torno a me.

Io sono nel terzo cerchio e la pioggia è etterna e maledetta pesante e greve. Grandine grossa acqua tinta e neve e tutt’intorno ruota e schianta la terra.

Cerbero demonio e fiera crudele, urla squarciando il suono, dal fango sovrasta le tre gole disquassa sopra la gente che qui vi è sommersa, grida mentre son rotti e squartati, li spiriti escoiati. Li occhi vermigli e la barba infangata, urlar li fa la pioggia come cani, mentre l’un l’altri si fanno da schermo.

Ci guarda Cerbero, che del corpo del verme tutto dimena, e le tre teste ci mostra per vorace sequenza.

 E Il duca inforcò le mani nel fango e lo scaglio in quelle gole bramose. E si quasso e li disperati ebbero suono per tormentati l’anime, da le facce lorde de lo demonio Cerbero.

Noi passammo camminando su quelle ombre, che la pioggia squassa sulle loro immagini. La vanità di passo infuora tutto lo stato della coscienza ultima, ingoia e tormenta la gola che si strazia di chi la realtà per nulla dice, come menzogna per verità.

E di la di questo mi si paventò un di là del fatto, per dirmi se riconoscessi il suo atto, come atto dell’inferno disfatto ha fatto.

Non mai ti conoscesti se dell’angoscia che tu fai atto del più m’appare del mio pensarmi, che io non ti vedessi mai, se di viddi e ti vedo in quest’atto.

Ma dimmi chi sei tu che pretendi il mio tatto, così dolente.

Ed elli a me. La tua città, è smorta d’invida e s’accise la coscienza per avarizia e cupidigia. Lo stolto denaro ha l’oggetto saziato. Io son Ciacco, che per il potere di avere distrussi il mio appetito fin anche nel mio corpo. E della pioggia ora mi fiacco. Io non son solo, e simil a me stanno simil colpe.

Io gli risposi, io m’affliggo e quasi m’affanno a lagrimar per te, ma dimmi ch’è della gente e della città spaziata.

Qual tormenti discordia l’assalita.

   E quelli a me. Dello strazio caccerà ragione e distruzione e distruzione l’imbecille coscienza s’avvidierà. E si sconquassa li tempi e s’ammucchia le genti, come di fare non sanno fare. E lì soli son tre a seccar la terra, che gli affanni tormenta, e della parte d’inganna la molestia e l’offende, e savvinchia e si scorda, e blatera il potere sazio come deficenti. Se del dialogon e di relazione gusti son due e non si sono intesi, tra la ragione che superbia invidia e avarizia le coscienze si sono accese. Essi oggetti come morti e mai nati. E il lamento suonò delle sue lagrime.

E ch’è n’è stato delli ricordi miei coscienti, Farinata e Tegghiano, dimmi Iacopo Rusticucci, Arrigo e Il Mosca, e gli altri che per far foser pe’ ingegno. Il cielo l’addolcia o l’inferno li attosca.

De lì tormenti tutto strazia e del veder s’adagia la convenienza e il tempo, son essi giù ancor più nel più profondo, del poter s’oppose a torto e del denar son stati inganno e vana è la sorte. Ma se di me il mio tormentar ti dice io non posso esser quel che sta, tra la morta qui coscienza, e che tu quando sarai nel dolce mondo, reca la preghiera affianchi io conceda il pensiero all’altrui pensiero, che mi è qui vego mai più dinato. Più non dico più non rispondo.

Li diritti occhi torse allora in biechi, guardandomi un poco e poi chinò la testa.

E il duca disse a me. Ciascun si spodesterà a ritrovare la tomba e udrà che l’etterno rimbomba. Sì trapassammo per sozza mistura, per saper la vita un po’ futura.

E io dissi Maestro, se di fin essi finiranno di questi tormenti o di concent’essi saranno ancor di più i giorni.

Ed elli a me. Torna a tua scïenza e lascia al pensar che questa gente non distolga il senso di ciò ch’è vero a dirsi come a farsi. A parlar ancor di molto, lungo quella strada, fin quando giungemmo dal potere che tutto ingorda, e di lì che il punto degrada. Quivi trovammo Pluto, il gran nemico.

 

 


                                       VII

 

 

Se di Satana è l’invoco e la condanna, l’invoco chiama Dio a sua sembianza, come l’ugual a mai diverso, dico io quel che dice isso.

Lo savio gentil che tutto seppe, mi dì di seguitar che ello Pluto, nulla ci può con l’invocare, e non lasciar che la paura ti sia di voce. Taci maledetto lupo. E la rabbia tua dai ad alimento della tua morte. E di là scendemmo presso la roccia, guardai in alto là dove Michele.

E di là del quarto cerchio.

S’aggozza la folla alcon più blatera, rampadde come un’onda sopra a Cariddi che rintoppa e s’affrange pe’ le sponde. Che triste pensier lo veder si gente che sa dimena come superficiale spema, che sol per sorte hanno voluto catalogar per verità, a perpetuar il tempo e l’indifferenza, tutti a cercar di voler procrastinar la convenienza. Se di falso è il falso, falso è l’imbroglio la gozzoviglia che ride dinnanzi alla materia che si fa per propria e per dire che la morte è la morte giusta che agli altri tocca, senza pensare che al godere, al rider scemo dell’ignoranza che conviene per dimostranza. A loro tocca essere tocchi per far dir che la paura non l’ammazzi. Che triste vedovanza di pensiero, ha da sì i finti corpi che appaion per veri, che sì maledicono la coscienza tutta per tirar dritto per la fortuna che si son rubati e che non esiste, fortuna.

E quant’era giunti per lo mezzo cerchio all’altra giostra. Maestro mio or mi dimostri che gente è questa. È gente tutta che stravolse la vita e le cose vere della verità. Se il dubbio in loro non appariva, certa era la sentenza per la coscienza, e così rubano di giorno in giorno, il rubar della verità l’inganno, che s’addimostra vero e lo fan sembrar loro, come dican solo il possesso dell’inganno che ha l’effetto della verità. E vidi che furon anche papi e cardinali all’avarizia per virtù.

Ed io, Maestro dov’è che io conosci i cotanti mali, tanto da riconoscerli sempre.

Ed elli a me. Vano aduni pensiero, ch’è così vano che esso si fa per la disconoscente pratica della vita, e che fa sozza ogni conoscenza, non si pensier così. Essi ai due estremi saranno sempre per lo cerchio senza sapere dell’uno e dell’altro e avran in etterno la zuffa dell’avere. E non dico di parol ti guardo, ma è da veder quel che vedi, se l’etterno risorgeranno così mozzi come già son. Si godranno della virtuale monetaria, perché di materia si pasceranno. Oh creature sciocche quanta ignoranza, si pasceranno di sangue in sangue per lo splendore mondano sogneranno strali e strati di fortune tocche e sempiterne che sgozzeranno per dire vere le menzogne. E tutti saranno di servi e di cotanti servi appariranno all’ingozzar per oro la sapienza, che dell’apparire non rimarrà l’appariranno che come vetro di diamante gloriosi ingoieranno. E del bene pane della materia essi fan strazio alle coscienze e i corpi che muoiono. Se di cotanto mutar è il tempo siffatto, dello mutar oltre il tempo e lo spazio, si avvale in tutto e non in parte il sapere, che l’inganno fa derivar dalla conveniente fortuna, che fa quel che crede e chi gli crede e basta ha solo esso dir che è quel che vede.

Or discendiamo omai a maggior pietà, già ogni stella cade che saliva. Non è più tempo di restare ancora in questo presso, e di là attraversammo un fossato, per sull’altra riva del deserto dal colore smorto. Ed io che di mirar stava inteso, vidi genti fangose in quel pentano [pantano] grigio. Null’altro aveva da fare n’ira etterna che spolparsi il corpo sì di guerra in guerra, per calcara l’iracondia che li sostanzia. Appena di là della larga palude in fiume di nome Stige.

Lo buon Maestro disse, figlio or vedi l’anime di coloro che vinse l’ira. E li sospiri di coi ribolle l’acqua stanno gli spiriti che per accidia giocanno , per invidia e per gola, insieme gli un con gli altri ora nella strozza parola. Così girammo de la lorda pozza, con gli occhi rivolti di chi del fango ingozza.

E alla fin venimmo, e nel sezzo ai piè d’una torre.

 

 


                                    VIII

 

 

 

Io dico, seguitando, che assai prima che noi fossimo al piè de l’alta torre, vedemmo per due fiamme e ciò visto ci dette a tutto il mare dell’intelletto, per non saper mai ciò che di fatto, chiedevano e rispondevano, che tutto sembrava sapevano. E di la di mezzo a tutto quello foco, nello colore spento di tutto quello fango, ci giunse da presso prima per nave piccoletta in Flegïàs il demonio che sbraita a chi sono quei morte d’attraversare. Nello inferno eterno. Lo mio segnore rispose, a questa volta tu no puoi che far da remo per il mare di fango, che t’aspetta qui anima viva. E del di presso al duca mi ritrovai sul legno di quella barca. Che io non potia che disprezzare e di rimando condannar come se io potea anche dir chi infame sia chi davanti al volto mi si mostra, che si n’estetica raffinata a condannare il male e il demonio che s’avanza, si la barca che va oltre il senso e il tempo, come pesante gravità del vivo che non distoglie il fender di forza, il mare di fango come se il mare di fango non possa, le anime che vedo e che trovan brutte, e immonde che io dico. Il mio maestro che qui mi proclama. E tra le anime morte non po’ che veder un mio moto d’animo, che m’addita dì della condanna di chi ancora addita l’irriveranza che sì di scherno e tracotanza. L’offesa è tra le anime morte è così tanta, che queste anime morte si apprestano a deridere con, l’odio e l’offesa che inganna, quasi a sembrar solo tracotanza, o per vantar per semplice spasimo chi sono. Finché rubaron con vanagloria la coscienza e la semplicianza con l’estetica falsa della prepotenza e tracotanza per dir menzogna come cosa di non curanza. Se di fatto il subdolo appare per innocuo, lo giubilo che da esso deriva per l’ottusità della mente fa degli ignoranti la gloria del vanto che fa per scherno il talento che non si vanta, perché sol è. E di fatto tutti gridavan con scherno e tracotanza quelle anime blasfeme dell’estetica che non si rappresenta, è Filippo Argenti il fiorentin spirito bizzarro. Spirito maledetto che ti conosco ch’i ti conosco ancor sie lordo tutto, ti rimani. E il maestro accorto lo sospinse, benedetta colei che ‘n te s’incinse.

Quivi lasciammo, che più non ne narro, ma ne l’orecchie mi percosse un duolo, per ch’io avante l’occhio intento e sbarro.

Lo buon maestro disse, ormai figliolo s’appressa la città c’ha per nome Dite, dov’è piena di cittadini sì dannati e le mur di cinta di son di fuoco, per la città di satana il demonio. Dove il nocchier forte uscitici, gridò. Qui è l’intrata. E or ci sembrò di gran fatica e pesante, che si futile è l’imbroglio, che ci sembrò imbrogliarci pe’ niente, se d’ingiusto è la tracotanza nessun anima viva fece entrare per la città di morte eterna, che non s’ha potere né resurrezione e lo giudicar ciò ch’è bello o brutto, non s’ha di peso se sia giusto, o vero, che si vero appare solo dell’effetto per l’altro effetto, de la morte pe’ la morte, con se tutto è sciocco e vano lo sciocco. pensa, lettor se io mi sconfortai nel suol delle parole maledette, che non credetti ritornarci mai.

Chi è costui che senza morte va per lo regno de la morta gente?

O caro duca mio, che più di sette volte m’hai sicurtà renduta e tratto d’alto periglio che ‘ncontra mi stette. Dissi io disfatto. Se il passo mi è negato che ritrovi le mie orme la mia coscienza. E quel segnor che lì m’avea menato. Non negare che il passo da chi è dato nessun può esser negato, ch’i non ti lascerò nel mondo basso. Ma qui m’attendi e lo spirito lasso. Così se ne va e quivi m’abbandona.

Chiuser le porte que’ nostri avversari nel petto al mio segnor che fuor rimase. E sconsolato il corpo sentì venire già per l’anima, e stanco trascinarsi nei sospiri, del poetar si stanco. Chi m’ha negate le dolenti case!

E a me disse. Tu perché io m’adiri non sbigottirti perch’io vincerò la prova. Questa loro tracotanza non è nuva ché già l’usaron per far vedere com’è la secreta porta pe’ l’inferno, ma è divelta e rotta essa, perché di già fu vinta. Sovr’essa vedustú la scritta morta. E si passa di qua e da lei discende l’erta passando per li cerchi senza scorta, tal che per lui ne fia la terra aperta.

 


        IX

 

 

Quel color chi viltà di fuor mi pinse veggendo il duca mio tornare in volta, più tosto dentro il novo ristrinse.

Attento si fermò come un uomo che ascolta, che quel che si vede non è molto da vedere nel folto nero de la nebbia. Pur a noi converrà vincere la paura e lo sconforto. Siamo fuori dalle mura e le parole si acclamano. L’uomo che ascolta di qua o di là del verso che sembra or tronco come non appare in tutta la climatica storia, e dir che è proprio altro da essa, se sol di essa a pezzi si fa il significato. Questa question feci io alla parola che ascolta. In questo fondo non scende nessuno e la speranza ha un infausto cammino e non v’è nessuno che dall’atre parti dell’inferno po’ qui entrare. Nei cerchi che son passati non possono sperare di dannarsi ancor di più in questo.

Eritón che mi dice nuda del del mito, a già di fatto la coscienza nuda spalancato, e la carne nuda che non ha più sembianza di vivi cruda appare come materia che un muro che l’assorba no l’offende, è del cerchio di Giuda di chi non può sentenziar ciò che gli appare. Quell’ è ‘l basso loco e ‘l più oscuro e ‘l più lontan dal ciel che tutto gira.

Ben so il cammino, che così si fa sicuro. Eppur di fatto se di Giuda è un canto, che canto è questo che non mi dà certezza di quel che leggo e veggo. Se qui v’appare il mistero dell’abisso, di esso è cieco non solo il suono, ma tutto il detto, e di ‘sti inferno non c’è che vento e fuoco, senza che del foco la carne nuda né abbia detto.

Questa palude che puzzo spira, cinge d’intorno la città dolente, come essa sia danno e ancor più dannata. E se del danno vi è divieto di che s’affranca la morta città della morte tormentata.

Eppur l’immagine non si calma per l’inganno che non si sbaglia e che non lascia che si sconvolga.

Tre furie infernali escono dalle alte mura, e non so parole né memoria, è d’appresso all’accader che nulla storna. Ora io dico a chi “m’ascolta” che il poeta non s’avanza e del loco non v’è somiglianza. E di carne e corpo appaiono, con idre verdissime eran cinte, e serpentelli in testa avien per crine, le feroci Erine.

Quest’ è Megera dal sinistro canto, quella che piange dal destro è Aletto, Tesifón è nel mezzo. E poi stette in un lungo silenzio. Le tre fiere erano del corpo tutto sangue e il petto si fendevan con le unghie.

Se la coscienza non è della coscienza non v’è esperienza che si rappresenta, e se esse invocano Medusa, che potenzia ciò che non ha più nulla nella materia che sentenzia lo sguardo oltre il presente della coscienza, esse sperano di togliere in Tesëo anche il nostro assalto, che la morte strazia la speranza nel tentar l’eterno guardare.

Volgiti dall’abisso disse egli a me e non guardare che il Gorgón si mostra, e tu non lo vedessi, che la curiosità appare dell’inganno della coscienza e dei sensi, e non v’è scampo per tornar in suo uso, per capir e parler del capir, senza più tornar, da questo cerchio dell’inferno, del muro che t’immagina l’interno.

O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto il velame de li versi strani.

E di quel posto che le sponde di tempo e spazio in de le folla che né fa sì strano sentir, come pensiero senza gravità, rimbalzava il sentir stesso. E al fragor si stinse tutto il luogo, e mille e mille le anime distrutte vedo fuggir così dinnanzi a chi passava sullo Stige con le piante asciutte, e di parole sante caccio l’altrui invereconda tracotanza delle anime che oltracotanza fanno sapienza, e impediscono al nostro passo la conoscenza che l’altrui somma sapienza da sostanza.

Si apersero le mura del fosco loco, e la sostanza che mi si aprò dinnanzi la vedem io e il mio maestro. Era pien di duolo e tormento. Dove la guerra va oltre il saper e la coscienza stagna, tra l’inganno della coscienza e della scienza. E dove le anime dubbia sii ammaestrate e capovolte, e dell’immagina oltre l’immagine lasciate. Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, sì com’ a Pola, preso del Carnaro, ch’Italia chiude e i suoi termini bagna. E dalla arche veniva fuori le fiamme e del color il calore. E io Maestro, quali son quelle genti che seppellite dentro da quelle arche si fan sentir coi sospiri dolenti. Qui son li eresïarche con loro seguaci, d’ogne setta, e molto più che non credi son le tombe carche. Se di storia non v’è che morte della morte, che sì danna un sol mistero l’accompagna che di credere la paura l’unica sorte che l’acconpagna come strega che spaura il potere che l’appaura, d’ogni tempo è sorte vana, che li martiri son mistero del bene e il male che l’impaura, senza sosta ma non l’inganna, strana storia è quel che dura, come il sogno senza arroganza che pulzel fece speranza dentro il sempre mondo di paura e rappresentanza della sostanza del demonion che la’ccompagna per la lagnanza della storia, che non sa del pentimento che l’arroganza, e del demonio si servo e riverenza, per paura della speranza. Che dal fede è sol certezza di chi non s’inganna nell’ingannanza. E per questo sol si salva. e crede l’altra sorte quel che sa solo di parvenza, e di coscienza che s’inganna. L’uomo tutto di rappresentanza.

Simile qui con simile è sepolto, e i monimenti son più e men caldi.

 E poi ch’à man destra si fu volto, passammo tra i martíri e li alti spaldi.

 

 


 

 


Cos’è che vi dispiega e dura, che si lettore con Dante e Virgilio, non fu così dura. Se del tempo e lo spazio io sono di tanto, ancor qualche brano mi fa da lettura. Eppur di tutto io non posso dir che s’avanza, perché potrei dire ancora tanto con Dante e Virgilio, che più di tanto hanno. Se gli occhi son buoni e la coscienza cotanto, che tu sia sordo cieco o muto, il poetar ti è sempre suono acuto, che tu che continui a legger la divin commedia di Dante, non star nel gioco del vano rincanto, e non soffrir dei dubbi che essa non hanno, perché del canto ch’è del suo tempo, è più profondo il senso che l’incanto. Io dico che leggo quanto tu leggerai quel che dico che lessi quel che io scrissi, con Dante e “Virgilio”, che son per presso, chi tu lettore io qui v’ho detto, che sia io scrittore del poetar narratore. Con Dante il futuro e il di, appresso, che l’occhio del pensier non ti muoia nell’essere troppo presso, se dell’oggi non v’è domani, il già di tutto è stato detto, e se il futuro è stato, la coscienza oggi ha il significato, che di poetar il cor l’accompagna, non per cosa strana, ma d’abbondanza vera.

Se io scriver tu saprai, ciò che appare non sarà di vanto, per tutto il perso vanto del narrar dell’oggi, che mancò d’autore cosi tanto, da sembrar sovrano sol l’inganno dell’incanto, per dir le cose in modo così falso che poco hanno a che far col dire strano. Che appar nello scrittore sovrano, del fare e dir del modo strano, che strano non appare per l’ingan sovrano del fare vano del lettor che si lagna del fare vero. Perché ciò che l’accompagna è l’amara solitudine dell’abbondanza del far qualunque in ogni ovunque, per dir con più e più ancor, che l’accompagna lo sostanzia, nell’irriveranza della stessa lagna. Che lagna l’emozionar per vanto di sapienza stanca che abbranca la menzogna per rimostranza d’ignoranza. Che d’ignoranza non c’è che Socrate, che non abbonda e non stanca chi con l’emozione da sì sostanzia anche con la partecipazione di pensier ed esperienza della coscienza che così non si stanca. Che della fede v’è più che pensiero, sì di Dante e Virgilio e di me il poetar fuor dalla convenienza della lagna, che per menzogna ogni tempo stagna per irriveranza della sostanzia che s’inganna o inganna il soffrir stanco del giorno al finir che non s’accompagna. Del giorno vero che si compagna resta l’amor sincero con cui si guarda, che del lettor del modo non si contenda perché ciò che virtù fa virtuale non l’accompagna.

Ed elli a te. Perché tanto delira, disse, lo ‘ngegno tuo da quel che sòle? o ver la mente dove altrove mira? Non ti rimembra di quelle parole con le quali la tua Etica per tratta le tre disposizion che ‘l ciel non vole, incontenenza, malizia e la matta bestialitade? e come incontenenza men Dio offende e men biasimo accatta?

E se la virtuale sentenza di questo luogo senza luogo appare in questo tempo, lo scrivere non può morire con l’inconscio che non più si move dell’omo che senza inconscio, per coscienza incosciente appare, ad apparecchiare il mondo senza la sostanza che accompagna l’esperienza della coscienza e che controlla il pensier latente del subcosciente e che significa il significante se non lo sparir stesso dell’omo, che tutto sa e niente apprende, e quel che fa non sa che farne, se non soltanto la paura per la morte impellente. Se il virtuale è virtù è già scomparso nella scrittura che dell’immagini è cosa dura poch’e meno de lo spazio e tempo che perdura. E se di leggere è modo novo il significato è sempre stato dell’essere cosciente o vero o real sincero. Tutto il resto è van’ pensiero, che tutto prende e non vuol più essere. E la parola più non parla, perché la voce non racconta, e il suono orale della storia non più tocca con costanza né il pensiero, né la coscienza. “O sol che sani ogne vista turbata, tu mi contenti sì quando tu solvi, che non men che saver, dubbiar m’aggrata.

Ancora in dietro un poco ti rivolvi, diss’io, là dove di’ ch’usura offende la divina boutade, e ‘l groppo solvi.

Filosofia, mi disse, a chi la ‘ntende, nota, non pure in una sola parte, come natura lo suo corso prende dal divino ’ntelletto e da sua arte, e se tu ben la tua Fisica note, tu troverai, non dopo molte carte, che l’arte vostra quella, quanto pote, segue, come ‘l maestro fa ‘l discendente, sí che vostr’ arte a Dio quasi è nipote.

Da queste due, se tu ti rechi a mente lo Genesi dal principio, convene prendere sua vita e avanzar la gente, e perché l’usuriere altra via tene, per sé natura e per la sua seguace dispregia, poi ch’in altro pon la spene.

Ma seguimi  ormai che ‘l gir mi piace, ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta, e ‘l Carro tutto sovra ‘l Coro giace, e ‘l balzo via là oltra si dismonta.”

 

Ma lasciamo lo inferno Dantesco, e lasciamolo con l’allegoria dell’omo che di danna, sia esso maschio o femmina. “Lucifero con Giuda, ci sposò, né, sí chinato, lí fece dimora, e come albero in nave si levò.”

 

Ora non resta che attraversare il Purgatorio e trovar riposo e fine alla storia, nel paradiso, nel canto xxx del paradiso, di Beatrice e Dante e San Bernardo.

 

 

Paradiso: Canto XXX

   Forse semilia miglia di lontano
ci ferve l'ora sesta, e questo mondo
china già l'ombra quasi al letto piano,
   quando 'l mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch'alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo;
   e come vien la chiarissima ancella
del sol piú oltre, cosí 'l ciel si chiude
di vista in vista infino a la più bella.
   Non altrimenti il trïunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude,
   a poco a poco al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Bëatrice
nulla vedere e amor mi costrinse.
   Se quanto infino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda,
poca sarebbe a fornir questa vice.
   La bellezza ch'io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda.
   Da questo passo vinto mi concedo
piú che già mai da punto di suo tema
soprato fosse comico o tragedo:
   ché, come sole in viso che piú trema,
cosí lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema.
   Dal primo giorno ch'i' vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m'è il seguire al mio cantar preciso;
   ma or convien che mio seguir desista
piú dietro a sua bellezza, poetando,
come a l'ultimo suo ciascuno artista.
   Cotal qual io lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
l'ardua sua matera terminando,
   con atto e voce di spedito duce
ricominciò: «Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch'è pura luce:
   luce intellettual, piena d'amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.
   Qui vederai l'una e l'altra milizia
di paradiso, e l'una in quelli aspetti
che tu vedrai a l'ultima giustizia».
   Come súbito lampo che discetti
li spiriti visivi, sí che priva
da l'atto l'occhio di più forti obietti,
   cosí mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m'appariva.
   «Sempre l'amor che queta questo cielo
accoglie in sé con sí fatta salute,
per far disposto a sua fiamma il candelo».
    Non fur piú tosto dentro a me venute
queste parole brievi, ch'io compresi
me sormontar di sovra mia virtute;
   e di novella vista mi raccesi
tale, che nulla luce è tanto mera,
che li occhi miei non si fosser difesi;
   e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.
   Di tal fiumana uscian faville vive,
e d'ogne parte si mettien ne' fiori,
quasi rubin che oro circunscrive;
   poi, come inebriate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge;
e s'una intrava, un'altra n'uscia fòri.
   «L'alto disio che mo t'infiamma e urge,
d'aver notizia di ciò che tu vei,
tanto mi piace piú quanto piú turge;
   ma di quest'acqua convien che tu bèi
prima che tanta sete in te si sazi.»
Cosí mi disse il sol de li occhi miei.
   Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi
ch'entrano ed escono e 'l rider de l'erbe
son di lor vero umbriferi prefazi;
   non che da sé sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
che non hai viste ancor tanto superbe».
   Non è fantin che sí súbito rua
col vólto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l'usanza sua,
   come fec' io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l'onda
che si deriva perché vi s'immegli.
   E sí come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
di sua lunghezza divenuta tonda.
   Poi, come gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
la sembianza non sua in che disparve,
   cosí mi si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sí ch'io vidi
ambo le corti del ciel manifeste.
   O isplendor di Dio, per cu' io vidi
l'alto triunfo del regno verace,
dammi virtú a dir com' io il vidi!
   Lume è là sú che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
   E' si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura:
   fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
che prende quindi vivere e potenza.
   E come clivo in acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi addorno,
quando è nel verde e ne' fioretti opimo,
   sí, soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in piú di mille soglie
quanto di noi là sú fatto ha ritorno.
   E se l'infimo grado in sé raccoglie
sí grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l'estreme foglie!
   La vista mia ne l'ampio e ne l'altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
e ‘l quanto e 'l quale di quella allegrezza.
   Presso e lontano, lí, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva.
   Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna,
   qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Beatrice, e disse: «Mira
quanto è 'l convento de le bianche stole!
   Vedi nostra città quant' ella gira!
Vedi li nostri scanni sí ripieni,
che poca gente piú ci si disira.
   E in quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v'è sú posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
   sederà l'alma, che fia giú agosta,
de l'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia
verrà in prima ch'ella sia disposta.
   La cieca cupidigia che v'ammalia,
simili fatti v'ha al fantolino,
che muor per fame e caccia via la balia;
   e fia prefetto nel fòro divino,
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino.
   Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio: ch'el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,
   e farà quel d'Alagna intrar piú giuso».

 

XXXI

  In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa;
   ma l'altra, che volando vede e canta
la gloria di colui che la 'nnamora
e la bontà che la fece cotanta,
   sí come schiera d'ape, che s'infiora
una fiata e una si ritorna
là dove suo laboro s'insapora,
   nel gran fior discendeva che s'addorna
di tante foglie, e quindi risaliva
là dove 'l suo amor sempre soggiorna.
   Le facce tutte avean di fiamma viva,
e l'ali d'oro, e l'altro tanto bianco,
che nulla neve a quel termine arriva.
   Quando scendean nel fior, di banco in banco
porgevan de la pace e de l'ardore
ch'elli acquistavan ventilando il fianco.
   Né l'interporsi tra 'l disopra e 'l fiore
di tanta moltitudine volante
impediva la vista e lo splendore;
   ché la luce divina è penetrante
per l'universo secondo ch'è degno,
sí che nulla le puote essere ostante.
   Questo sicuro e gaudioso regno,
frequente in gente antica e in novella,
viso e amore avea tutto ad un segno.
   O trina luce, che 'n unica stella
scintillando a lor vista, sí li appaga!
guarda qua giuso a la nostra procella!
   Se i barbari, venendo da tal plaga
che ciascun giorno d'Elice si copra,
rotante col suo figlio ond' ella è vaga,
   veggendo Roma e l'ardua sua opra,
stupefaciensi, quando Laterano
a le cose mortali andò di sopra;
    io, che al divino da l'umano,
a l'etterno dal tempo era venuto,
e di Fiorenza in popol giusto e sano,
   di che stupor dovea esser compiuto!
Certo tra esso e 'l gaudio mi facea
libito non udire e starmi muto.
   E quasi peregrin che si ricrea
nel tempio del suo vòto riguardando,
e spera già ridir com' ello stea,
   su per la viva luce passeggiando,
menava io li occhi per li gradi,
mo su, mo giú e mo recirculando.
   Vedëa visi a carità süadi,
d'altrui lume fregiati e di suo riso,
e atti ornati di tutte onestadi.
   La forma general di paradiso
già tutta mïo sguardo avea compresa,
in nulla parte ancor fermato fiso;
   e volgeami con voglia riaccesa
per domandar la mia donna di cose
di che la mente mia era sospesa.
   Uno intendëa, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice e vidi un sene
vestito con le genti gloriose.
   Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.
   E «Dov' è ella?», sùbito diss'io.
Ond' elli: «A terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del loco mio;
   e se riguardi su nel terzo giro
dal sommo grado, tu la rivedrai
nel trono che suoi merti le sortiro».
   Sanza risponder, li occhi sù levai,
e vidi lei che si facea corona,
reflettendo da sé li etterni rai.
   Da quella regïon che piú sú tona
occhio mortale alcun tanto non dista,
qualunque in mare piú giú s'abbandona,
   quanto lí da Beatrice la mia vista;
ma nulla mi facea, ché sua effige
non discendea a me per mezzo mista.
   «O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
in inferno lasciar le tue vestige,
   di tante cose quant' i' ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
riconosco la grazia e la virtute.
   Tu m'hai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt' i modi
che di ciò fare avei la potestate.
   La tua magnificenza in me custodi,
sì che l'anima mia, che fatt'hai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi.»
   Cosí orai; e quella, sí lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò a l'etterna fontana.
   E 'l santo sene: «Acciò che tu assommi
perfettamente», disse, «il tuo cammino,
a che priego e amor santo mandommi,
   vola con li occhi per questo giardino;
ché veder lui t'acconcerà lo sguardo
più al montar per lo raggio divino.
   E la regina del cielo, ond'io ardo
tutto d'amor, ne farà ogne grazia,
però ch'i' sono il suo fedel Bernardo».
   Qual è colui che forse di Croazia
viene a veder la Veronica nostra,
che per l'antica fame non sen sazia,
   ma dice nel pensier, fin che si mostra:
«Segnor mio Gesù Cristo, Dio verace,
or fu sí fatta la sembianza vostra?»:
   tal era io mirando la vivace
carità di colui che 'n questo mondo,
contemplando, gustò di quella pace.
   «Figliuol di grazia, quest' esser giocondo»,
cominciò elli, «non ti sarà noto,
tenendo li occhi pur qua giù al fondo;
   ma guarda i cerchi infino al più remoto,
tanto che veggi seder la regina
cui questo regno è suddito e devoto.»
   Io levai li occhi; e come da mattina
la parte oriental de l'orizzonte
soverchia quella dove 'l sol declina,
   cosí, quasi di valle andando a monte
con li occhi, vidi parte ne lo stremo
vincer di lume tutta l'altra fronte.
   E come quivi ove s'aspetta il temo
che mal guidò Fetonte, piú s'infiamma,
e quinci e quindi il lume si fa scemo,
   cosí quella pacifica oriafiamma
nel mezzo s'avvivava, e d'ogne parte
per igual modo allentava la fiamma.
   E a quel mezzo, con le penne sparte,
vid' io piú di mille angeli festanti,
ciascun distinto di fulgore e d'arte.
   Vidi à lor giochi quivi e à lor canti
ridere una bellezza, che letizia
era ne li occhi a tutti li altri santi;
   e s'io avessi in dir tanta divizia
quanta ad imaginar, non ardirei
lo minimo tentar di sua delizia.
   Bernardo, come vide li occhi miei
nel caldo suo caler fissi e attenti,
li suoi con tanto affetto volse a lei,
   che ' miei di rimirar fe’ piú ardenti.

XXXII

  Affetto al suo piacer, quel contemplante
libero officio di dottore assunse,
e cominciò queste parole sante:
   «La piaga che Maria richiuse e unse,
quella ch'è tanto bella da' suoi piedi
è colei che l'aperse e che la punse.
   Ne l'ordine che fanno i terzi sedi,
siede Rachel di sotto da costei
con Beatrice, sí come tu vedi.
   Sarra e Rebecca, Iudít e colei
che fu bisava al cantor che per doglia
del fallo disse “Miserere me”',
   puoi tu veder cosí di soglia in soglia
giú digradar, com' io ch'a proprio nome
vo per la rosa giú di foglia in foglia.
   E dal settimo grado in giú, sí come
infino ad esso, succedono Ebree,
dirimendo del fior tutte le chiome;
   perché, secondo lo sguardo che fee
la fede in Cristo, queste sono il muro
a che si parton le sacre scalee.
   Da questa parte onde 'l fiore è maturo
di tutte le sue foglie, sono assisi
quei che credettero in Cristo venturo;
   da l'altra parte onde sono intercisi
di vòti i semicirculi, si stanno
quei ch'a Cristo venuto ebber li visi.
   E come quinci il glorioso scanno
de la donna del cielo e li altri scanni
di sotto lui cotanta cerna fanno,
   cosí di contra quel del gran Giovanni,
che sempre santo 'l diserto e 'l martiro
sofferse, e poi l'inferno da due anni;
   e sotto lui cosí cerner sortiro
Francesco, Benedetto e Augustino
e altri fin qua giú di giro in giro.
   Or mira l'alto proveder divino,
ché l'uno e l'altro aspetto de la fede
igualmente empierà questo giardino;
   e sappi che dal grado in giú che fiede
a mezzo il tratto le due discrezioni,
per nullo proprio merito si siede,
   ma per l'altrui, con certe condizioni;
ché tutti questi son spiriti assolti
prima ch'avesser vere elëzioni.
   Ben te ne puoi accorger per li volti
e anche per le voci puerili,
se tu li guardi bene e se li ascolti.
   Or dubbi tu e dubitando sili;
ma io discioglierò 'l forte legame
in che ti stringon li pensier sottili.
   Dentro a l'ampiezza di questo reame
casüal punto non puote aver sito,
se non come tristizia o sete o fame;
   ché per etterna legge è stabilito
quantunque vedi, sí che giustamente
ci si risponde da l'anello al dito.
   E però questa festinata gente
a vera vita non è sine causa
intra sé qui più e meno eccellente.
   Lo rege per cui questo regno pausa
in tanto amore e in tanto diletto,
che nulla volontà è di piú ausa,
   le menti tutte nel suo lieto aspetto
creando, a suo piacer di grazia dota
diversamente; e qui basti l'effetto.
   E ciò espresso e chiaro vi si nota
ne la Scrittura santa in quei gemelli
che ne la madre ebber l'ira commota.
   Però, secondo il color d'i capelli
di cotal grazia l'altissimo lume
degnamente convien che s'incappelli.
   Dunque, sanza mercé di lor costume,
locati son per gradi differenti,
sol differendo nel primiero acume.
   Bastavasi ne' secoli recenti
con l'innocenza, per aver salute,
solamente la fede d'i parenti;
   poi che le prime etadi fuor compiute,
convenne ai maschi a l'innocenti penne
per circuncidere acquistar virtute;
   ma poi che 'l tempo de la grazia venne,
sanza battesmo perfetto di Cristo
tale innocenza là giú si ritenne.
   Riguarda omai ne la faccia ch’a Cristo
piú si somiglia, ché la sua chiarezza
sola ti può disporre a veder Dio».
   Io vidi sopra lei tanta allegrezza
piover, portata ne le menti sante
create a trasvolar per quella altezza,
   che quantunque io avea visto davante,
di tanta ammirazion non mi sospese,
né mi mostrò di Dio tanto sembiante.
   E quello amor che primo lí discese,
cantando “Ave, Maria, gratia plena”,
dinanzi a lei le sue ali distese.
   Rispuose a la divina cantilena
da tutte parti la beata corte,
sí ch'ogne vista sen fe’ piú serena.
   «O santo padre, che per me comporte
l'esser qua giú, lasciando il dolce loco
nel qual tu siedi per etterna sorte,
   qual è quell' angel che con tanto gioco
guarda ne li occhi la nostra regina,
innamorato sí che par di foco?»
   Cosí ricorsi ancora a la dottrina
di colui ch'abbelliva di Maria,
come del sole stella mattutina.
   Ed elli a me: «Baldezza e leggiadria
quant' esser puote in angelo e in alma,
tutta è in lui; e sí volem che sia,
   perch' elli è quelli che portò la palma
giuso a Maria, quando 'l Figliuol di Dio
carcar si volse de la nostra salma.
   Ma vieni omai con li occhi sí com' io
andrò parlando, e nota i gran patrici
di questo imperio giustissimo e pio.
   Quei due che seggon là su piú felici
per esser propinquissimi ad Augusta,
son d'esta rosa quasi due radici.
   Colui che da sinistra le s'aggiusta
è il padre per lo cui ardito gusto
l'umana specie tanto amaro gusta:
   dal destro vedi quel padre vetusto
di Santa Chiesa, a cui Cristo le chiavi
raccomandò di questo fior venusto.
   E quei che vide tutti i tempi gravi,
pria che morisse, de la bella sposa
che s'acquistò con la lancia e coi clavi,
   siede lungh'esso; e lungo l'altro posa
quel duca sotto cui visse di manna
la gente ingrata, mobile e retrosa.
   Di contr' a Pietro vedi sedere Anna,
tanto contenta di mirar sua figlia,
che non move occhio per cantare osanna;
   e contro al maggior padre di famiglia
siede Lucia, che mosse la tua donna,
quando chinavi, a rovinar, le ciglia.
   Ma perché 'l tempo fugge che t'assonna,
qui farem punto, come buon sartore
che com' elli ha del panno fa la gonna;
   e drizzeremo li occhi al primo amore,
sì che, guardando verso lui, penètri
quant' è possibil per lo suo fulgore.
   Veramente, ne forse tu t'arretri
movendo l'ali tue, credendo oltrarti,
orando grazia conven che s'impetri,
   grazia da quella che puote aiutarti;
e tu mi seguirai con l'affezione,
sí che dal dicer mio lo cor non parti».
   E cominciò questa santa orazione.

XXXIII

  «Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta piú che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio,
   tu se' colei che l'umana natura
nobilitasti sí, che 'l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
   Nel ventre tuo si raccese l'amore,
per lo cui caldo ne l'etterna pace
cosí è germinato questo fiore.
   Qui se' a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra i mortali,
se' di speranza fontana vivace.
   Donna, se' tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disianza vuol volar sanz'ali.
   La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al dimandar precorre.
   In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s'aduna
quantunque in creatura è di bontate.
   Or questi, che da l'infima lacuna
de l'universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
   supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
piú alto verso l'ultima salute.
   E io, che mai per mio veder non arsi
piú ch'i' fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
   perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co' prieghi tuoi,
sí che 'l sommo piacer li si dispieghi.
   Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
   Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!»
   Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l'orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;
   indi a l'etterno lume si drizzaro,
nel qual non si dèe creder che s' invii
per creatura l'occhio tanto chiaro.
   E io ch'al fine di tutt' i disii
appropinquava, sí com' io dovea,
l'ardor del desiderio in me finii.
   Bernardo m'accennava, e sorridea,
perch' io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea;
   ché la mia vista, venendo sincera,
e piú e piú intrava per lo raggio
de l'alta luce che da sé è vera.
   Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che 'l parlar nostro, ch'a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.
   Qual è colui che somniando vede,
che dopo il sogno la passione impressa
rimane, e l'altro a la mente non riede,
   cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visione ed ancor mi distilla
nel cor il dolce che nacque da essa.
   Cosí la neve al sol si disigilla;
cosí al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
   O somma luce che tanto ti levi
da' concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
   e fa la lingua mia tanto possente,
ch'una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
   ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
piú si conceperà di tua vittoria.
   Io credo, per l'acume ch'io soffersi
del vivo raggio, ch'i' sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
   E' mi ricorda ch'io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch'i' giunsi
l'aspetto mio col valore infinito.
   Oh abbondante grazia ond' io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
   Nel suo profondo vidi che s'interna
legato con amore in un volume,
ciò che per l'universo si squaderna;
   sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch'i' dico è un semplice lume.
   La forma universal di questo nodo
credo ch'i' vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch'i' godo.
   Un punto solo m'è maggior letargo
che venticinque secoli a la 'mpresa,
che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo.
   Cosí la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faciesi accesa.
   A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
   però che 'l ben, ch'è del volere obietto,
tutto s'accoglie in lei; e fuor di quella
è defettivo ciò ch'è lí perfetto.
   Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch'io ricordo, che d'un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.
   Non perché più ch'un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch'io mirava,
che tal è sempre qual s'era davante;
   ma per la vista che s'avvalorava
in me guardando, una sola parvenza
mutandom' io, a me si travagliava.
   Ne la profonda e chiara sussistenza
de l'alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d'una contenenza;
   e l'un da l'altro com’iri da iri
parea reflesso, e 'l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
   Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch' i' vidi,
è tanto, che non basta a dicer «poco».
   O luce etterna che sola in te sidi,
sola t'intendi, e da te intelletta
e intendente te, ami e arridi!
   Quella circulazion che sí concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
   dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige;
per che 'l mio viso in lei tutto era messo.
   Qual è 'l geomètra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond'elli indige,
   tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;
   ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
   A l'alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e 'l velle,
sí come rota ch'igualmente è mossa,
   l'amor che move il sole e l'altre stelle.

 

 

seppur accosta questo pur accanto, eppur piace questo mio canto.

 

 

 

3 Aprile 2004

 

 

 

 

 

 

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