Patrizio Marozzi - Lettura di poesie giovanili, pag. 51

 

 

Lettura di poesie giovanili

 

 

 

 


Chi son, sono un poeta, cosa faccio scrivo e come vivo, vivo. Da questa parte dell’Aria dell’opera di Puccini, la Bohème, nell’interpretazione di Mirella freni e Luciano Pavarotti, con i Berliner  Philharmoniker, diretti Herbert von Karajan, ho fatto un’opera di musica elettronica della durata di 61 minuti e 52 secondi, dal titolo sono un poeta, opera di musica elettronica numero 2. ma non quest’opera è l’argomento, bensì l’opera contemporanea espressa dalla poesia, ché forse al di là della classicità dell’opera. Solo in quest’ottica può essere vista la contemporaneità di un autore classico, in quanto per questo autore. La cosa contemporanea di quel che è scritto nell’opera di Puccini, può essere espressa bene nel racconto, nel dire che quelle parole le ho scritte sul mio biglietto da visita, e che non solo non sono state riconosciute, ma in un’epoca che ha riposto la fede negli oggetti, il solo concetto o concettualità espressa dal comunicare il proprio recapito per mezzo di un biglietto da visita – forse siffatto – ha chiaramente dimostrato, l’inadeguatezza dell’intelligenza contemporanea, sull’uso e il significato di un biglietto da visita, tanto da essere costretto a modificarlo, più in senso generico e apparentemente convenzionale, quanto obbligatoriamente informale. Questa è un’opera contemporanea, voglio dire il biglietto da visita, non tanto la risposta sconclusionata del mondo, sia esso italiano, per nazionale o altro. In effetti non so cosa voi possiate ravvisare in questo, se il poeta o la sua azione. E a tal proposito vorrei dire, che l’ungi da chiunque l’intenzione della biografia, che se ne parla se ne parla nel suo proposito d’arte e basta. Che se la finisca con quell’ipotesi idiota, che se per ipotesi si può copiare anastaticamente l’opera di un poeta, se ne possa anche copiare la vita, da qualche parassita idiota.

E allora nella lettura delle poesie giovanili, c’è l’imberbe perspicacia contemporanea, quanto la funzione della ricerca, del mondo stesso.

Posso dire che il mio atto poetico, è stato quando all’ottuso sistema del breve periodo dell’asilo, nella mia già profonda, e poco conformista cristianità, obbiettavo alle suore che volevano farmi copiare nel modo, le lettere dell’alfabeto, così come erano scritte sull’abbecedario, che non ricordo se già aveva anche le immagini. Comunque il mio convincimento e il mio rifiuto, era nel fatto dichiarato che io dovessi esprimere la mia identità e  non copiare come un imbecille, e restavo lì a scriverle come volevo io anche se mi si impediva di andare a giocare. Il mio primo atto di poesia consapevole, fu nei primi anni di scuola elementare, quanto in ragione di una bambina che non riusciva a leggere e scrivere: dichiarai a tutta la classe e alla maestra che il leggere e scrivere erano una cosa che non poteva essere obbligatoria, e che per tale fatto era un abuso e un sopruso e che avevano ragione i topi che mangiavano i libri nell’armadio della classe. Non ricordo se fu quel giorno, ma mi volevo opporre allo scendere le scale della scuola che erano ritenute dai maestri poco sicure, ed era meglio non scenderle tutti insieme: volevo che mi venissero a prendere in altro modo, per scendere.  Anticipavo di alcuni secoli le lotte di classe e le amenità del femminismo. Anche in ragione del fatto credo, che io ero gia un assiduo lettore di fumetti da molto prima che sapessi leggere e scrivere, e che avevo una già spiccata capacità nel leggere il significato delle immagini. Avevo già inventato il cinema muto. E a colori, come i dipinti. A questo punto è bene dire qualche cosa sulla mia storia nella storia, ma si badi bene, che la mia peculiarità è la mia peculiarità. A memoria dei ricordi, dai miei bisnonni in poi, con certezza, dall’unità d’Italia ad oggi, il mio status storico non ha mai fato parte né di nobili con le palle di merito, né dei contadini, e i suoi momenti economici sono stati sempre legati all’agire della persona, mai ad un’agire borghese che ha trovato consenso e gratificazione e convenienza nel potere dominante. Se già persi stemmi e titoli già prima, e costumi convenzionati, l’economia di questa storia è stata affidata alla libera professione, ch’è stata anche a servizio dello stato italiano. Quindi caro Pasolini, giacché solo a te posso rivolgermi in questo caso, unico intellettuale italiano contemporaneo, e tra quelli che hanno detto qualcosa, la lotta di classe e l’imbecillità, che tanto tu “non capivi” è qualcosa con cui mi tocca fare i conti, ma non è certo la parte di qualità di me. Diciamo chiaramente che gli Italiani sono circa 144 anni indietro rispetto alle mie poesie giovanili. Alla mia peculiarità. Si potrebbe dire che fu l’influenza di Napoleone in Italia, ma di fatto te la dico nel modo più “vero” che l’Italia è fatta di sì santi poeti e navigatori, ma è dall’unione di queste forma mentis, la vera libertà della forma mentis di un Italiano. E allora torniamo alle mie poesie giovanili. La cosa che mi ha interessato nel mio primo periodo accademico, era il fatto che fosse più interessante il come formavo i segni sulla carta, più in definitiva di quel che scrivevo, ma quando dico ciò voglio dire che mi interessava la ricerca di quel che accadeva se scrivevo in fretta o lentamente, o inserire nuovi segni espressivi, nel modo di scrivere una lettera, i miei esperimenti calligrafici erano sempre più avanguardistici. E dopo il mio primo sciopero bianco, nel senso che si era a scuola ma ci si rifiutava di studiare, poco dopo creai il mio alfabeto personale, su quello latino ho costruito, per ogni lettera un altro segno rappresentativo, con cui scrivere, interi periodi, e la mia prima poesia se non ricordo male la scrissi in questo alfabeto, ed era di carattere ideale amoroso, ma che contemplava una bambina esistente, o donna. Non so se in questo fui influenzato, da un tizio che compariva in televisione, non ricordo, o i miei ricordi mi dicono, prima o dopo carosello, che recitava della poesie mi sembra pure sputacchiando, di nome Ungaretti, sinceramente la consequenzialità è stata del tutto spontanea. Comunque se pur mi è rimasta quella poesia, la traducibilità è problematica per me e credo quasi impossibile per altri:

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in effetti in quel periodo, l’idealità iniziava a esprimersi anche per mezzo delle forme del corpo femminile, che acquisiva piacevolezza nella forma e nel tatto, che di fatto era un palpeggiamento estemporaneo.

Non so se si può dire che in quel periodo ci fosse un vero impegno civile nella mia generazione, ma di fatti discutevamo, si può dire sui problemi, spesso anche in modo trans generazionale. Durante l’anno capitava spesso che si facessero degli scioperi a scuola, ma è bene chiarire, che in definitiva il nostro protestare poco aveva a che fare con il 68 di poco prima, né con il terrorismo che imperversava e in definitiva era un esprimersi su ciò che era giusto e ciò che non lo era. Almeno per me, che decisamente avversavo l’accademismo, già più di ora, il motivo dello sciopero non era un semplice evitare al noi della scuola, ma proprio un volere realizzare, quel che ci eravamo proposti con lo sciopero. E posso dire che si finiva con il realizzarlo, anche al di là dell’ottusità dell’autorità accademica, perché erano motivi ineludibile la realtà, anche quando le contrattazione tra preside e scioperanti, potevano finire con solo quattro persone a scioperare, insieme al sottoscritto. Era un gruppo che non disdegnava l’individualità. Anche quando mi capitava che si dovesse stabilire la virilità attraverso la lunghezza dei peli del pube, preso e steso, ma ciò possiamo definirlo una licenza poetica del tempo. Insomma tra la lettura critica della critica musica, del rock più autentico e per ciò meno commerciale possibile, nella personalità dell’autore, che finiva sempre per evidenziarsi nei primi album, tanto che in senso critico incominciai decisamente a rinunciare alla critica, come determinazione del valore di un un’opera. E la squadra di calcio in seria A, mi esprimevo così sulla scuola: …la scuola forse mi ha rovinato l’esistenza, ed è meglio aprire un discorso a parte: adesso come adesso la scuola è un’istituzione, confusionaria ed alienante, alienante perché certi professori usano metodi d’imposizione nei confronti degli alunni, cercano di far pensare all’alunno come la pensano loro, in parole povere vorrebbero far pensare l’alunno con il loro cervello, ed infatti ogni volta l’alunno esprime un proprio pensiero non conciliante con quello del professore si hanno le conseguenze che si hanno.

Componimento epico poetico del 25 Novembre 1977

 

Amore

 Ti vidi: Ti vidi

come un fulmine a cel sereno.

Un Sogno: Un Sogno

che sembrava divenir realtà

ora svanisce e se ne va, per poi

tornare e restar con me.

 

Sempre in quel giorno

 

Speranza

 

Ti bramo,

poi ti supplico ti adoro

            e ti amo.

 

 

Sentimento

 

Tenerezza: Tenerezza

provi a veder quella Bellezza,

che con forza sconosciuta

Ti ruba il cuor e fa nascer

L’amor

 

 

         Uffa

            Uffa solo uffa

                       si

         può

                rispondere,

perché in questo porco mondo

chi non risponde

Uffa…………Uffa!!!!

 

 

Non so dire sinceramente quanta della mia esperienza si sia coniugata con quel che si leggeva a scuola, che diciamola, si sperimentava molto, e questo era positivo per chi ne era capace, in un testo di invito alla lettura di quegli anni, c’era tutto il contemporaneo e moderno, dal e recente moderno di tutto il mondo: e tutta roba forte e impegnata, tutta tutte i greci e latini e Dante, dal Mahabharata, a tutti i miti della creazione, da Camus a Dario Fo e Enzo Jannacci, da Andersen a Rodari, da Svevo a Moravia, da Orwell a Solzenitsys, da Pirandello a Trilussa, da Sciascia a Malcom X, a Pochi-I alla bibbia, ci mancano solo Leopardi e Calvino, il primo credo solo perché è da sempre stato citato, il secondo non so. Non so a scuola quanta attenzione abbia prestato a questo libro. Comunque a 14 anni finalmente ero fuori dal mondo accademico, se non sbaglio poco dopo l’omicidio di Aldo Moro.

Finalmente potevo smettere di tagliarmi i capelli da solo e lasciarli crescere, potevo imbattermi nel tempo e nell’esperienza, e capire, potevo leggere tutte le riviste che volevo, scientifiche o altro, e scoprire le cose per quel che erano. Credo che in quel periodo lo stato d’animo degli individui anche quando stavano in gruppo, era sempre accompagnato dalla crisi esistenziale, la crisi esistenziale era una sorta di stato d’animo in cui l’adolescente permaneva in attesa di capirne il perché, e pensava o ci provava, non è che fossero poi indispensabilmente diffuse, ed erano legate al modo di esprimersi della persona, non è detto che si dovesse essere pallosi per forza, anzi la qual cosa non è che fosse determinante per dire di avere una crisi esistenziale: Oggi sto in crisi. Insomma la vita continuava, tra chi finiva a lavorare, chi faceva finta di continuare a studiare nella scuola, e chi si dilettava nell’inventarsi le giornate, tra un motorino da modificare, o una radio da aprire. Alcuni finirono per strada e altri si ripresero dalla strada. Ma stiamo sulle poesie giovanili, furono periodi di fermento, e in mezzo a tutto questo e alle riviste che non erano porno, per i contemporanei, ma piene di eterogenea conoscenza. Il primo libro che lessi senza annoiarmi fu che cos’è la psicanalisi, segui From e il filone dei miei libri comprati e scelti da leggere, ma ciò sarà particolarmente intenso nella lettura, alla fine di questo decennio, mio, e tutto il prossimo; ma la cosa positiva di questo inizio fu che il mio conoscere pratico, non era lontano dal mio interesse, diciamo puramente intellettuale, “ questa cosa poteva avvenire liberamente e come io volevo”, ma si badi bene in un costrutto della mia intelligenza, non nelle agevolazioni o particolari consensi economici. A diciassette anni comunque ero già patentato e guidavo la mia prima due ruote motorizzata, ma mi ero dovuto tagliare i capelli, ma non so se c’entrasse qualcosa la moto con i capelli, fu una cosa che stabilii io. Adesso andrò a cercare le altre poesie giovanili da leggere.

 

Né ho trovate? Ho un pacco di fogli tanto così, di poesie, ma le poesie giovanili sono, quelle cose scritte, fino al liminare dei venti anni. Non sono certo io che ho inventato le categorizzazione degli scrittori in giovani meno giovani, o altre amenità di questo tipo, che fanno marketing, ‘e’accozzaglia di volgarità culturale. Di certo su basi di vanagloria di fama conseguente al denaro come unico valore. Come se per questo i movimenti di massa più o meno sconquassata che si susseguono, dicano che il denaro è il mezzo più efficace per la democrazia, perché basta averlo, e anche un cretino può essere il presidente del mondo. In sostanza le cose si fanno sempre e soltanto per denaro. O per asservire a chi è per lui conveniente averlo, che strano ossimoro traslato. Ma non poi molto. E allora ci sono autori giovani cretini, e autori anziani rimbambiti, dentro all’obbligo di fare ciò che vogliono i soldi. Ma sinceramente non c’importa molto del problema dell’editoria. E allora parlando di pesi e di vita, possiamo anche pensare ch’è normale avere qualcosa da mangiare, e non è certo obbligare a mangiare che rende la cosa meno vera. Quindi di fatto al poesia è del poeta come la sua esistenza, che come l’esistenza non può essere compromessa, previa la distruzione del mondo, e quant’anche il mondo fosse distrutto, ciò che mangerebbe, sarebbe la poesia, non la materia del mondo. La differenza tra il denaro e la poesia è solo questa, che il denaro e i ricchi che con esso vogliono governare il mondo, credono che se finisce il denaro, il mondo e loro non esistono più e la materia non può sopravivere senza di loro, e allora si attaccano alla loro materia, pensando che così non finiranno mai. Non so se questa assurda e demenziale interpretazione del volere e dell’onnipotenza, sia derivata da quell’affermazione di cristo di polvere siete e polvere tornerete. Tutto lascia effettivamente supporre che il cretino abbia inteso con ciò che più polvere si fa finta di avere più la proprio immagine riamane eterna e materiale nel mondo, perché la materia si identifica con la materia. Ma non si capisce allora perché i cretini diano una conformazione razziologica alla polvere, quasi che l’uso di essa sia effettivamente determinante, per un valore dell’eternità, in funzione della sua durata materiale. Insomma è una differenza a dir poco pesante da realizzare, è un po’ come essere costretti a mentire per sempre. E allora così si cerca di emozionarsi con le cose più assurde, e tutte queste cose le si mette nella comunicazione, e si continua a fingere, a imbrogliare, a imbrogliarsi come se ciò sia la sola cosa per esprimere qualità in ogni relazione, che altrimenti non avrebbe nessun motivo di verifica su quello che effettivamente sta accedendo alla polvere e all’eternità; così si creano strutture su strutture per controllare tutte queste relazioni, tutte queste complicazioni, e per dire la verità non si sa più cosa fare, perché nessuno la vuole ascoltare, e non la si vuole dire, è per questo ch’è la cosa più emozionate e da fare con qualcuno, perché c’è anche molto da conoscere e scoprire, per essere curiosi e magari scoprire quel che protiro non si conosce, senza bisogno di nasconderlo e mentire per poi doverlo conoscere, e credersi pure intelligenti, mentre si è solo dei cretini, o due cretini che si devono difendere da altri cretini, e così tutti trovano un motivo ed un’emozione per vivere. Be’ la poesia è così vera che non la si comprende, proprio perché chi la legge ha tutto questo nella testa, e se non “paga” non sa di possederla, quasi che si possa anche comprare il poeta e l’eternità, che il poeta sa di non avere, già da tempo nella polvere.

E allora diciamo che nel mentre dell’essere giovani nella vita, in quella connotazione di età che l’uomo si è dato, vent’anni son più che sufficienti per una categorizzazione del tempo, che si badi bene non ha nulla per quanto si voglia con le categoria. E allora quel poetare di quel tempo, lo si ritrova anche dopo, ma non lo si può più chiamare con una categoria, con questa piccola finzione – è solo vita col la poesia, che dir si voglia, oppur si mente e non si sa cos’è.

E allora partiamo da lontano, dopo quei primi libri di poesia intendati ascrivere, o dei libri di poesia comprati, dei primi poeti che si è “letto”. Non del resto perché vi sia una qualche continuità nello stile o che altro nella scrittura, ma forse proprio l’attenzione e la voglia di leggere.

 

Il Soligo

 

Guardo

e attraverso

i miei sguardi

dentro i muri

ricoperti

dentro

i tempi

che non ci sono

Truffa d’immagini

rese vere

 

-

Cerco sempre qualcosa

che mi permetta di capire

l’esigenza di Dio

che ho dentro

-

 

Calpesto la bruma

di quel desiderio

che non si trova, che non si

rifuggia

dentro il rifluire

dei pensieri scordati

Cerco uno spazio

dentro me

per collocare, ciò che non trovo

spazio, ambiente

nei miei pensieri

che chiudono, l’altrui accesso

Certe pagine sono vuote

riempite soltanto di se stesse

Trovare, giù

Tra un muro che si piega

alla propria dissolvenza

che sparisce dietro l’ombra

Sospesi

Certi di dimenticarsi. 

 

Se non vi è nulla di più vicino al suo autore della poesia, di fatto al sua universalità, la si confonde spesso con la sua età – sento già lo sdegno dei critici – chi essi sono? Dei traduttori per dei sordi? – E allora di palo in frasca mi soppiace navigar, se del tradurre v’è reverenza del non dover esser tradotti, v’è avvertenza della libertà di tradursi, che non v’è sdegno né castità, ma solo voglia di soffiar, o respirar che dir si voglia.

I primi libri, o poeti comprati in quegli anni giovanili, e di “matura adolescenza”, son stati Poe, Verlaine, Rimbaud e Dylan Thomas e una raccolta di poeti americani “d’oggi”. Non posso non leggervi alcune loro poesie, che dir si voglia tradotte in italiano.

 

Nella mia arte scontrosa o mestiere

 

Nella mia arte scontrosa o mestiere

Praticata nel silenzio notturno

Quando soltanto la luna infuria

E gli amanti giacciono nel letto

Con tutti i loro affanni tra le braccia,

Io mi affatico a una luce che canta

Non per pane o ambizione

O per pavoneggiarmi e vender fascino

Sui palcoscenici d’avorio,

Ma per il comune salario

Del loro più intimo cuore.

 

Non per superbo che s’apparta

Dalla luna che infuria io scrivo

Su queste pagine di spuma

Né per i morti che torreggiano

Con i loro usignoli e i loro salmi,

Ma per gli amanti, le braccia

Attorno alle angosce dei secoli,

Che non pagano lodi né salario

E non si curano del mio mestiere o arte.

Dylan Thomas

 

Di Thomas vorrei leggervi anche la ballata dell’esca dalle lunghe gambe.

 

Burattini

 

Scaramuccia e Pulcinella,

che un losco disegno mise insieme,

gesticolano, neri sotto la luna.

 

Frattanto l’eccellente dottore

di Bologna, coglie, con lentezza,

semplici sull’erba scura.

 

Allora sua figlia, piccante musetto,

di nascosto sotto i càrpini,

scivola mezza nuda alla ricerca

 

del suo bel pirata spagnolo

di cui un languido usignolo

grida il tormento a squarciagola.

Verlaine

 

Canto di guerra parigino

 

La primavera è arrivata, perché

dal cuore delle verdi Proprietà,

i voli di Thiers e di Picard,

ad ali spiegate fulgidi si librano.

 

Quanta plebe agonizzante a maggio!

Sevres e Meudon, Bagneux e Asnières,

sentite come i benvenuti

seminano primaverili ortaggi!

 

Hanno chepì, sciabole e tam tam,

non la vecchia scatola di candele,

e yole che non han giàm, giàm…

solcano il lago delle acque arrossate!

 

Noi facciam baldoria più che mai

quando sui tetti delle nostre tane

piovono quelle zucche gialle

in una luce d’alba un po’ particolare!

 

Theris e Picard sono piccoli “Eros”,

che sradicano girasoli;

e col petrolio dipingono dei Corot:

sentite il ronzio delle loro metafore…

 

Essi son parenti del Gran Trucco!…

Sdraiato fra i giaggioli, favre

sbatte le ciglia per spremere le lacrime

e tira su del pepe per il naso!

 

Il selciato della città è rovente

malgrado le vostre docce di petrolio;

indubbiamente noi dobbiamo

scuotervi dal vostro ruolo…

 

Ed i Rurali che, a riposo,

stan con le mani in mano,

sentiranno e rami che si spezzano

in mezzo ai sibili rossastri!

Rimbaud

 

[Solo]

 

Fanciullo, io già non ero

come altri erano, né vedevo

come altri vedevano. Mai

derivai da una comune fonte

le mie passioni – né mai,

da quella stessa, i miei aspri affanni.

Né il tripudio al mio cuore

io ridestavo in accordo con altri.

Tutto quel che amai, io l’amai da solo.

Allora – in quell’età – nell’alba

d’una procellosa vita – fu derivato

da ogni più oscuro abisso di bene e male

il mistero che ancora m’avvince –

dai torrenti e dalle sorgenti –

dalla rossa roccia dei monti –

dal sole che d’intorno mi ruotava

nelle sue dorate tinte autunnali –

dal celeste baleno

che daccanto mi guizzava –

dal tuono e dalla tempesta –

e dalla nuvola che forma assumeva

(mentre era azzurro tutto l’altro cielo)

di un dèmone alla mia vista –

Poe

 

 

La coscienza civile irrita la mia gioia

 

Nel cavo della mia mano

c’è un colpo più caro del disastro.

Quando troviamo il nome della vittoria

scritto sui giornali,

come ci stringiamo alla carne dei nostri amori!

Saremo condizionati

 

dalle ferite che immaginiamo,

dal groviglio delle bende

di cui ci compiacciamo.

Sappiamo quello che leggiamo:

il nostro cerchio di conoscenza pulsa con

la leggenda della calamità.

 

Eppure fluttuo nel sonno

su terreni intrisi di sangue

dove i corpi dei soldati sprofondano

alla luce del mio amare

te. Siamo distrutti nel neon, appesi al filo

di luci lungo la spiaggia perché tutti

 

vedano e stiano attenti:

Ci impiccarono per pirateria,

per vergogna depredatrice alla luce

dell’amore. Alla riva

della disperata certezza del mio amore

i corpi dorati dei soldati si bagnano.

Thomas McNamee

 

 

Tremila ore di cinema

Di Jan-Luc Godard 

 

ore 8

in

ore 14

Terreur

ore 17

per

ore 23

girato

ore 16

quale

ore 17

qui

ore 11,45

Ancora

ore 18

a

ore 22

era

ore 17

lei

Mezzogiorno

loro

ore 21

giovane

ore 17

quello

ore 1

Nota

ore 15

chi

ore 13

meglio

ore 15

ando

ore 10

me

ore 18

facendo

ore 17

pane

ore 14

Barthès

ore 22

pessimista

Clark Coolidge

 

 

Arte malata

 

  Il sorriso della Gioconda fa spesso dimenticare

a chi la guarda il fatto che non ha sopracciglia.

  Un dermatologo ha diagnosticato

che la modella di Leonardo Da Vinci soffriva di

una malattia della pelle chiamata alopecia. L’alopecia è una malattia della pelle per cui uno non ha sopracciglia.

  D’altra parte molte donne di

Allora si radevano le sopracciglia e la modella

di Leonardo Da Vinci potrebbe semplicemente aver     seguito)

quella moda.

  Non c’è dubbio, tuttavia, che “Il Pensatore”

di Rodin ha i calli ai piedi.

  Oggi, con l’arte moderna, non è così facile

individuare malattie e disordini fisici.

  Molti medici, tuttavia, hanno notato

una forte relazione tra alcune malattie

della pelle e i dipinti di Jackson Pollock.

In particolare lebbra e vene varicose.

  Le infezioni micotiche sono molto comuni

nell’arte del Medioevo e del Rinascimento.

Joe Brainard

 

 

Vivere in quei gironi di pressi, più che essenziali, per certi versi era entusiasmante, anche se finito l’accademismo, se non ricordo male, come ho scritto in un poesia, passai bene dall’autunno alla primavera chiuso in casa, ad osservare il mondo dalla finestra ed ad immaginarlo credo inutile, o forse chissà già pessoianamente, pur non sapendo ancora niente dell’esistenza del grande Pessoa. La poesia entusiasmante di quei periodi era il comunicare ai coetanei, quel che veniva fuori dalle più profonde riflessioni, o approfondimenti culturali, e se ciò era rettamente socratico nel suo modo di essere, le corrispondenze erano surreali. Nel senso era come pensare una cosa, e poi magari vedere che ne so che era espressione di un pensiero alto, un From, e sentirsi dire che quello che dicevo, sembrava non esistere. Era evidente per me che esistevano due mondi, o uno soltanto, il mio che era collegato alla conoscenza e alla sua ricerca, e un altro più leggero dove ci si credeva era tutto quello che esistesse, e in questa prospettiva costruire la realtà, chissà se era un mondo un po’ scemo o di pigri consenzienti, di fatto si venivano verificando i miei salti quantici culturali – si potrebbero definire – nel senso che finito un periodo di relazioni, andavo in cerca di un altro, o più esattamente continuavo la mia ricerca e si verificavano queste mutazioni, in sostanza nel mio essere sempre me stesso, sondavo i compartimenti stagni della società, con tutte le sue inadempienze di relazione, e fin tanto che il mio impegno in tal senso era la connotazione di relazione si sviscerava, quando era lasciata al compartimento stagno la cosa decadeva. Insomma la solitudine era una prerogativa del talento, quanto la qualità della relazione. Ma stiamo a quei primi momenti più che agli sviluppi della decadenza del contemporaneo. E allora il poeta non sta dove deve stare, ma sta dove vuole stare, ed è solo chi sta dove deve stare che fa sembrare che il poeta non sta dove vuole stare, come se stesse in un posto qualsiasi, dove gli scempi fanno a sbraggo per tenerselo se lì conviene. E allora anche se non fu in profonda quiete il rimirar l’infinito di leopardi, in dì quegli anni miei, non posso sottacere proprio ora il suo rimirar.

 

L’Infinito

 

      Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

E questa siepe, che da tanta parte

Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

E le morti stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questa

Immensità s’annega il pensier mio:

E naufragar m’è dolce in questo mare.

 

E allora nel dì di presso di quegli anni della gioventù, non v’è che ricordare non solo gli strani affanni, ma le scoperte e le non scoperte dette che c’erano ma non le si voleva vedere, da chi diciamo non era interessato, al che le cose ovvie fossero normali e quelle ignoranti reali, ma erano pur sempre anni di vite ancora diverse, e il parlare s’ammarava nei giorni.

Nello straforo della gioventù, qualcosa d’altro che gli si mischia e si può anche transitare insieme a quell’avvenire. Scrivo –

 

Cosa è che stanco

dove accadere

Perviene l’esiste libero e leale

il mio

per dunque in ciò ovunque coerente

Sempre fin ora

Ma quale frutto ogni frutto distolto

ha trovato poi

 

Solo aver perduto è accaduto

forse

Spero no giacché tutto nuovo avviene

ed io aspetto

nella fiducia che spero non delusa

 

quel ch’è stato non sia perso.

 

E ancora scrissi

 

Or sovviene

quel movimento che può essere sempre

i

Solo in quel muoversi

io pesante

 

Perché non che io sia invogliato

ma solo disturbato

 

Guardo e non vedo

perché non ne ho voglia

sento solo ciò lontano si sta

 

Oggi

è troppo tardi

Il gemito

il parlottare tanto vano

giacché io non ho più i termini

La dialettica aporica

 

Inventare

non so a cosa serva

Ora

mi son già stancato.

 

E allora nei brevi pressi arrivarono in straforo sulla gioventù Baudelare e Montale, di cui lessi,

leggo:

 

Il baratro

 

Pascal aveva il suo baratro, allato aperto.

- Ahimè! tutto è un abisso, - fatti, voglie, ideali,

parole! E sui miei peli ritti come pugnali

spesso della Paura sento passare il vento.

 

Di su, di giù, dovunque, profondità, barene,

silenzi, e il grande spazio orribile e avvincente…

In fondo alle mie notti Dio con dito sapiente

un incubo disegna multiforme e perenne.

 

Il sonno mi spaventa con le visioni nuove

d’orrore, grande buco che meni chi sa dove;

da tutte le finestre solo infinito scorgo,

 

e l’anima, che sempre la vertigine insidia,

L’insensibilità del nulla al nulla invidia.

- Ah! Di Numeri ed Esseri restar sempre nel gorgo!

Baudelaire

 

 

A C.

 

Tentammo un giorno di trovare un modus

morienti che non fosse il suicidio

né la sopravvivenza. Altri ne prese

per noi l’iniziativa; e ora è tardi

per rituffarci dallo scoglio.

Che un’anima malviva

fosse la vita stessa nel suo diapason

non lo credesti mai: le ore incalzano,

a te bastò l’orgoglio, a me la nicchia

dell’imbeccatore.

Montale

 

 

 Il Re Pescatore

 

Si ritiene

che il Re dei pescatori non cerchi altro

che anime

 

Io ne ho visto più d’uno

portare sulla melma delle gore

lampi di lapislazzuli.

 

Il suo regno è a misura di millimetro,

la sua freccia imprendibile

dai flash.

 

Solo il Re pescatore

ha una giusta misura,

gli altri hanno appena un’anima

e la paura

di perderla.

Montale

 

 

I poeti che si rincorrono e fanno finta di rincorrere, quasi che già non ci fosse più bisogno di correre, proprio per dire qualcosa tutto in una poesia, in una frase e un pensiero, quasi che le immagini non le contenesse: già tutto, e quasi che la poesia sia già stata detta, e il poeta non fa altro che leggerla.

 

Mattina

 

M’illumino

d’immenso

Ungaretti

 

 

E allora in quegli anni della gioventù vi tornavo, perché aleggiava qualcosa di non detto, che in un “modo o nell’altro” doveva essere detto, letto e allora il poeta nell’impossibile del presente, si mette a capofitto, chissà se in un certo qual modo si disconosce – e cerca una poesia sociale, ma che non vuole tradirsi, ed è già qui una estremità del suo essere poeta, “quasi che bastasse parlare” e ci sono anche luoghi, città che finiscano in questo tempo apparentemente limitato dai nomi. Che vuol dirsi che l’eternità si ferma alla storia, o anche essa per mezzo di questa poesia non va tradita, come in certo qual modo il poeta la resa più vera; allontanandosi dal suo vivere, che magari era più felice di quel che appare in “quella poesia”

 

Milano

 

Ho visto come i visionari concepiscono la vita

e son triste nel vederti

nelle loro concatenazioni prigioniera

Ho visto l’uomo suicidarsi nel suo arrivismo

verso dii dai pensieri spenti

Ho visto uomini confondere la schiavitù con la libertà

la menzogna con la verità, la vigliaccheria con il coraggio

Ho visto un mondo morto

dove la vita è un lontano esiguo bagliore

Verso fine irreversibile

Ho visto uccidere i fanciulli e con loro ogni molecola di luce)

umana

Ho rivisto le genti lasciate da Mosè

per la prima luce comandata

spegnersi nel loro eufemistico denaro

Guardavo gente nell’attimo della fine corporea

disperdersi in strazianti tormenti

senza la luce del perché

Ho visto un mondo dove l’aria l’acqua il fuoco

creano la morte nella tristezza di non aver mai vissuto

Ho visto un mondo dove l’amore

non è più.

Ho visto – forse la fine.

 

 

Elio e Idrogeno

e poco altro nei muri che si aprono, fuori dai cieli.

Strane melodie negli orizzonti chiari,

dove le mie emozioni si distendono nell’estasi bianca.

E adesso, nel momento seduto;

non so dove: nella fine o nell’inizio.

mi aleggio nell’amore vissuto.

- Nell’Idrogeno e nell’Elio

e poco altro, nei muri che si aprono fuori dai cieli

come alianti d’albatros

che volano sulle storie degli anni.

 

 

Umano gesto

 

O umano gesto

che apostati ti rende respiro, presso la plaga

di un glabro mondo

Che si avoca dell’eccesso dei respiri.

Respiri che rivolgono abside dell’esistenza

nell’apodittico termine disordinato.

che come nulli pensieri riabbracciamo

nell’era della futura disperazione umana.

 

Or dunque perché

I desideri seguon strade obbligate

per realizzare il loro consenso

- Tra gli occhi senza più il capire delle loro emozioni

e che non vedano null’altro che il termine

insinuato nella loro mente.

che “forse” perde il gesto di se stessa.

 

 

Un attimo di stanchezza

 

Il vuoto si è colmato di inutili gesti

il pensiero fardello, di molte vite di squallore

umano

l’inutilità ci sorprende

nella futilità delle nostre esistenze

che si inggannano

nella realtà che noi calmiamo d’illusione.

 

Ed è sempre più retorico noioso

quel perché

che de il primo

e assomiglia ad un fantasma

che mai vedremo.

 

Incomunicabilità

nella finzione d’iconoclasta mobilità

della verità] non hanno più energia

per stimolarci e vivere.

 

 

I momenti presenti

 

Quali momenti ci son più vicini

se non i momenti presenti

in cui noi siamo ed esprimiamo

facendo finta di parlar d’altri

di qualcuno o cosa che non è noi.

 

Ma perché questo?

Forse non li apprezziamo

molto

Forse perché c’è una colpa in loro

quella colpa che appartiene ad ogni presente

in cui noi siamo causa e responsabilità

ma che non riconosciamo

chiedendo alibi ad altri istanti.

 

Non è mia la colpa se c’è gente che pena

non è mia la colpa se c’è gente che muore d’inedia

non è mia la colpa se c’è gente emarginata

non è mia la colpa se c’è gente diversa da me,

 - diversa da me, - diversa da me,

 

 

La voce di quei momenti presenti

è la nostra sentezza inoppugnabile

e noi possiamo far finta che non ci riguardi

giacché

quali momenti ci son più vicini

se non i momenti presenti

in cui noi esprimiamo

ciò realmente siamo.

 

 

B.R.

 

Ora che gl’irrequietezza il disagio

pur sempre ci sorprende

in omicidi senza senso

di poveri umani

 

Io non odio provo verso di voi

ma profonda pena nel vedervi prigionieri

di sofferenza

che null’altro genera che se stessa

 

Voi ora miseri umani

persi nello squallore della violenza

così come voi fate

non aiutate nessun popolo

che voi chiamate ipocritamente a vostro alibi

ma solo l’arroganza che vi ha creato

i “signori” che causa vostra

ora hanno un motivo in più per ingannare

 

E non illudetevi

perché tutti mezzi usati

che non siano uguali al fine

hanno finito per dimenticarlo.

Perciò io non credo che voi vogliate niente di diverso

Da ciò che fate ora

 

Voi assomigliate agli oppressi che saranno

Oppressori

Le vostre costruzioni hanno fondamento nelle morti

negli strazianti tormenti

nelle stanche rassegnazioni

nei vuoti

che generate nei vivi rimasti.

 

E non dite che anche tra di voi ci sono tali sofferenze

non perché non sia vero

ma perché se il vostro agire è così a ben

conoscenza della sofferenza che procura

Un ulteriore condanna cade si di voi

quella della vostra disumanizzazione

che vi ha trascinato alla follia di volere

che altri si tormentino, come e più di voi

in un umanità persa.

 

A voi dico sgombrate i rumori

ed ascoltate la vostra più profonda interiorità

di essere uomini

 

 

Lievitazione del caos

 

In questa epoca

son sempre sveglie le nostre paure

 

Certe volte quanto i miei occhi si specchiano

in altri occhi

noi chiediamo e ci chiediamo chi o cosa siamo

confondendoci con ciò che facciamo nel crogiolo folle

dell’immensa socialità,

Ma che pur ci dà l’illusione di una certezza.

 

Noi siamo ancor più giovani

stupendoci delusi

nel guardare chi ci ha preceduti

che poco hanno fatto per permettere a noi

di essere ciò che vogliamo e non esser costretti ad essere.

 

Ci dicono che siamo dei bravi uomini

quando ci spegnamo il loro emulandoli vigliaccamente.

Ma questa è l’epoca

dove non esista passato

dove chi è giovane ha sviluppi umanoidi

dove non esiste futuro

dove l’unica cosa che un giovane vede, - immagina essere

l’unico bene

dove il presente è uno squallido frammento dogmatico del tempo)

 

In questa epoca

son sempre sveglie le nostre paure

giacché sempre meno viviamo del nostro essere

invariante

Ma sempre più nell’essere estemporaneo

a cui ci aggrappiamo per esorcizzare le nostre paure

 

Ma tutto ciò è solo la vecchia storia

dell’arroganza umana

che di fronte al granello di sabbia della spiaggia

che casualmente scopre

Crede di avere capito tutto_

e quanta confusione può causare quell’agire nell’ordine

 

Ma vi è qualcosa di più in questa epoca

che ci distoglie da tutte le altre precedenti

ed quella che ci deriva dalla coscienza della nostra ignoranza)

che ci perviene dalla scoperta della spiaggia.

 

Ed è per questo

che in quest’epoca nascono le paure

guardando l’uomo sempre più perso nelle proprie

possibilità

Perché in questa epoca è il tempo

delle scelte

Di scegliere di vivere o morire

 

È l’epoca del caos

dove tutto può avvenire

ma da dove soltanto l’uomo che crede nella vita può uscire)

 

Se lo vuole.

 

 

Se il poeta, non è mai in conflitto, ciò ancor più intollerabile nel posto in cui vive, ciò che fa abiurare l’infamia della quotidianità, è la blasfemia. Il contatto presente con la qualunquistica mancanza di coraggio del consenso, toglie ogni mediazione verso ciò che n’è privo. Le convezioni sono le rassicurazioni della menzogna più profana, una cecità dell’anima che cera di opprimere la sacralità. La blasfemia imperversa nelle donne, nei templi, sempre più mal frequentati, nel sesso, e nell’assurdo crogiolo di queste cose nella famiglia e nelle nazioni fatte di assurdi confini. Il giovane poeta è irriverente tanto più che lo sarà, il poeta non delega alla purezza il suo impegno, il poeta spacca tutto nel modo più puro, si chiama fuori dall’intollerante blasfemia. Lascia che le puttane continuino ad essere puttane, chiamandole puttane blasfeme, e che le prostitute non siano per forza delle maddalene. Ma la blasfemia imperversa nei cazzi induriti che fecondano con la loro impurità i pensieri di donne che si schifano dello sperma, come della loro urina. Questa epoca lontana per il giovane poeta che ha già determinato molti dei suoi amori, che saranno mai per lui naufragati, nello blasfemo mondo dello potere e della menzogna, delle gravidanze e degli aborti, danno per gli stolti una scusa di convenienza, quasi che la loro blasfemia non si di già sempre lo loro esser dannati pe lo eterno. Ingravidano e cornificano, e votano e s’ammazzano, ma lo coraggio no l’hanno né pe lo vero né pe la poesia. So blasfemi co le loro carrozzine, perché picchiano sulla libertà come un portone sempre chiuso. E che c’è da dire in questa epoca lontana dalla giovinezza, che lo defecare avviene per mezzo della bocca, ma non pe lo dire, pe la coscienza e lo loro fare. Si morte l’epoca la blasfemia non s’ammazza e s’aizza lo suo perpetuarsi. E allora chi fui io in giovane poeta è già da saperlo per lo grande pensiero, come pe lo piccolo come è vero. La dannazione non è di quest’epoca ancor blasfema, e lo dicere tale è de li dannati immortali di blasfemia e menzogna o lo falso conoscere. Or dunque aspetta quel che accade, perché non d’à da accadere come è lo dicere degli snorti.

Di fatti non vi è che dire che si ci fossero grandi affinità, ma quel tanto che bastasse per il coraggio, che il mio poetare era molto più coraggioso, di certo avviene, non per lo negare, ma per il parto della vita, della coscienza e della morte che solo appare, il poeta non offre, non paga i conti, il poeta regala senza regalare, e dona l’indonabile, oltre il gesto e l’atto che mostra, l’intelligenza si affranca dal mostrarsi, ma è così come avviene e l’idiozia per esso è lampante anche quando guarda il sole negli occhi. E il gioco dell’apparire è nefasto come quello del non apparire, ciò che avviene è già tutto e non può che essere sempre tutto, e la blasfemia è sempre l’artificio della mancanza di coraggio, di non volere riconoscere quel che si vede. I mediocri mostrano continuamente questo, sia per loro che per gli altri.

E allora il giovane poeta, come io lo sapevo di essere, non si ferma al tempo, o alla sua inapparente sostanza, non delega all’imbroglio, e non si ferma all’apparenza del tempo, ma scandagli e vive le possibilità, in tutto il tempo, e nel tutto del suo apparire. E come io dicea poco fa, io giovane poeta, amavo e gioivo di ciò, non mi si vedea un Leopardi, non già solo perché per lo più son e sempre son tutti ciechi, ma di già perché il mio amare sol io lo fermavo, lo lasciavo dove stavo e potevo prenderlo quando volevo, ovunque e sempre, in tutte le donne. Ma il sapore dà l’accadere alla ponderabilità che si muove nell’imponderabile, e sovente l’accadere accade dove un impossibile manifesta tutta la sua apparenza, e dove le cose appaiono più grandi di quel che esse possono mai realizzare, e allora il tempo smette di apparire, e il volere acquista i connotati di essere, e in mezzo al plus ultrà della blasfemia e della volgarità del mondo, ciò che sembra il più banale possibile smette per sempre di esserlo e vive dell’impossibile del poeta, che il poeta fa vivere. Io giovane pur sempre nel tempo, vi lasciai che le cose stessero lì dove inevitabilmente dovessero accadere, solo che l’eternità fosse lasciata libera di esprimersi, e dinnanzi a tutta l’eternità, per quando sembri rapida e sciolga tutta la materia, basta un semplice suono della voce, una lieve carezza, un chiaro intendo perché tutta l’eternità avvenga, e il sesso sia il sesso, senza che più appaia, o sia stato mai guardato prima. Eppure quell’impossibile non può che accadere, oltre quella ponderabilità che sospendevo per tutto il possibile, e spesso son stato solo fin qui, in assenza totale del potere come banale volere. Le bizzarie del poeta che non son tali, lo portano inevitabilmente a vivere e a non voltarsi mai indietro, ma dentro di sé e attraverso tutto, che nell’apparizione della musa, attraversa il tutto e se stesso. L’altezza di tale poesia è incommensurabile per chiunque. E dunque nel racconto un po’ stolto che vi può essere nella realtà che si mostra, in chiaro riferimento non è nella poesia ma nel poetare del vivere, che nella poesia financo lambisce il superarsi, e il mostrare la realtà tutta.

Ma di questo poetare di gioventù, non vi parlerò di tutto l’amore che volevo dare ancor di più, per un poeta il non poter dare è inconcepibile, né di melodiosi suoni a ricordo di grandi amori, o di mie poesie soprane, ma dell’assurdità del narciso, che non è mai considerato da un poeta, che gli appare davanti sempre nei gesti di chi ama, con cui il poeta lotta perché non avvenga quello che non può avvenire, e che non avviene mai che la blasfemia della banalità, distrugga la purezza della semplicità. E allora vi leggerò le lettere di un amore finito, non già del consenso del suo idillio, giacché come sarà noto ai veri, il poetar d’amore vero desta più che altro, sovente invidia in chi sovvien ad osservar. E che gli stolti leggendo fraintendano la loro stoltezza per conoscenza e intelligenza, in queste lettere del poeta giovane.        

 

 

Sono in piena notte e mi sono svegliato giacché ho bisogno di render chiara, definitivamente, la nostra posizione o quantomeno la mia, tra l’altro l’altra sera mi hai espresso molto chiaramente, almeno in parte è stato così, come la pensi.

Mi hai detto che viviamo in due mondi diversi, che tu non accetterai il mio mondo e che io non potrei accettare mai il tuo; inoltre mi hai fatto capire che per noi non può esserci futuro, perché non vedi basi economiche. Ok mi hai chiesto di affrontare la situazione razionalmente senza considerare il cuore. Non approvo questo modo di essere, perché penso che tutto vada valutato globalmente, ma che questo atteggiamento serve, che sia pure.

Sinceramente avrei preferito un chiarimento, almeno per telefono, ma io non sono in grado di poterti chiamare e tu sembri non ritenerlo necessario.

Ritornando a l’altra sera ed ad eventuali altri contatti che avremo, ti chiedo di essere meno infantile nei miei confronti, e se mi parli di razionalità non te ne uscire che lisa ha detto questo o quello o chiunque altro per essa. Abbi almeno la capacità di avere i tuoi pensieri.

Tu mi hai detto che il mio mondo è come se non esistesse, lo vedi come se fosse un sogno, insomma cose di questo genere. Io ho riflettuto su questo e penso che una affermazione del genere è ridicola.

Io ho l’onestà, sincerità la libertà di dare, io sono felice ed a me la felicità mi è stata sempre regalata, non ho bisogno di comprarla. Io sono libero di amare totalmente senza bisogno di pormi cavilli che esulino dall’amore. Io faccio la vita che voglio, intensa intellettualmente, culturalmente, moralmente, senza futilità. Io sono fortunato perché sono molto amato, ma quel che più conta io amo molto con tutto, tutto me stesso. Lealtà, fiducia, rispetto, altruismo, fedeltà, amore, se queste cose per te sono solo un sogno, per me sono certezze, certezze che io ti ho dato totalmente, facendoti capire che non le avresti mai perse; io te le ho date forse, forse, senza che tu facessi molto sforzo per averle, ora mi rendo conto, che non posso più darti queste cose, perché penso che tu non hai la capacità di prenderle.

Se non hai più certi valori, ed hai preferito soffocarli, ciò mi fa capire che non puoi più darmeli ed io non posso buttarli in un mondo futile banale, vuoto.

Dopo, appena qualche giorno che sei ripartita mi hai detto quelle cose e per quanto tu voglia farmi intendere che mi ami (non so proprio in che modo sinceramente). In realtà tu non mi ami.

E affermazioni come quella che hai fatto sul fatto che non ci sono basi economiche, mi fanno semplicemente sorridere, seppur è vero questo, io prima di ogni altra cosa voglio una base morale, una base d’amore io voglio un amore che non vive sulla durata del denaro, io voglio un amore che ha talmente forza ed energia che trasforma tutto quello che ha intorno, un amore che mi dà la forza di muovere le montagne, un amore che non tentenna vacilla, ma rimane saldo e sempre più forte di fronte a qualsiasi intemperie della vita.

Be’ quando si ha per base l’amore, allora penso che sia giusto impegnarsi per renderlo sempre più forte.

Ma se manca l’amore la base d’amore che senso ha parlare di basi economiche.

Esprimendomi più rudemente sembra che tu mi dica, “che non ho denaro per comprare il tuo amore.”, be’ io ti rispondo “che non hai abbastanza amore perché io possa regalarti il mio amore”.

L’amore è un sentimento nobile che solo anime nobili possono vivere veramente, quel che vive ora la massa della gente non è niente altro che un’accozzaglia di pulsioni, più vicine agli animali che all’uomo. Insicurezze e niente altro.

Ariane Ariane, l’altra sera al telefono mi è sembrato di ritrovare l’Ariane di quella sera della falsa partenza, quell’Ariane lì a me non piace, è misera povera ipocrita e non so che cosa ho in comune io con una persona così. Io penso che tu abbia scelto sempre la strada più facile nella vita, ma se hai fatto ciò in realtà tu non hai scelto, nella vita.

Non preoccuparti, non vengo a disturbarti nel tuo mondo, che guarda, io conosco molto bene, forse meglio di te. Di tutto questo avrei voluto parlarti guardandoti negli occhi, o almeno per telefono. Comunque spero mi telefonerai, giacché penso che sia meglio. Salutami tuo padre.

 

P.S.

Se parlassi con il cuore, forse ti direi che ho voglia di accarezzarti, baciarti amarti, ma queste cose non sono razionali.

Ci sarebbero forse altre cose di cui parlare, ma ora ho sonno e sono stanco. Quando leggerai questa lettera, sinceramente non so; forse non sarai contenta perché è quello che volevi, ma…………

Ciao

 

 

Oggi è il 10 novembre ed ho ricevuto la tua lettera che mi hai scritto in Ottobre.

Non so se essere felice o no, giacché non capisco bene.

Ogni forma artistica, ha come movente essenziale e vero, di giungere all’emozioni all’anima di ogni individuo; tramite dei gesti, (se così si possono definire) quali: la parola, parlata o scritta, lo sguardo ecc. ora da te ho ricevuto delle parole scritte. La poesia per essere tale non deve essere niente altro che parole che comunicano con le emozioni, l’anima dell’individuo, aiutate in ciò da un pensiero libero. Ti ho fatto questa premessa per dirti che non so se quello, che le parole della tua lettera hanno suscitato in me, nella mia anima, è la stessa cosa che c’è nella tua. Nella lettera parli di cose e valori che io conosco bene e di cui sono cosciente di quale impegno richiedano. Etc. io in questo momento non mi trovo in un momento di particolare serenità. Sto cercando di ridare forza ed energia a quella spiritualità che mi permette di sentirmi vivo e di provare la gioia che per natura mi appartiene, di tornare a creare e di sentire la libertà anche sopra una semplice tela.

L’amicizia di cui parla la lettera è molto bella ed intensa è un’amicizia tra due individui, che secondo me per giungere ad una partecipazione così totale, specie se un uomo e una donna, vivono sentimenti molto più grossi, o no?

Io ora non riesco a capire se il ti voglio bene che mi dici tu è lo stesso che provo io.

Io non posso vivere il genere di amicizia di cui parli nella lettera se non c’è un rapporto totale.

Non ti scrivo altro per ora; aspetto al più presto una tua risposta di cui tu sia cosciente fino in fondo al tuo animo e che mi faccia e ci faccia capire.

Un po’ di tempo fa ho scritto una poesia, una poesia che entra in un momento di stanchezza a cui sto ponendo rimedio, ma è anche uno spaccato della realtà attuale della gioventù e dell’uomo moderno.

Aleatorio

Cerco un sentiero

dove nessuna strada può raggiungermi

nessuna metà nessuna scopo

 

Soltanto il tempo

dilatato al punto di perdersi

a se medesimo

 

Cerco la quiete – ed il riposo

- della gioia

Ora che in terra simile metà è negata

 

L’Amore

A chi stender la mano

se non al vuoto

 

E non capire

Se essere – ancora essere.

 

 

[…] Sono deluso di me stesso, perché ho dato le cose più importanti a qualcuno che non ha avuto la capacità di rispettarle.

Ma sono profondamente deluso da te e questo è quello che mi fa soffrire di più, perché vedi io ti ho dato fiducia, tutta la mia fiducia il mio amore totale ti ho messo al di sopra di tutte le cose più importanti che ho. Quindi immagina che significa essere delusi da una persona che tu consideravi così tanto.

Non ho accettato questo, ho cercato dentro di me di trovarti delle scusanti; ho pensato è colpa mia per quello che sono. Ma non è così, perché io non ti ho mai ingannata su quello che sono, tu sapevi ed eri cosciente di tutto eppure……. La colpa di come io sto è tua, ed ho diritto di dirlo; perché vedi io ho rischiato tutto su di te ma pago su di me le mie responsabilità; tu al contrario non hai avuto il buon senso ed il rispetto per me; giacché tu hai rischiato, ma sulla mia pelle e sono io a pagare le conseguenze della tua vigliaccheria. Chissà forse ti sentirai una furba per questo, io invece se fossi al tuo posto mi sentirei un vile cretino. Il modo in cui poi hai fatto in modo che finisse questa storia è dir poco bestiale Banale assurdo!

Non possiamo avere lo stesso rapporto che ho con Chantal è completamente diversa la cosa. Chantal mi ha dato molto, molto di più di quanto tu stessa possa immaginare e se ha sbagliato è accaduto in tutte altre circostanze e situazione; e ha fatto molto per farsi perdonare, ma non voglio fare confronti, non sarebbe giusto. Il fatto è che io sto soffrendo troppo a causa tua e la sofferenza che tu mi hai provocato ho paura che rimarrà legata sempre al tuo ricordo. Spero di no, ma non so. Sinceramente in questo momento preferirei non vederti mai più non avere più notizie di te, se per qualche raptus di follia ti venisse in mente di venire da queste parti non farlo per favore, cerca di non incontrare gente che conosco e che possa avere contatti con me. Sto troppo male; poi penso che così ti faccio anche un favore togliendomi dalle scatole. Se vuoi dare la colpa a me di questa decisione fallo pure! Se un giorno vuoi riavvicinarti a me, fallo solo per un motivo veramente importante e vero altrimenti non farlo.

 

 

Il giovane poeta è già poeta, e non può che aspettarsi nel leggere gli anatemi che il mondo si dà. Un naufragar senza dolcezza, né compassione. O il mondo, questo mondo non stupisce il poeta. Il mondo si sopraffa si annienta ed edifica troni su cui istalla l’idillio alla venerazione della mediocrità, per il vilipendio del talento, ovunque vengono innalzati personaggi e “significati” di vanagloria, si auto acclamano, si concelebrano, distruggono tutte le loro psicologie. È una esaltazione della idiotità, un tormentarsi eterno, senza più il tempo per nessun pentimento, l’anatema che il mondo si dà è la fine del visibile e dell’invisibile, la banalità ovunque e la guerra altrettanto, la psicologia spiega l’inspiegabile e dà premi alla demenza che si celebra, sorda e che sgozza Isacco, che distrugge il presente, che crea scandalo con la banalità, che insozza le parole e il significato, il mondo che percorre la catastrofe con al voglia dentro, l’anatema che si è dato l’uomo è la lettura di chi ancora vive, mentre gli zombi celebrano al fine, senza accorgersi che già essa è stata celebrata. Il poeta non si distoglie da ciò che ama, e attraversa il visibile e l’invisibile, non si cruccia se si tormenta, e non si inganna dell’inganno, gli stolti interpretano e muoio, senza neanche saperlo. Vi leggo ora che ne ho ancora più voglia la – Ballata dell’esca dalle lunghe gambe – di Dylan Thomas

 

La prua scivolava sull’acqua e la costa,

Nera d’uccelli, lanciò un ultimo sguardo

Ai suoi ricci sferzanti e all’occhio blu-balena;

La città scalpicciata tinní un augurio sui ciottoli.

 

Allora addio, mormorarono

La sabbia affettuosa e i parapetti

Dal molo abbacinato, addio alla barca

Col pescatore, dall’àncora libera e ferma

 

Come un uccello uncinante sul mare,

Tirata in secco sulla cima dell’albero.

Va, naviga per me, e non voltarti mai,

Disse la terra che stava a guardare.

 

Le vele bevvero il vento e bianco come il latte

Filò veloce bevuto dal buio;

Il sole a occidente naufragò su una perla

E dalla sua carcassa uscì a nuoto la luna.

 

Passarono in un turbine alberi e ciminiere.

Addio all’uomo sul ponte barcollante,

Alla lenza che ronza nel suo mulinello,

All’esca che dal sacco slungò fuori dalle gambe:

 

Perché noi lo vedemmo lanciare alle onde

Una ragazza viva con ami tra le braccia;

Tutti pesci raggiarono nel sangue,

Dissero le navi impiccolendo.

 

Addio a camini e caminiere,

Vecchie comari che filano nel fumo;

Egli era cieco agli occhi di candela

Delle finestre in preghiera dei flutti

 

Ma udiva l’esca sgroppare nella scia

E azzuffarsi in un branco di amanti.

Butta via la tua canna, perché il mare

È tutto collinoso di balene,

 

E lei smania fra angeli e cavalli

E il pesce-arcobaleno si curva alle sue gioie,

Dissero da sommerse cattedrali

Gli scampanii delle cullate boe.

 

Dove l’ancora vola ferma come un gabbiano,

Miglia sopra il lunatico battello,

Un turbine d’uccelli precipitò mugghiando,

La gola d’una nuvola soffiò pioggia con vento;

 

E vide la bufera fumigare omicida

Con prua di fiamma e sperone di ghiaccio,

Far fuoco sulle stelle e sul fiume di Cristo,

E nulla risplendeva sopra il volto dell’acqua

 

Se non l’olio e la bolla della luna;

Nella sua rotta tuffandosi e aprendosi un varco

Il pesce adescato sotto la schiuma

Testimoniava con un bacio.

 

Balene nella scia simili a Capi e ad Alpi

Squassavano il mare salato e affondavano i musi;

La grande esca boscosa dalle labbra sgoccianti

Schivò le pinne di quelle tonnellate gibbose

 

E sfuggì al loro amore con un tuffo sgusciante.

Ah, Gerico crollava nei loro polmoni!

Se la svignò e s’immerse al momento d’amore,

Rotolò sopra un getto come una palla dalle lunghe gambe

 

Finché ogni bestia non squillò con uno scarto

Finché ogni tartaruga non ruppe dal suo scudo

Finché ogni osso nella tomba trascinante

Non risorse e cantò come un gallo e cadde giù!

 

Buona fortuna alla mano sulla canna,

Sotto i suoi pollici è il tuono;

La lenza d’oro e un filo luminoso,

Dal rocchetto di fuoco sibilano le fiamme,

 

Il battello nel culmine del suo sangue bruciante

Grida dalle reti ai coltelli: ah, i puffini

E le loro nidiate grandi come una barca,

Ah, i tori di Biscaglia con i loro torelli,

 

Stanno sposando sotto il verde velo

La bella esca dalle lunghe gambe!

Divulga la nera notizia e dipingi su una vela

I grandi sponsali nelle onde:

 

Sullo spruzzo che lampeggia nella scia,

Sui giardini del fondo, squilli il giorno

Che monta del delfino,

Il mio albero maestro è un campanile;

 

Batti e attutisci, sono tamburi i miei ponti,

E canta nella prua parlata dall’acqua

Il polpo che s’addentra nelle membra di lei

E l’aquila polare con la sua cupola di neve.

 

Dalle labbra salate del rostro alla poppa che scalcia

Cantami come la foca ha baciato una morta!

Spinta dai flutti, distesa, la lunga sposa dell’attimo

Va alla deriva, antica nel suo letto feroce.

 

Sul cimitero nell’acqua

Sotto montagne e gallerie

Iena e usignolo rallegrandosi

Per quella morte che va alla deriva,

 

Attraverso la sabbia e l’anemone urlano e cantano

La valle e il sahara in una conchiglia;

Ah, tutta la carne vogliosa a lui nemica

Lanciata in mare nel guscio d’una fanciulla

 

È antica come l’acqua, semplice come l’anguilla.

Addio per sempre al pane gambalunga

Sparso lungo i sentieri dei calcagni

Del pescatore, perché i salmastri uccelli si nutrono

 

E i grossi chicchi spumeggiarono nei becchi;

Addio per sempre ai fuochi del suo volto

Perché i morti dal dorso di granchio risorsero sul letto

Marino, e s’avventarono ai suoi occhi;

 

Il cieco sguardo artigliato gela come nevischio.

Il tentatore che sotto le palpebre

Mostra all’io addormentato donne nude

Bianche come la luna e come l’albero alte

 

Ancheggiate vogliose e belle di vergogna,

Ora è muto, perduto con la sua fiamma di spose.

Susanna è annegata nel ruscello barbuto

E nessuno si muove accanto a Saba

 

Se non i re delle maree, famelici;

Il Peccato che forma ebbe femminea

Dorme, finché il Silenzio non squilli in una nuvola

E tutte le acque commosse balzino e s’incamminino.

 

Lucifero, quell’escremento d’uccello

Piombato dal nord, è sparito

E s’è perso, per sempre s’è perso

Sotto le volte del suo respiro.

 

Venere giace, nella sua ferita, colpita

Da un astro, e le rovine sensuali creano

Stagioni sopra il liquido universo,

Il bianco spunta nelle tenebre.

 

Per sempre addio, gridarono le voci

Dalla conchiglia, addio poiché la carne è gettata

E il pescatore riavvolge il rocchetto

Con non più desiderio d’un fantasma.

 

Buona fortuna, inneggiarono, caduta la notte,

L’uccello con pinne di piuma e il pesce ridente,

Mentre le vele bevevano il saluto del tuono

E il fulmine lungo di coda illuminava la preda.

 

Nella stagione che dura sei anni il battello s’inoltra,

Un vento getta un’ombra e subito gela.

Guarda la lenza d’oro che cosa draga dal fondo

Di monti e gallerie fino alla cresta!

 

Guarda che cosa s’aggrappa al cranio e ai capelli

Mentre il battello avanza con ali che bevono!

Le statue della pioggia sono immobili

E cadono come colline i fiocchi di neve.

 

Stamburami e canta la pesante retata

Che oscilla sulla morata in una tormenta

Di luce! I ponti sono zuppi di miracoli.

Miracolo dei pesci! I lunghi morti addentano!

 

Dall’urna ch’è grande come un uomo

Dalla stanza che pesa come la sua angoscia

Dalla casa che contiene una città

Nel continente di un fossile

 

A uno a uno in polvere e sudario,

Aridi come echi e con volti d’insetto,

Gli avi di lui s’aggrappavano alla mano dell’esca

E la mano defunta conduce il passato.

 

Come fanciulli li conduce e come aria

Verso le cime sbattono alla cieca;

I secoli scrollano indietro i capelli

E i vecchi cantano con labbra neonate:

 

Il tempo partorisce un altro figlio.

Ammazza il tempo! Ella si torce nel dolore!

Già nella ghianda è abbattuta la quercia

E il falco uccide lo scricciolo nell’uovo!

 

Colui che insufflò il grande incendio

E si spense in un sibilo di fiamma

O passeggiava di sera sulla terra

Contano i dinieghi dei semi, ora s’arrampica

 

Aggrappandosi alla chioma che fluttua;

E colui che educava le loro labbra al canto

Ora piange col sole che s’è appena levato

Fra i liquidi cori delle proprie tribú.

 

La canna in giù si piega, divinando

La terra, e tra le acque separate, stretto

Alla mano di lei, lento avanza un giardino

Pieno d’uccelli e d’animali

 

D’uomini e donne, con cascate ed alberi

Freschi ed asciutti nel gorgo delle navi,

E muta e immota sopra il verde velo

La sabbia, con leggende nei vergini fianchi

 

E profeti clamanti sulle dune riarse;

Insetti e valli stringono le sue cosce,

Il tempo e i luoghi afferrano il suo sterno,

Ella rompe con nuvole e stagioni; l’acqua dolce

 

Fluttua intorno al suo polso e lo trascina;

Con pesci guizzanti e sassi tondi,

In su e in giù, lungo più vaste onde,

Un fiume separato fluisce e respira.

 

Stambura e cantami la sua preda di campi

Perché il maroso è seminato d’orzo,

Sulla schiuma coperta pascola il bestiame

E i colli hanno cacciato dai loro piedi le onde;

 

Con giumente marine e briglie fradice,

Con puledri salmastri e tempeste negli arti,

Tutti i cavalli della pesca dei miracoli

Galoppano pei verdi, arcati campi,

 

Galoppano e trottano con sopra i gabbiani

E i fulmini dentro la criniera.

O Roma, e Sodoma Domani, e Londra,

Di città è lastricata la campestre marea,

 

E i campanili bucano la nuvola sulla spalla dell’esca

E le vie che il pescatore setacciava

Quando la carne dalle lunghe gambe era vento di fuoco

E i lombi fiamma da caccia

 

Si snodano dai viali dei capelli di lei

E orribilmente a casa lo conducono vivo,

Conducono il prodigio a casa al suo terrore,

Al furioso mattatoio dell’amore.

 

Giù, giù, giù, giù nel profondo,

Sotto i villaggi che galleggiano,

Dall’acqua avvolta e incatenata dalla luna

Gira in tondo la metropoli dei pesci;

 

Del mare altro non resta che il rumore,

Il mare sonoro sotto la terra passeggia,

Sui letti di morte dei frutteti si spegne il battello

E tra i mucchi del fieno annega l’esca.

 

Terra, terra, terra, più nulla non resta

Del passeggiante, del famoso mare, se non le parole,

E nelle sue ciarliere sette tombe

L’ancora affonda nei pavimenti di una chiesa.

 

Addio, buona fortuna, rintoccano il sole e la luna

Al pescatore sperduto in terraferma.

Egli se ne sta solo, sulla porta di casa,

Col cuore dalle lunghe gambe in pugno.

 

 

Che del dire del tempo il poeta giovane lo attraversa sempre, come che il conoscere sia al di là del conoscere e non s’immischiasse con ciò che non può conoscere, o meglio il poeta, è nell’invisibile come nel visibile, e conosce vivi o morti, molto spesso senza mediazione, realmente nel suo poetare, la sua memoria spazia, ma gli avvenimenti appaiono anche nella loro visibile invisibilità, come tattili esperienze della coscienza, non si associano nella finzione della vita profanata, ma trovano una loro identità in tutto l’esistere, hanno nella vita del poeta un preciso momento, sia esso espressione misteriosa, ma come ho detto tattile, dell’invisibile come dell’invisibile, una traslazione che si apre alla conoscenza che non ha l’obbligo di possederla tutta nell’immaterialità del visibile, ma è un’esperienza a dir poco reale. E allora anche gli oggetti provengono da strade misteriose, o più esattamente avvenimenti profondamente reali, ma al di là dell’esperienza più organica della materia, e i ricordi si coniugano con la memoria che giunge fino al poeta, nell’esperienza concreta del reale, che si unisce e si amplifica, nell’anima nei sensi e nei pensieri. Il poeta giovane non è meno reale, dinnanzi a tali avvenimenti, a questa spiritualità. In quella storia ho ereditato un pezzo di memoria della madre di lei, ed è mio per sempre un oggetto di questa persona che io non ho mai visto. Non di meno ho avuto un amico, che mi ha lasciato in eredità un letto, il suo letto, attraverso i ricordi e la memoria di una persona conosciuta da entrambi e che ci conosceva, senza che io e lui ci fossimo mai visti, per una situazione dello spazio mentale, il suo letto l’ho donato per mezzo di questa persona, perché non posso dire di non averlo conosciuto, pur non avendoci mai parlato quando era ancora vivo. La vita è misteriosa.-

 

 Guy

 

C’era una volta

una notte e si correva  sulla spiaggia.

 

Oggi ho atteso invano, che il sole sorgesse.

Oggi ho atteso invano che la speranza che è in noi avesse luogo)

 

Oggi ho cercato tra la fantasia, la tua immagine

mio giovane amico.

Oggi son stato felice di scoprire

di esser stato per te qualcosa,

una luce, un gesto un pensiero d’aiuto,

per te che ci hai accompagnato lungo,

brevi, ma utili gesti della tua vita.

 

Io so, che ora tu ci attendi e ci guardi,

dalla limpidezza dei desideri realizzati,

dalla dolce felicità;

E, seppur lontano,

mi giunge il suono della tua armoniosa eternità.

 

Oggi ti ringrazio di avermi dato,

il poter pensarti.

 

Mio caro amico oltre i confini celesti.

 

Del mio e del giovane poetare e del leggere poesie giovanili, posso qui giungere, e fermarmi e lasciare al giovane poeta la rabbia pe gli stolti che s’ammazzano e disturbano la sua felicità, ma del poetar è poeta sempre e allor il suo passeggiar non s’indugia mai nella stoltezza e il suo lieto passar ovunque lo rende sempre poeta di tutto e sempre. Allora nel leggere poesie giovanili, il tempo e il luogo ancor ci regala ancor la più pura epoca di tutta le epoche che se tutti i poeti son grandi tale, io non posso non rimirar il tutto tempo e moderno con Dante Leopardi e con quel che m’appresto per ultimo a leggere, perché per ultimo stupidamente lo si dice il primo moderno dagli storici, e per dunque con Campana e gli altri due, tutta la poesia c’è già ancora, e che tutta questa grandezza la si può leggere più grati del gratis, del libero poetar di sempre, è pelle loro tutto questo.

 

Poesia facile

 

   Pace non cerco, guerra non sopporto

Tranquillo e solo vo pel mondo in sogno

Pieno di canti soffocati. Agogno

La nebbia e il silenzio in gran porto.

 

In un gran porto pieno di vele lievi

Pronte a salpar per l’orizzonte azzurro

Dolci ondulando, mentre che il sussurro

Del vento passa con accordi brevi.

 

E quegli accordi il vento se li porta

Lontani sopra il mare sconosciuto.

Sogno. La vita è triste ed io son solo.

 

O quando o quando in un mattino ardente

L’anima mia si sveglierà nel sole

Nel sole eterno, libera e fremente.

 

 

Batte Botte

 

Ne la neve

Che scuote,

Con le navi che percuote

Di un’aurora

Sulla prora

Splende un occhio

Incandescente:

(Il mio passo

Solitario

Beve l’ombra

Per il Quai)

Ne la luce

Uniforme

Da le navi

A le città

Solo il passo

Che a la notte

Solitario

Si percuote

Per la notte

Dalle navi

Solitario

Ripercuote:

Così vasta

Così ambigua

Per la notte

Così pura!

L’acqua (il mare

Che esala?)

A le rotte

Ne la notte

Batte: cieco

Per le rotte

Dentro l’occhio

Disumano

De la notte

Di un destino

Ne la notte

Più lontano

Per le rotte

De la notte

Il mio passo

Batte botte.

 

 

In un momento

 

   In un momento

Sono sfiorite le rose

I petali caduti

Perché io non potevo dimenticare le rose

Le cercavamo insieme

Abbiamo trovato delle rose

Erano le sue rose erano le mie rose

Questo viaggio chiamavamo amore

Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose

Che brillavano un momento al sole del mattino

Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi

Le rose che non erano le nostre rose

Le mie rose le sue rose

 

P.S. E così dimenticammo le rose.

 

 

 

 

 

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